Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17981 del 04/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 04/07/2019, (ud. 29/05/2019, dep. 04/07/2019), n.17981

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – Consigliere –

Dott. PERINU Renato – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3691/2015 R.G. proposto da:

AEDES NOVA SRL, rappresentata e difesa dall’avv. Alessandro Biaggi,

elettivamente domiciliata presso di lui, in Roma, via Francesco

Denza n. 27 (c/o studio Vannutelli Patrizio).

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio,

sezione n. 28, n. 3912/28/2014, pronunciata il 14/04/2014,

depositata il 12/06/2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 maggio

2019 dal Consigliere Riccardo Guida.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Aedes Nova Srl impugnò, innanzi alla CTP di Roma, l’avviso di accertamento che recuperava a tassazione IRES, IRAP, IVA, per l’annualità 2005, costi indeducibili (ai fini delle imposte dirette) e indetraibili (ai fini dell’IVA), per operazioni inesistenti;

la CTP di Roma, con la sentenza n. 10/37/2010, rigettò il ricorso e la CTR del Lazio, con la pronuncia in epigrafe, ha disatteso l’appello della contribuente;

il giudice d’appello ha condiviso le argomentazioni che avevano indotto la CTP a riconoscere la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa la non corrispondenza delle fatture a costi effettivamente sostenuti dall’impresa e l’assenza della prova contraria;

al riguardo, il giudice d’appello non ha reputato sufficiente l’emissione di assegni bancari e il loro addebito sui conti correnti della contribuente, in quanto gli stessi titoli potevano essere stati emessi proprio per simulare i pagamenti; ha aggiunto, che la società non aveva dedotto alcun elemento specifico per contrastare la parte dell’atto impositivo che contestava i costi indeducibili;

3. la contribuente propone ricorso, con tre motivi, per la cassazione di questa sentenza della CTR, mentre l’Agenzia resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo del ricorso, denunciando “1. Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3, ed erroneo apprezzamento delle acquisizioni istruttorie ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. (…). L’errata valutazione degli elementi citati (e la valutazione del contesto di fatto errato) porta la Commissione Tributaria Regionale a sbagliare completamente l’inquadramento concettuale della controversia, ponendo in essere una cd. “motivazione apparente”. Si deve eccepire violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c.”, la ricorrente assume che la CTR, interpretando erroneamente il tema del contendere, avrebbe fondato il proprio convincimento sull’erroneo presupposto che l’Ufficio avesse contestato l’indetraibilità dell’IVA in relazione a operazioni oggettivamente inesistenti, mentre, invece, come era dato evincere dalla motivazione dell’avviso di accertamento, l’addebito fiscale concerneva l’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti;

sulla base di questa premessa, censura la decisione impugnata per motivazione apparente;

1.1. il motivo è infondato;

si rileva che la ricorrente critica la sentenza della CTR muovendo dal mero postulato che la contestazione fiscale riguardasse la fittizietà delle fatture, emesse per operazioni soggettivamente inesistenti, secondo quanto sarebbe evincibile dalla motivazione dell’atto impositivo, e che il giudice d’appello, travisando i termini della vicenda, invece, abbia erroneamente qualificato le fatture come emesse per operazioni oggettivamente inesistenti;

ebbene, una simile linea difensiva, oltre a non essere supportata da alcun elemento di conoscenza, pecca per difetto d’autosufficienza giacchè, non essendo stato riprodotto, nel testo del ricorso per cassazione, il contenuto integrale dell’avviso di accertamento, non v’è ragione per affermare che le riprese fiscali attengano ad operazioni soggettivamente e non oggettivamente inesistenti;

tanto precisato sul piano generale, e venendo all’esame della doglianza, va richiamato l’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. 7/04/2014, nn. 8053 e 8054), per il quale: “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.”;

onde, a seguito della riforma del 2012 – proseguono le sezioni unite scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata;

le sezioni unite della Corte, inoltre, hanno statuito che: “La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto tale una motivazione caratterizzata da considerazioni affatto incongrue rispetto alle questioni prospettate, utilizzabili, al più, come materiale di base per altre successive argomentazioni, invece mancate, idonee a sorreggere la decisione).” (Cass. 3/11/2016, n. 22232);

nella controversia tributaria in esame, con riferimento al tema del decidere (indeducibilità dei costi e indetraibilità dell’IVA per operazioni inesistenti), come risulta con chiarezza dal complessivo tenore della decisione (che, nella parte narrativa – “fatto e svolgimento del processo” -, espone gli aspetti fattuali dell’azione accertatrice), la Commissione tributaria laziale ha congruamente motivato le ragioni del proprio convincimento;

innanzitutto, ha spiegato che l’Ufficio aveva fornito la prova che le fatture per acquisti in contestazione si riferivano a operazioni inesistenti, desunte da una serie di indici presuntivi che la CTR, alla stregua di un apprezzamento di fatto insindacabile nel giudizio di legittimità, ha riconosciuto come gravi, precisi e concordanti, connessi a varie irregolarità delle fatture, segnatamente: l’inesistenza dei soggetti emittenti alcune fatture; la non corrispondenza tra le partite IVA e le denominazione degli emittenti; l’indicazione – in fattura – di partite IVA di società cessate da anni; alcune anomalie nella redazione delle fatture;

in secondo luogo, completando il proprio percorso valutativo, ha escluso che gli elementi probatori addotti dalla contribuente (esibizione di copie di un contratto d’appalto, generico nel contenuto e privo degli elementi essenziali; produzione di alcuni assegni emessi a favore di soggetti che, per altro, avevano iniziato la propria attività in epoca successiva al 2005 o che, rispetto a quell’anno, l’avevano cessata da tempo), integrassero una prova contraria, idonea a contrastare il quadro presuntivo delineato dall’accertamento fiscale;

2. con il secondo motivo, denunciando: “2. Il giudice della CTP ha errato nell’applicazione delle norme che disciplinano il corretto riparto dell’onere della prova. Vengono quindi violate l’art. 2729 c.c., l’art. 2697 c.c., oltre che il D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19, 28, 54, oltre che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39.”, la ricorrente censura la decisione impugnata, che avrebbe disatteso le regole sul riparto dell’onere della prova e, ancora, avrebbe erroneamente ritenuto che gli elementi presuntivi, offerti dall’Amministrazione finanziaria, a dimostrazione degli addebiti, fossero gravi, precisi e concordanti e, in tal modo, avrebbe illegittimamente invertito l’onere della prova, ponendola contra legem a carico della contribuente;

2.1. il motivo è infondato;

come suaccennato (p. 1.1.), nessun elemento obiettivo consente di ritenere che la contestazione d’indebita deduzione di costi e d’indebita detrazione dell’IVA riguardi operazioni soggettivamente e non oggettivamente inesistenti;

ciò precisato, con riferimento al tema della distribuzione, tra Amministrazione finanziaria e contribuente, dell’onere probatorio, in materia di operazioni oggettivamente inesistenti, questa Corte (Cass. 5/07/2018, n. 17619), anche di recente, ha avuto modo di precisare che, poichè la fattura, di regola, costituisce titolo per il contribuente, ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA e alla deducibilità dei costi, spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto;

detta dimostrazione può ben consistere in presunzioni semplici, poichè la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa, alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. 6/06/2012, n. 9108);

nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, cioè sia una mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, e quindi contesti l’indebita detrazione dell’IVA e/o deduzione dei costi, ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera” o una società “fantasma”) e a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (Cass. 30/10/2013, n. 24426);

quest’ultima prova non può consistere, però, nell’esibizione della fattura, nè nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (ex multis: Cass. 3/12/2001, n. 15228, 10/06/2011, n. 12802);

nel caso in esame, la CTR, conformandosi ai principi in materia di onere probatorio: per un verso, ha affermato che l’Ufficio aveva fornito elementi idonei a dimostrare l’inesistenza delle operazioni documentate dalle fatture di cui trattasi; per altro verso, seguendo la scia della giurisprudenza di legittimità (vedi supra), ha escluso che la contribuente avesse dimostrato il contrario, non ritenendo sufficiente la documentazione dalla stessa prodotta in giudizio a supporto dell’asserito pagamento delle fatture contestate;

3. con il terzo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione di norme di diritto “ex art. 360, nn. 3, 4 e 5,” e degli artt. 2697, 2729, 1147, la ricorrente assume che, quando l’Amministrazione finanziaria intenda disconoscere i costi dedotti e l’IVA detratta, debba provare la mancanza di buona fede contrattuale del soggetto sottoposto a verifica;

critica, pertanto, la decisione della CTR che, in assenza di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, oltre che oggettivamente riferibili al caso concreto, in aderenza al principio di neutralità dell’IVA, nel rispetto del principio del legittimo affidamento del contribuente, avrebbe dovuto rilevare la carenza di motivazione dell’avviso di accertamento, che non aveva verificato la buona fede della contribuente;

3.1. il motivo è inammissibile;

il giudizio di cassazione è a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito;

ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.;

nella specie, il complesso motivo del ricorso, sussunto, contemporaneamente, nei diversi paradigmi della violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), dell’error in procedendo (ibidem, n. 4), e dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (ibidem, n. 5), contiene – in sostanza – una critica del tutto generica, inammissibilmente ampia e incerta nella fisionomia;

sicchè è demandato, in modo non consentito, a questa Corte il compiuto di sostituirsi al ricorrente al fine di enucleare, dall’insieme indistinto delle doglianze congiuntamente proposte, autonomi profili di censura (Cass. 18/04/2018, n. 9486);

4. da queste considerazioni consegue che, infondati il primo e il secondo motivo e inammissibile il terzo, il ricorso è rigettato;

5. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 29 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019

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