Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17975 del 01/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 01/09/2011, (ud. 14/07/2011, dep. 01/09/2011), n.17975

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato MASCHERONI EMILIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

B.E.;

– intimato –

sul ricorso 25140-2007 proposto da:

B.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.

GENTILE 8, presso lo studio dell’avvocato MARTORIELLO MASSIMO,

rappresentato e difeso dall’avvocato COGO GIOVANNA, giusta delega in

atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 844/2006 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 18/09/200 R.G.N. 1864/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/07/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega MASCHERONI EMILIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 650/2003 il Giudice del Lavoro del Tribunale di Trapani, in accoglimento della domanda proposta da E. B. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato, per il periodo 17-7-2000/23-8-2000 ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall’accordo 25-9-97, e condannava la società a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli le retribuzioni maturate dal 15-2-2003 fino all’effettiva riammissione, oltre accessori di legge.

Sull’appello della società, resistito dal B., la Corte d’Appello di Palermo, con sentenza depositata il 18-9-2006, confermava la pronuncia di primo grado.

Per la cassazione della detta sentenza la società ha proposto ricorso con sei motivi.

Il B. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con un unico motivo.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, degli artt. 1175, 1375,2697, 1427 e 1431 c.c., e degli artt. 100, 101, 116, 420 e 437 c.p.c., e nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., la ricorrente in sostanza lamenta che la Corte territoriale ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso nonostante la prolungata inerzia del lavoratore e deduce che a fronte di tale manifestato disinteresse doveva presumersi l’estinzione per mutuo consenso, con conseguente onere sul lavoratore di dimostrare le circostanze contrarie alla detta presunzione. La ricorrente lamenta inoltre che la Corte di merito ha considerato rilevante al riguardo una circolare aziendale inesistente agli atti di causa.

Con il secondo motivo la ricorrente censura la decisione della Corte territoriale, su tale ultimo punto, anche sotto il profilo motivazionale.

Entrambi i motivi, che in quanto connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano infondati.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621, nonchè da ultimo Cass. 11 -3-2011 n. 5887).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevandosi, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279).

Orbene nella fattispecie la Corte territoriale, dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità in materia, ha osservato che “nella specie, da un lato nessuna prova è stata fornita al riguardo da Poste Italiane s.p.a.; dall’altro l’inerzia della lavoratrice dopo la cessazione dell’attività lavorativa è da attribuire, alla luce del successivo ricorso della medesima proposto all’autorità giudiziaria, ad una fiduciosa aspettativa di essere integrata a tempo pieno nell’organico dell’azienda o, quanto meno, di essere nuovamente destinataria di un altro contratto a termine, evenienza quest’ultima cui la società appellata ha fatto ricorso in varie occasioni”.

Tale valutazione, conforme ai principi sopra richiamati e sorretta da congrua motivazione, resiste alle censure della società ricorrente.

Peraltro la Corte di merito ha anche rilevato che “non va poi trascurato l’ulteriore elemento, secondo cui, in base alla circolare di Poste Italiane, richiamata dalla stessa appellante, in “nessun caso” potevano essere “stipulati contratti a tempo determinato con i soggetti che hanno in atto un contenzioso giudiziale od extragiudiziale nei confronti di Poste Italiane con riferimento al/ai contratto/i in precedenza stipulati con questa azienda”, circostanza questa che comprova come l’apparente inerzia dell’appellata era dettata da un cauto comportamento volto a non pregiudicare irrimediabilmente una sua futura riassunzione”.

Trattandosi chiaramente di una ulteriore considerazione svolta ad abundantiam dai giudici di merito, le censure contro la stessa avanzate dalla ricorrente risultano, poi, in quanto tali inammissibili (v. Cass. 22-11-2010 n. 23635, Cass. 23-11-2005 n. 24591, Cass. 17-2-2004 n. 3002).

Con il terzo motivo la società, denunciando violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 deduce che il potere dei contraenti collettivi di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle normativamente previste, stabilito dal citato L. n. 56 del 1987, art. 23 “può essere esercitato senza limiti di tempo, tenuto conto che la suddetta legge non prevede alcun limite temporale al riguardo”.

Con il quarto motivo, denunciando violazione dell’art. 23 citato, dell’art. 8 del ccnl del 1994, nonchè degli accordi sindacali successivi, in reazione all’art. 1362 c.c. e segg., la ricorrente in sostanza ribadisce la tesi della natura meramente ricognitiva (del permanere delle esigenze connesse alla ristrutturazione) degli accordi attuativi dell’accordo del 1997 e lamenta che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che gli stessi abbiano fissato dei limiti temporali alla possibilità per la società di stipulare al riguardo contratti a termine.

Con il quinto motivo a ricorrente denuncia omessa e insufficiente motivazione sul punto, deducendo che la sentenza impugnata avrebbe “esposto in modo inidoneo le ragioni circa il rapporto, asseritamente sussistente, tra il contratto collettivo, l’Accordo sindacale del 25- 9-97 e i successivi c.d. accordi attuativi, in relazione al supposto limite temporale a cui sarebbero subordinate le assunzioni a termine effettuate dalla società”.

Su tali motivi (dal terzo al quinto), connessi fra loro, rileva il Collegio che, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato ripetutamente affermato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato,” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v.

fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In applicazione di tale principio ed in tali sensi correggendosi in parte la motivazione dell’impugnata sentenza (che ha ritenuto di spostare ulteriormente al 31-12-1998 il termine previsto dalle parti collettive per la stipula dei contratti a termine de quibus, in base all’Addendum del settembre 1998, che riguardava il part-time) va quindi confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, in quanto concluso successivamente al 30-4-1998, risultando superfluo l’esame di ogni altra questione al riguardo.

Con il sesto motivo, denunciando violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094 e 2099 c.c., la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa “nella violazione dei principi e delle norme di legge sulla messa in mora e sulla corrispettività delle prestazioni”, in particolare in quanto la Corte territoriale “pur affermando che il diritto alla retribuzione può sorgere solo con la messa in mora” non avrebbe “verificato se vi fosse effettiva costituzione in mora del datore di lavoro da parte del datore di lavoro”, peraltro omettendo di “accertare se ed in che misura i ricorrenti avessero svolto ulteriori e successive attività lavorative in epoca successiva alla scadenza del termine”, in ordine alle quali la società, “al di là” delle richieste avanzate di informazioni presso l’UPLMO e di esibizione dei modelli 740 della lavoratrice, “non poteva essere in grado di produrre o provare alcunchè”.

La ricorrente formula, quindi, ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis, il seguente quesito di diritto:

“Dica la Suprema Corte adita: se in applicazione del principio di sinallagmaticità che disciplina il rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, l’accertamento della nullità dell’apposizione del termine comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni per l’intervallo in cui non ha reso la prestazione e se dalle somme dovute a titolo risarcitorio ed in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1218 c.c. e segg. e dell’art. 2043 c.c. e segg., in quanto dai primi richiamati, devono detrarsi i ricavi percepiti o percepibili facendo uso della ordinaria diligenza (rientrando detti ultimi tra le ipotesi di danno riconducibile a fatto e colpa del soggetto che si assume danneggiato) dal lavoratore (sul quale graverebbe conseguentemente l’onere di provare di aver posto in essere ogni attività utile ad eliminare o limitare il danno) che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa”.

Osserva il Collegio che tale quesito risulta del tutto astratto e privo di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta, in quanto si risolve soltanto nella mera enunciazione astratta del principio invocato dalla ricorrente, senza enucleare il momento e le ragioni di conflitto rispetto ad esso del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. Cass. 4-1-2011 n. 80 e Cass. 29-4- 2011 n. 9583, nonchè, in particolare sul medesimo quesito, Cass. 7-4- 2011 n. 7955).

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. In particolare “deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo” e “la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v. Cass. 30-9-2008 n. 24339, v. anche Cass. 20-6-2008 n. 16941).

Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v.

Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr.

Cass, 7-4-2009 n. 8463).

Mancando tali elementi il quesito in esame deve ritenersi inammissibile.

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche le censure risultano del tutto generiche e neppure propriamente conferenti rispetto alla fattispecie concreta e al decisum.

In primo luogo, infatti, la ricorrente lamenta una mancanza di verifica della messa in mora da parte della Corte territoriale, trascurando del tutto che la sentenza impugnata, dopo aver richiamato la necessità di una messa a disposizione del datore di lavoro della prestazione lavorativa in termini chiari ed inequivocabili, ha espressamente affermato che nella fattispecie la richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, considerata dal primo giudice, non solo conteneva l’espressa “messa a disposizione della prestazione lavorativa a favore della società da parte del ricorrente”, ma era stata “ritualmente inviata alla sede legale della società, come sui evinceva dalla lettera raccomandata prodotta dal B. e dal relativo avviso di ricevimento, che ne comprovava l’avvenuta ricezione da parte della società.

Lo stesso dicasi per quanto concerne l’aliunde perceptum, giacchè sul punto la impugnata sentenza ha affermato che lo stesso era stato dedotto dalla società “in termini di mera possibilità e senza il minimo riscontro di natura obiettiva” e la ricorrente neppure specifica come ed in quali termini sia stata svolta una allegazione, al riguardo comunque necessaria.

Nè potrebbe, infine, ritenersi ammissibile in questa sede la doglianza (ignorata nel quesito) relativa al mancato accoglimento delle richieste (peraltro meramente esplorative) di informazioni all’UPLMO e di esibizione dei modelli 740 della lavoratrice (sulla prima v. Cass. 15-2-2011 n. 3720, Cass. 27-6-2003 n. 10219, sulla seconda v. Cass. 16-11-2010 n. 23120, Cass. 29-10-2010 n. 22196, Cass. 23-2-2010 n. 4375, Cass. 2-2-2006 n. 2262, nonchè Cass. Cass. 20-12-2007 n. 26943).

Così risultato inammissibile il sesto motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010.

In proposito, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso principale va pertanto respinto con la conseguenza che il ricorso incidentale (con il quale il B. censura la impugnata sentenza per aver respinto nel merito la eccezione di risoluzione per mutuo consenso anzichè ritenerla inammissibile in quanto proposta per la prima volta in appello) – da considerarsi sostanzialmente condizionato – va dichiarato assorbito.

Il ricorrente incidentale, infatti, risultato del tutto vittorioso, manca d’interesse alla pronuncia sulla propria impugnazione, il cui eventuale accoglimento non potrebbe procurargli un risultato più favorevole di quello derivante dal rigetto del ricorso principale (v.

Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26018, cfr. Cass. S.U. 6-3-2009 n. 5456, Cass. S.U. 4-11-2009 n. 23318).

Infine, in ragione della soccombenza, la società va condannata al pagamento delle spese in favore del B..

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale; condanna la società a pagare al B. le spese liquidate in Euro 36,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 14 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2011

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