Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17974 del 01/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 01/09/2011, (ud. 14/07/2011, dep. 01/09/2011), n.17974

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato MASCHERONI EMILIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 978/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 31/08/2006. r.g.n. 923/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/07/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega MASCHERONI EMILIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per l’accoglimento con riferimento

al primo contratto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 1362/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Cosenza, in accoglimento della domanda proposta da E. C. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 20-6- 1997, per il periodo 26-6-1997/20-9-1997, per “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie”, e condannava la società alla riammissione in servizio della lavoratrice e al pagamento delle retribuzioni maturate dal 30-9-2002.

Sull’appello della società, resistito dalla C., la Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza depositata il 31-8-2006, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto successivo stipulato il 14- 3-2000, per il periodo 20-3-2000/18-5-2000, per “esigenze eccezionali” ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall’acc. az. 25-9-97 e succ., con la conseguente sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato dal 20-3-2000 e condannava la società al risarcimento del danno, in misura pari alle retribuzioni dal 30-7- 2002 al 6-9-2005 (data delle dimissioni della lavoratrice).

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con otto motivi.

La C. è rimasta intimata.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, degli artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 c.c., e art. 100 c.p.c., la ricorrente in sostanza lamenta che la Corte territoriale ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso nonostante la prolungata inerzia della lavoratrice e la percezione da parte della stessa del t.f.r. senza contestazione alcuna e deduce che a fronte di tale manifestato disinteresse doveva presumersi l’estinzione per mutuo consenso, con conseguente onere sulla lavoratrice di dimostrare le circostanze contrarie alla detta presunzione.

Con il secondo motivo la ricorrente censura la decisione della Corte di merito, sul punto, anche sotto il profilo motivazionale.

Entrambi i motivi, che in quanto connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano infondati.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621, nonchè da ultimo Cass. 11-3-2011 n. 5887).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevandosi, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279).

Orbene nella fattispecie la Corte territoriale, dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità in materia, ha osservato che “la fattispecie che si vorrebbe tipizzare conferendo un significato concludente al comportamento inerte di una delle parti (lavoratore) successivamente alla scadenza del termine, non riesce a concretizzarsi nella vicenda in esame per l’equivocità del significato attribuibile, sul piano giuridico, al silenzio”.

In particolare la Corte ha rilevato che l’appellante “non ha addotto alcun elemento concreto da cui possa desumersi che l’appellata abbia inteso rinunciare, o, comunque, prestare acquiescenza” alla cessazione del rapporto (avvenuta poi, soltanto con le dimissioni presentate il 6-9-2005), evidenziando che “ciò assume particolare rilievo nel caso in esame se si considera che il tempo trascorso tra la scadenza del contratto e le contestazioni della lavoratrice appare tutt’altro che eccessivo e significativo nel senso voluto dall’appellante in presenza di una situazione di incertezza che coinvolgeva moltissimi lavoratori assunti a termine dalle Poste, con pronunce contrastanti dei giudici di merito”.

Tale valutazione, conforme ai principi sopra richiamati e sorretta da adeguata motivazione, resiste alle censure della società ricorrente.

Con il terzo motivo, denunciando vizio motivazione, la ricorrente, in sostanza lamenta che, circa l’ambito temporale della possibilità di stipulare contratti a termine ai sensi dell’acc. az. 25-9-97, la Corte di merito contraddittoriamente “ha prima ammesso e poi negato l’ampiezza della delega riconosciuta alla contrattazione collettiva nella individuazione di ipotesi di assunzione a termine”, richiedendo, nel contempo, “l’introduzione di un rigido limite temporale di validità ad una fattispecie che riguarda problemi strutturali della società” che non possono trovare soluzione in tempi brevi.

Con il quarto motivo la società, denunciando violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 deduce che il potere dei contraenti collettivi di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle normativamente previste, stabilito dal citato L. n. 56 del 1987, art. 23 “può essere esercitato senza limiti di tempo, tenuto conto che la suddetta legge non prevede alcun limite temporale al riguardo”.

Con il quinto motivo, denunciando violazione dell’art. 23 citato, dell’art. 8 del ccnl del 1994, nonchè degli accordi sindacali successivi, in reazione all’art. 1362 c.c. e segg., la ricorrente in sostanza ribadisce la tesi della natura meramente ricognitiva (del permanere delle esigenze connesse alla ristrutturazione) degli accordi attuativi dell’accordo del 1997 e lamenta che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che gli stessi abbiano fissato dei limiti temporali alla possibilità per la società di stipulare al riguardo contratti a termine.

Con il sesto motivo a ricorrente denuncia omessa e insufficiente motivazione sul punto, deducendo che la sentenza impugnata avrebbe “esposto in modo inidoneo le ragioni circa il rapporto, asseritamente sussistente, tra il contratto collettivo, l’Accordo sindacale del 25- 9-97 e i successivi c.d. accordi attuativi, in relazione al supposto limite temporale a cui sarebbero subordinate le assunzioni a termine effettuate dalla società”.

Su tali motivi (dal terzo al sesto), connessi fra loro, osserva il Collegio che la Corte di merito, tra l’altro, ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1.994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al termine nel quale “cessava l’efficacia della disposizione contrattuale che consentiva l’apposizione di un termine, formalmente ed anche sostanzialmente, atteso che le parti sociali, evidentemente, valutando le esigenze eccezionali della società li avevano ritenute apprezzabili per quel periodo e non oltre”.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo.

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato”. (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v.

fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In applicazione di tale principio va quindi confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, così rigettandosi in particolare il quinto e il sesto motivo e risultando superfluo l’esame delle altre censure al riguardo.

Con il settimo motivo, denunciando violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094, 2099 c.c., la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe incorsa “nella violazione dei principi e delle norme di legge sulla messa in mora e sulla corrispettività delle prestazioni”, in particolare in quanto la Corte territoriale “pur affermando che il diritto alla retribuzione può sorgere solo con la messa in mora” non avrebbe “verificato se vi fosse effettiva costituzione in mora del datore di lavoro da parte del datore di lavoro”, peraltro omettendo di “accertare se ed in che misura i ricorrenti avessero svolto ulteriori e successive attività lavorative in epoca successiva alla scadenza del termine”, in ordine alle quali la società, “al di là” delle richieste avanzate di informazioni presso l’UPLMO e di esibizione dei modelli 740 della lavoratrice, “non poteva essere in grado di produrre o provare alcunchè”.

La ricorrente formula, quindi, ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis, i seguenti quesiti di diritto:

“1) Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 c.c. e segg..

2) In ipotesi di accertamento della nullità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro e di riconoscimento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni maturale, in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1218 c.c. e segg. e dell’art. 2043 c.c. e segg., devono detrarsi i ricavi percepiti o percepibili facendo uso della ordinaria diligenza (rientrando detti ultimi tra le ipotesi di danno riconducibile a fatto e colpa del soggetto che si assume danneggiato) dal lavoratore (sul quale grava conseguentemente l’onere di provare di aver posto in essere ogni attività utile ad eliminare o limitare il danno) che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa”.

Osserva il Collegio che il quesito sub 1), riguardante la mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 e Cass. 29-4-2011 n. 9583).

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. In particolare “deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo” e “la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v. Cass. 30-9-2008 n. 24339).

Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v.

Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr.

Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la esposizione della censura risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la asserita mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, trascurando che la sentenza impugnata, dopo aver richiamato la necessità di una messa a disposizione del datore di lavoro della prestazione lavorativa in termini chiari ed inequivocabili, ha espressamente affermato che “nel caso in esame correttamente il Tribunale ha ravvisato nella notifica della lettera di messa in mora del 22 luglio 2002 tale esplicita manifestazione di volontà dell’appellata”. Nel censurare tale statuizione, infatti, la ricorrente, anzichè lamentare genericamente una mancata verifica della messa in mora, avrebbe dovuto innanzitutto, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, riportare il contenuto della detta lettera (che secondo il suo assunto non avrebbe integrato una costituzione in mora), specificando, poi, sotto quali profili la decisione impugnata sarebbe stata censurabile.

Per la stessa genericità e mancanza di autosufficienza va, poi, ritenuto inammissibile anche l’ottavo motivo (strettamente connesso con la prima censura del settimo motivo) con il quale la ricorrente lamenta vizio di motivazione sul punto, semplicemente assumendo che la sentenza impugnata ha disposto la corresponsione delle retribuzioni dalla data della citata lettera nonostante che il relativo atto fosse “inidoneo alla costituzione in mora”.

Parimenti, per quanto concerne l’aliunde perceptum, il quesito sub 2), relativo alla seconda censura del settimo motivo, risulta assolutamente generico, risolvendosi soltanto nella mera enunciazione astratta del principio invocato dalla ricorrente, come tale inidonea ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (v. fra le altre Cass. 24339/2008 cit. nonchè Cass. 20-6-2008 n. 16941).

Del resto anche la relativa censura risulta del tutto generica e astratta e priva di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta.

Nè potrebbe ritenersi ammissibile in questa sede la doglianza (ignorata nel quesito) relativa al mancato accoglimento delle richieste (peraltro meramente esplorative) di informazioni all’UPLMO e di esibizione dei modelli 740 della lavoratrice (sulla prima v.

Cass. 15-2-2011 n. 3720, Cass. 27-6-2003 n. 10219, sulla seconda v.

Cass. 16-11-2010 n. 23120, Cass. 29-10-2010 n. 22196, Cass. 23-2-2010 n. 4375, Cass. 2-2-2006 n. 2262, nonchè Cass. Cass. 20-12-2007 n. 26943).

Così risultati inammissibili i motivi settimo e ottavo, riguardanti le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto.

Infine non deve provvedersi sulle spese, non avendo la intimata svolto alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 14 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2011

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