Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17969 del 01/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 01/09/2011, (ud. 14/07/2011, dep. 01/09/2011), n.17969

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato VELLA GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

V.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 836/2006 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 23/08/2006 r.g.n. 1176/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/07/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO DI CERBO;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega GIUSEPPE VELLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

La Corte:

Fatto

FATTO E DIRITTO

Considerato che:

1. la Corte d’appello di Genova ha confermato la sentenza di prime cure che aveva dichiarato, in particolare, l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro con decorrenza 17 gennaio 2000 stipulato da Poste Italiane s.p.a. con V.E.;

2. per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso; la lavoratrice è rimasta intimata;

3. il Collegio ha disposto che sia adottala una motivazione semplificata;

4. come si evince dalla sentenza impugnata V.E. è stata assunta con contratto a termine con decorrenza 17 gennaio 2000 e con termine finale 29 febbraio 2000; tale contratto è stato stipulato a norma dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine fa presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane;

secondo la Corte territoriale, mentre doveva ritenersi la legittimità, alla stregua del disposto della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 dell’ipotesi di contratto a termine introdotta dallo strumento negoziale, vi erano però da considerare successivi accordi sindacali, i quali avevano stabilito limiti temporali alla possibilità dell’azienda di avvalersi del tipo contrattuale in questione; un siffatto limite era stato prima individuato nella data del 30 aprile 1998, con l’accordo “attuativo” 16 gennaio 1998;

dall’esame di un successivo accordo in data 27 aprile 1998 e del c.d.

addendum all’art. 7 del c.c.n.l. del 1998, la Corte desumeva che, in ogni caso, la data fissata dall’addendum (31 dicembre 1998) doveva intendersi come riferita non all’assunzione ma alla scadenza dei contratti con la conseguente illegittimità del contratto individuale in esame che prevedeva la scadenza del termine al 29 febbraio 2000;

5. la suddetta impostazione è stata ampiamente censurata dalla società ricorrente la quale, col primo motivo di censura contesta, in particolare, l’interpretazione data dalla Corte di merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli accordi dalla stessa definiti come attuativi;

6. la censura deve essere rigettata, anche se la motivazione della sentenza merita di essere parzialmente corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2.

correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la contrattazione collettiva abbia fissato termini di scadenza dell’autorizzazione alla stipula di contratti a termine per l’ipotesi sopra specificata; deve ricordarsi in proposito che con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr, ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione..), dopo il 30 aprile 1998; premesso, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte, che in questa sede deve essere pienamente ribadita, ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo;

ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453);

ha rilevato altresì che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senzasenso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866);

ha, infine, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddette conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141);

il sopra citato orientamento di queste Corte deve essere pienamente confermato;

appare invece inesatte la statuizione della Corte territoriale secondo cui gli accordi attuativi ebbero a stabilire, non i termini entro i quali era consentita l’adozione del tipo contrattuale, ma proprio i termini che legittimamente potevano essere apposti ai contratti individuali;

queste Corte Suprema (cfr. Cass. 10 gennaio 2006 n. 166), decidendo su un ricorso avverso una sentenza della Corte d’appello di Genova basata sulla medesima interpretazione dell’accordo in data 27 aprile 1998 e del c.d. addendum all’art. 7 del c.c.n.l. del 1998, ha ritenuto tale interpretazione viziate per violazione delle regole sull’interpretazione dei contratti; in particolare ha osservato che l’interpretazione accolta dalla Corte di merito ha finito per attribuire all’accordo 27 aprile 1998 l’effetto di chiarire l’intento delle parti al di là del significato letterale di altre previsioni pattizie, precedenti e persino successive, in violazione dell’art. 1362 c.c. e con motivazione insufficiente e contraddittoria;

anche l’orientamento da ultimo citato deve essere in questa sede pienamente ribadito; tuttavia il conseguente accoglimento della censura sotto questo profilo non determina la cassazione della sentenza impugnate, atteso che il dispositivo in essa contenuto deve ritenersi conforme a diritto; ed infatti, essendo stato accertato in fatto che il contratto de quo è stato stipulato con decorrenza 17 gennaio 2000, lo stesso, come si è in precedenza rilevato, doveva ritenersi comunque illegittimo in quanto la sua decorrenza era successiva alla scadenza del termine concordato fra le parti con i ed. accordi attuativi;

7. l’ultimo motivo la società ricorrente censura la statuizione della sentenza impugnate che ha rigettato l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso;

il motivo è infondato; secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., in particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554) nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto) per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertate – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto; nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non fosse sufficiente, stente la sua durate, e in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e tele conclusione in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso;

8. il ricorso deve essere in definitiva rigettato, non essendo stata, peraltro, avanzate alcuna altra censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine;

con riferimento al problema dell’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, e cioè della possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti ai quali fa riferimento il citato comma 7 anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070); tale condizione non sussiste nella fattispecie;

9. nulla deve essere disposto in materia di spese legali concernenti il giudizio di cassazione atteso il mancato svolgimento di attività processuale da parte della lavoratrice, rimasta intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2011

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