Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17965 del 14/08/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 17965 Anno 2014
Presidente: SALME’ GIUSEPPE
Relatore: FRASCA RAFFAELE

SENTENZA
sul ricorso 23188-2008 proposto da:
TORRESI ANTONIA TRRNTN36S43H501F, quale erede con
beneficio d’inventario della signora FERNANDA
FICORELLA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE
BRUNO BUOZZI 82, presso lo studio dell’avvocato
GREGORIO IANNOTTA, che la rappresenta e difende
giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente
contro

CONDOMINIO VIA ALBERTO CADLOLO 54 ROMA 80105600581,
in persona dell’amministratrice pro tempore dr.ssa

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Data pubblicazione: 14/08/2014

MARIA GRAZIA MARCHETTI, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA COLA DI RIENZO 212, presso lo studio
dell’avvocato MARINUCCI GIANLORENZO, che lo
rappresenta e difende giusta procura a margine del
controricorso;

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 24/07/2007, R.G.N. 11012/2002;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 30/04/2014 dal Consigliere Dott. RAFFAELE
FRASCA;
udito l’Avvocato TULLIA TORRESI per delega;
udito l’Avvocato GIANLORENZO MARINUCCI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. AURELIO GOLIA che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso;

2

– controricorrente

R.g.n. 23188-08 (ud. 30.4.2014)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

§1. Antonia Torresi ha proposto ricorso per cassazione contro il Condominio di via
Alberto Cadlolo 54 di Roma avverso la sentenza del 24 luglio 2007, con la quale la Corte
d’Appello di Roma ha rigettato il suo appello contro la sentenza del 2001, con cui il
Tribunale di Roma, investito da Fernanda Ficorella, sua dante causa iure hereditatis, nel
marzo del 1990 della domanda intesa ad ottenere il risarcimento di danni subiti ad un suo

appartamento in forza della mancata esecuzione di un precedente giudicato della stessa
Corte capitolina, intervenuto nel 1985, nonché della richiesta di non dover corrispondere
oneri condominiali in conseguenza dell’inagibilità dell’immobile, aveva accolto
parzialmente la domanda di risarcimento del danno e rigettato l’altra domanda.
§2. Al ricorso ha resistito con controricorso il Condominio.
§3. Parte ricorrente ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

§1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione del giudicato interno
costituito dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 35015/2001, anche in relazione al
principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Art. 2909 c.c. e art. 112 c.p.c. in
relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.)”.
§1.1. L’illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto: «dica la Corte adita:

se, ai sensi degli art. 2909 c.c., il giudicato interno formatosi per la mancata
impugnazione incidentale della sentenza di condanna in primo grado da parte del
soccombente si estenda a tutti i presupposti di fatto giuridici essenziali nel percorso logico
che conduce alla pronuncia del Tribunale; se, quindi, il Giudice di appello, nel delibare
gravami avverso la sentenza del Tribunale per la parte non coperta dal giudicato interno,
possa negare un fatto la cui esistenza è accertata dal giudicato e, in violazione anche
dell’art. 112 c.p.c., possa riqualificare il giudicato con riguardo al petitum ed alla causa
petendi della domanda per come accolta.»
§1.2. I due quesiti prospettati non risultano idonei allo scopo di soddisfare il requisito
dell’art. 366-bis c.p.c., applicabile al ricorso, in quanto i due interrogativi che propongono,
che dovrebbero correlarsi alle due censure indicate nell’enunciazione dell’intestazione del
motivo, si presentano del tutto astratti e generici: infatti, non solo non presentano alcun
riferimento, pur sommario, alla vicenda concreta oggetto del giudizio, ma nemmeno fanno
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Est. Cos. Raffaele Frasca

3

R.g.n. 23188-08 (ud. 30.4.2014)

alcun riferimento alla motivazione della decisione impugnata, di modo che appaiono del
tutto privi del requisito della conclusività che era essenziale perché la formulazione di un
quesito di diritto fosse idonea, sul piano del raggiungimento dello scopo ad adempiere al
precetto di cui alla detta norma.
Invero, la conclusività era necessaria, perché un quesito di diritto, secondo i principi
generali delle nullità degli atti processuali, in tanto si palesava idoneo allo scopo previsto
dal legislatore, in quanto fosse stato tale da far percepire alla Corte di cassazione non già un

problema giuridico come astratta quaestio iuris, bensì come quaestio iuris relativa al caso
concreto siccome prospettata dal motivo. E poiché il caso concreto che perviene alla Corte
di cassazione è necessariamente individuato dalle coordinate che si muovono tra la
fattispecie concreta oggetto del giudizio di merito e la motivazione della decisione
impugnata, alle quali necessariamente si ricollega il motivo di ricorso, è palese che il
quesito doveva essere articolato evidenziando necessariamente dette coordinate.
§1.3. In sostanza, l’art. 366-bis c.p.c., quando esigeva che il quesito di diritto dovesse
concludere il motivo, imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la
prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del
procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva
concludere l’illustrazione del motivo ed il motivo si risolveva (come si risolve: Cass. n. 359
del 2005, seguita da numerose conformi ed il cui principio di diritto resta indifferente alle
numerose modifiche legislative in anni successivi apportate alla disciplina del ricorso per
cassazione) in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda
dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell’impugnazione e che appunto
dev’essere criticato dal motivo, appare evidente che il quesito, per “concludere”
effettivamente l’illustrazione del motivo e, quindi, per essere idoneo allo scopo, doveva
necessariamente contenere un riferimento riassuntivo al motivo e, quindi, al suo oggetto,
cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse
evidenziato — ancorché succintamente – perché l’interrogativo giuridico astratto era
giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un
quesito che non presentasse questa contenuto era, pertanto, un non-quesito (si veda, in
termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonché n. 6420 del 2008).
D’altro canto, se si fosse avallata l’idea che un quesito potesse non essere articolato
in modo “conclusivo” nel senso appena indicato, ne sarebbe derivata la conseguenza che al
ricorrente in cassazione sarebbe bastato, per ottemperare al requisito dell’art. 366-bis
prospettare alla fine dell’illustrazione del motivo un quesito purchessia per adempiere al
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Est. Cons. Raffa le Frasca

R.g.n. 23188-08 (ud. 30.4.2014)

detto requisito, salvo poi doversi constatare solo a posteriori, cioè tramite la lettura
dell’illustrazione se il quesito nella sua astrattezza risultava in qualche modo pertinente al
motivo. Il risultato di una simile interpretazione dell’art. 366-bis sarebbe stato allora quello
di vanificare il profilo funzionale della previsione del quesito, che era rappresentato
dall’assicurazione alla Corte di cassazione della possibilità di un’immediata percezione, pur
riassuntiva, della questione proposta dal motivo e, in ragione dello sforzo tecnico
riassuntivo così imposto al ricorrente, di assicurare che effettivamente il motivo

prospettasse una quaestio iuris nella logica sì dei m 1, 2, 3, e 4 dell’art. 360 c.p.c., ma in
rapporto con la vicenda oggetto del giudizio di merito per come sedimentatasi nella
decisione impugnata. E ciò quale logica conseguenza della finalizzazione del ricorso per
cassazione alla tutela, oltre che del jus constitutionis, anche del jus litigatoris (si veda
ampiamente, ex multis e da ultimo, Cass. n. 1221 del 2014).
§1.4. Tanto premesso, ritornando alla lettura del quesito di cui sopra, si rileva che la
Corte non è messa in grado di percepire, sebbene in modo sommario e riassuntivo, né
l’oggetto del preteso giudicato interno, né l’oggetto della sua estensione, né l’oggetto della
pretesa “riqualificazione” del non meglio identificato giudicato. D’altro canto, le assolute
indeterminatezze del quesito sotto tali profili si accompagnano, ex necesse, all’assenza di
indicazione, sempre in modo riassuntivo e sommario, del “come”, la motivazione della
sentenza impugnata si sia atteggiata rispetto ad essi.
§1.5. Il motivo — se si procedesse alla lettura della sua illustrazione – sarebbe,
comunque, inammissibile anche per inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c., atteso che si
fonda sulla sentenza di primo grado del Tribunale, ma, pur riproducendo parte del suo
contenuto, non indica — come imponeva il requisito della indicazione specifica di cui a
detta norma – se e dove essa sia stata prodotta in questo giudizio di legittimità, di modo che
la Corte (a prescindere dal rilievo che la mancata produzione potrebbe avere ai diversi
effetti di cui al n. 4 del secondo comma dell’art. 369 c.p.c.), se dovesse scrutinare il
“merito” del motivo, non risulta messa in grado di percepire dove riscontrare quanto
riprodotto nel relativo documento.
§1.6. Il motivo è dichiarato, dunque, inammissibile.
§2. Con il secondo motivo si deduce ” violazione del giudicato esterno costituito
dalla sentenza resa inter partes dalla Corte di appello di Roma n. 2169/1985 (art. 2909 c.c.
in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.).”
L’illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto: «Dica la Corte adita: se,
ai sensi degli artt. 2909 c. c., il giudicato esterno, costituito da sentenza resa tra le stesse
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Est. Cons. Raff le Frasca

R.g.n. 23188-08 (ud. 30.4.2014)

parti in altro giudizio sfociato nella condanna di una parte al risarcimento del danno sia
in forma specifica che per equivalente, faccia stato anche in relazione alla determinazione
dell’oggetto dell’obbligazione di fare scaturente dalla sentenza stessa (nella specie,
condanna a facere il cui oggetto è individuato con riferimento alla CTU ed esteso
comunque al ripristino della pavimentazione) e all’accertamento, specificamente
enunciato, che le opere eseguite medio tempore dalla parte danneggiata sarebbero state
comunque necessaria per l’adempimento di tale facere; se quindi la Corte di merito, nel

giudizio per il risarcimento dei danni successivi derivanti dall’inadempimento di
quell’obbligo, possa determinare diversamente sia l’oggetto dell’obbligo che l’apporto
delle opere realizzate da parte danneggiata al fine di negare ogni risarcimento.».
§2.1. Anche questo quesito risulta del tutto astratto e generico e, dunque, privo di
conclusività.
Infatti: a) si riferisce del tutto genericamente alla “parte”; b) pretende di individuare
de relato il facere ed introduce in anodino riferimento al “ripristino della pavimentazione”;
c) introduce un non meglio spiegato — sul piano soggettivo e temporale – riferimento alle
opere medio tempore eseguite. Le generiche enunciazioni ora indicate sono inidonee ad
individuare la collocazione del preteso giudicato esterno rispetto all’oggetto del giudizio,
risolvendosi in carente indicazione, sebbene sommaria e riassuntiva, della vicenda concreta
in relazione alla quale sarebbe stato operante il giudicato esterno. Di seguito la loro
genericità si comunica anche alla parte finale del quesito, che dovrebbe evidenziare,
sempre in funzione di una indicazione sommaria e riassuntiva, come la Corte territoriale
avrebbe violato il giudicato esterno.
§2.2. Il motivo, una volta che si procedesse alla lettura della sua illustrazione,
sarebbe inammissibile anche per violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c.
Infatti, si fonda sul preteso giudicato esterno di cui alla sentenza della Corte
d’Appello di Roma n. 2169 del 1985, ma, mentre trascrive la parte della motivazione che,
ad avviso della ricorrente, evidenzierebbe il giudicato esterno, si astiene dal fornire
l’indicazione specifica del se e dove la sentenza sia stata prodotta in questo giudizio di
legittimità. Invero, a pagina 10 del ricorso, al riferimento alla sentenza segue l’indicazione
“(doc. 2)”, ma, in disparte che tale indicazione numerica non è accompagnata da
alcun’altra precisazione che evidenzi se si tratti di produzione, come è stata eseguita e dove
essa si debba rinvenire, sempre per consentire alla Corte (in disparte il rilievo del n. 4 del
secondo comma dell’art. 369 c.p.c.), il che basterebbe ad evidenziare come non sia
adempiuto l’onere dell’art. 366 n. 6 c.p.c., si deve rilevare che detta generica indicazione,
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Est. Cons. RaCfaeJ&Frasca

R.g.n. 23188-08 (ud. 30.4.2014)

se la si volesse intendere come correlata alla indicazione delle produzioni di cui in chiusura
del ricorso, non trova rispondenza nell’elenco dei depositi che figura in calce al ricorso:
infatti, al n. 2 di esso si fa riferimento all’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369
c.p.c., mentre al n. 1 alla sentenza qui impugnata ed al n. 3 al fascicolo di parte delle fasi di
merito.
Ora, è stato statuito che <

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