Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17959 del 27/08/2020

Cassazione civile sez. II, 27/08/2020, (ud. 05/02/2020, dep. 27/08/2020), n.17959

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18984-2015 proposto da:

C.C., M.M.G., elettivamente domiciliati

in ROMA, V.LE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI

FIORILLO, rappresentati e difesi dagli avvocati GAETANA ALLEGRA,

GAETANO GRANOZZI;

– ricorrenti –

contro

D.S.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SANGEMINI

72, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO FRANCIOSA, rappresentato

e difeso dall’avvocato EMANUELE PASSANISI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

M.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 830/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 03/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2019 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI CARMELO, he ha chiesto il rigetto del ricorso principale e

l’accoglimento del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.S.L. conveniva in giudizio M.G. e il loro figlio M.M.G. chiedendo di dichiarare nulli due contratti di compravendita rogati dal notaio S., rispettivamente il 3 aprile e il 20 ottobre del 1992, con il quale essa attrice aveva trasferito a M.M.G. la proprietà di un appartamento in (OMISSIS) e a C.C. la nuda proprietà di un altro appartamento con annesso garage nella stessa via.

A fondamento delle domande l’attrice aveva dedotto di aver contratto debiti di gioco per circa 20 milioni di Lire e di essersi rivolta a M.G. per ripianare tali debiti, ma la sua posizione debitoria era via via aumentata in maniera esponenziale a causa degli interessi usurari dallo stesso praticati. Stante tale situazione aveva finito per cedere alle minacce poste in essere dal M., tanto da trasferire in favore della moglie e del figlio i diritti a lei spettanti sugli immobili in (OMISSIS).

Da tale vicenda era nato un procedimento penale nei confronti di M.G. e M.M. che si era concluso con la prescrizione per M. e con sentenza di condanna per G. riguardo al delitto di estorsione.

La nullità dei trasferimenti immobiliari, dunque, discendeva dall’essere gli stessi il profitto del reato di estorsione con conseguente illiceità della causa, siccome in contrasto con norme imperative e per contrasto con il divieto del patto commissorio. A sostegno di tale domanda l’attrice assumeva che C.C. e M.M.G. erano interposti simulati di M.G. parte di un contratto volto non già al pieno trasferimento della proprietà, bensì alla realizzazione di una vendita sostanzialmente condizionata alla restituzione delle somme ricevute a mutuo.

2. Il Tribunale di Catania accoglieva le domande proposte da D.S.L. e dichiarava la nullità sia dell’atto pubblico del 3 aprile 1992 di trasferimento a M.M.G. dell’appartamento sito in (OMISSIS), sia dell’atto del 20 ottobre 1992 con il quale la stessa D.S. aveva trasferito a C.C. la nuda proprietà dell’appartamento in (OMISSIS) e del garage di pertinenza e aveva condannato M.M.G., C.C. e M.G. a rilasciare in favore della D.S. i detti immobili e ad astenersi dal turbarne il possesso e aveva altresì condannato M.M.G. al pagamento della somma di 77.468,53, rigettando la domanda riconvenzionale di rendiconto proposta da M.M.G. a C.C..

3. Avverso la suddetta sentenza M.M.G. e C.C. proponevano appello.

4. La Corte d’Appello accoglieva parzialmente l’impugnazione proposta da C.C. e annullava la sentenza nella parte in cui aveva dichiarato la nullità dell’atto pubblico del 20 ottobre 1992 con il quale D.S.L. aveva trasferito all’appellante la nuda proprietà dell’appartamento e del garage così come nella parte in cui la condannava a rilasciare gli immobili ad astenersi dal frapporre turbative in fatto in diritto al possesso altrui. Confermava nel resto la sentenza di primo grado.

In particolare, la Corte d’Appello affermava che, nella specie, non poteva ritenersi sussistente una coartazione assoluta della volontà di D.S.L., che aveva agito sotto minacce idonee ad indurre la venditrice a concludere contratti altrimenti non voluti, ma non tali da annullare la possibilità di scelta tra il trasferimento del bene e il subire le dette pregiudizievoli conseguenze. Dunque, si poteva ipotizzare l’annullamento del negozio per minaccia del terzo, ma non la nullità dello stesso. Tale nullità non derivava neanche dalla illiceità quale conseguenza della sanzione penale conseguente alla condanna di M.G. per estorsione derivandone pur sempre l’annullabilità del contratto. Inoltre, la nullità del contratto per mancanza di consenso non poteva essere rilevata d’ufficio, non essendo stata dedotta dalla parte.

4.1 Quanto al motivo di appello relativo alla violazione del patto commissorio la Corte d’Appello lo riteneva infondato.

La Corte d’Appello qualificava il contratto come patto commissorio immediatamente traslativo nel quale l’alienazione in garanzia è immediatamente efficace, ma è subordinata ad una condizione risolutiva di pagamento del debito accompagnata da un patto di retrovendita. In materia, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che tale modello contrattuale rientrava nel divieto del patto commissorio innominato e, tuttavia, nella specie doveva evidenziarsi l’estraneità della C. al presunto patto di retrovendita e la mancanza di collegamento e di interdipendenza tra la vendita e la garanzia reale per il mutuante. Tale interdipendenza, infatti, non poteva ritenersi sussistente in quanto preclusa dalle regole in tema di prova della simulazione. Infatti, la prospettazione dell’attrice era nel senso che l’acquirente C.C. fosse l’interposta simulata di M.G., facendosi riferimento dunque all’interposizione fittizia di persona che poteva essere provata solo mediante l’accordo scritto tra i tre contraenti. Nella specie in mancanza di tale prova dell’accordo trilatero veniva meno l’interdipendenza tra il negozio di vendita e la garanzia per il mutuante e, dunque, veniva meno la violazione del patto commissorio.

In altri termini, la prova dell’interdipendenza era esclusa dalla diversità dei soggetti, derivante dalla mancanza di prova scritta della interposizione fittizia. La Corte d’Appello, dunque, annullava la sentenza che aveva dichiarato la nullità dell’atto pubblico del 20 ottobre 1992 con la quale D.S.L. aveva trasferito a C.C. la nuda proprietà dell’appartamento e del garage così come nella parte in cui le aveva ordinato di rilasciare gli immobili e di astenersi dal frapporre turbative al possesso.

4.2 A diversa conclusione la medesima Corte d’Appello giungeva, invece, rispetto all’atto di vendita del 3 aprile 1992, intercorso con M.M.G.. In tal caso, infatti, la prova dell’interdipendenza poteva ricavarsi dalla motivazione della sentenza della Corte d’Appello penale di Catania opponibile a M.M.G., in quanto nel processo era stato imputato insieme al padre di aver ottenuto con minacce il trasferimento dell’immobile in questione. In tale sentenza, infatti, si leggeva che la compravendita era stata posta in essere dalla D.S. perchè spinta dalle minacce di M.G. e di M.M.G. e che la vendita era avvenuta senza il pagamento di alcun corrispettivo e che vi era il contestuale accordo di retrovendita subordinato alla restituzione delle somme ricevute in prestito agli interessi usurari.

In tal caso, la prova dell’illecito poteva essere data sulla scorta di prove testimoniali e presunzioni così come dalla ricostruzione effettuata nel processo penale. Sulla base di tale considerazione la Corte rigettava l’appello di M.M.G. volto alla restituzione del prezzo pagato, atteso che risultava non essere stato corrisposto alcun prezzo, così come quello volto ad ottenere la restituzione dei frutti civili per la detenzione delle unità immobiliari in questione posto che tale detenzione derivava da un sequestro penale e, dunque, doveva ritenersi legittima.

4.3 Dovevano, quindi, essere rigettate le domande di rilascio e di risarcimento del danno proposte dalla C., in quanto la D.S., essendo usufruttuaria, aveva diritto alla detenzione e al godimento dei due immobili (appartamento e garage).

5. M.M.G. e C.C. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di 18 motivi di ricorso.

6. D.S.L. ha resistito con controricorso e ha proposto ricorso incidentale sulla base di due motivi di ricorso.

7. Entrambe le parti con memorie depositate in prossimità dell’udienza hanno insistito nelle rispettive richieste.

8 All’udienza del 7 giugno 2019 questa Corte ha disposto la rinnovazione della notifica del ricorso incidentale nei confronti di M.G. nel termine di giorni sessanta dalla comunicazione dell’ordinanza.

9. In prossimità dell’odierna udienza i ricorrenti principali hanno depositato memoria illustrativa insistendo nella richiesta di accoglimento del loro ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: errata qualificazione della domanda – ultrapetizione ed extrapetizione nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).

I ricorrenti riportano il contenuto dell’atto di citazione ed affermano che la domanda dell’attrice era diretta all’accertamento della simulazione assoluta del contratto di compravendita in favore di M.M. e di vendita della nuda proprietà in favore di C.C. e che, pertanto, la Corte d’Appello, nell’aver ritenuto sussistente la simulazione relativa, abbia violato l’art. 112 c.p.c. e il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, fondando la decisione su elementi e su di una realtà fattuale non dedotta in giudizio con conseguente sostituzione della causa petendi con una differente.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, – nullità della sentenza. Inesistenza della motivazione – motivazione perplessa inconciliabile (art. 360 c.p.c., n. 4).

Secondo i ricorrenti la sentenza avrebbe erroneamente ritenuto che la controparte volesse far riferimento alla figura della simulazione reale soggettiva ovvero all’interposizione di persona e non a quella di interposizione fittizia, in particolare con l’utilizzo dell’espressione interposto simulato. L’attrice, invece, aveva fatto riferimento con tale espressione al fatto che il bene era entrato nel patrimonio di un soggetto diverso dall’autore dell’illecito e ciò non determinava il venir meno del collegamento tra l’illecita coartazione esercitata da M.G. e la formazione della volontà di stipulare in favore di M.M. e C.C.. (I ricorrenti riproducono l’atto di citazione).

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’art. 2909 c.c. giudicato interno (art. 360 c.p.c., n. 3).

Secondo i ricorrenti la sentenza di primo grado aveva già qualificato la fattispecie dedotta in giudizio come di simulazione assoluta e tale qualificazione non era stata impugnata dalle parti e il giudice d’appello avrebbe dovuto ritenerla coperta dal giudicato interno e, dunque, la sentenza avrebbe violato l’art. 2909 c.c.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, – nullità della sentenza inesistenza della motivazione – motivazione inconciliabile perplessa (art. 360 c.p.c., n. 4).

La censura si fonda sulla diversa statuizione in ordine al contratto di compravendita stipulato con la C. rispetto a quello stipulato con M.M.. Solo nel primo caso, infatti, in mancanza della prova scritta dell’interposizione fittizia di persona i giudici del gravame hanno ritenuto che mancasse il collegamento tra la vendita e la garanzia reale con il mutuo stipulato con M.G..

Nel secondo caso, invece, il giudice dell’appello in totale carenza di motivazione ha ritenuto possibile sulla scorta degli accertamenti compiuti nel processo penale affermare l’illiceità del negozio dissimulato per violazione del patto commissorio. E, tuttavia, anche in questo caso mancava la prova scritta del consenso dell’altro all’interposizione fittizia di persona e, dunque, anche in questo caso i giudici dell’appello avrebbero dovuto ribadire l’impossibilità di provare l’interdipendenza tra la vendita e la garanzia reale per il creditore M.G. che era terzo rispetto all’acquisto. In altri termini, la Corte d’Appello non poteva utilizzare prove diverse rispetto alla forma scritta per ritenere provato l’accordo trilaterale di interposizione fittizia. In tali casi non è possibile applicare l’art. 1414 c.c., comma 2, infatti, essendo l’interponente estraneo al contratto simulato i requisiti di sostanza e forma devono sussistere anche per il contratto effettivamente voluto ovvero quello tra alienante ed interponente che è autonomo rispetto a quello stipulato. Ne consegue che la prova per testi del contratto dissimulato è regolata dall’art. 2725 c.c. a cui l’art. 1414 c.c., comma 2, non apporta alcuna deroga e, pertanto, può essere data in sostituzione dello scritto solo previa dimostrazione della preesistenza del documento e della sua incolpevole perdita. Dunque, il giudice, con inspiegabile salto logico e in palese contraddizione con la decisione sull’altro contratto, ha erroneamente ritenuto che la motivazione della sentenza penale di assoluzione di M.M. dal reato di estorsione fosse opponibile allo stesso in quanto parte del processo e non alla C. che ne era rimasta estranea e che ciò consentirebbe di superare la mancanza di prova scritta dell’accordo trilaterale in ordine all’interposizione fittizia.

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p. e dell’art. 116 c.p.c.

La sentenza sarebbe erronea per aver fatto falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 654 c.p.c.. M.M., infatti, era stato assolto dalla Corte d’Appello dal reato di estorsione – i ricorrenti riportano parte della motivazione della sentenza di assoluzione – e la formula perchè il fatto non costituisce reato ha valore di giudicato interno in ordine all’accertamento dei fatti materiali che furono oggetto del processo penale e ciò avrebbe dovuto condizionare l’accertamento del giudice civile ai sensi dell’art. 654 c.p.c. in ordine al contenuto concreto degli accertamenti compiuti dal giudice penale, in particolare quanto alla definitiva verifica della non conoscenza da parte di M.M. dei traffici del padre e, quindi, della natura del debito.

La Corte d’Appello, invece, ha illegittimamente dedotto dalla sentenza la prova dell’interdipendenza tra il negozio di vendita e lo scopo di garanzia, ritenendo accertata in sede penale, con efficacia di giudicato in sede civile, le seguenti insussistenti circostanze di fatto: la compravendita era stata posta in essere dalla D.S. perchè spinta dalle minacce poste in essere da M.G. e da M.M.; la vendita era avvenuta senza il pagamento di alcun corrispettivo; il contestuale accordo di retrovendita subordinata alla restituzione delle somme ricevute; la pattuizione di interessi usurari.

6. Il sesto motivo di ricorso è così rubricato: violazione art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, – nullità della sentenza inesistenza della motivazione – motivazione inconciliabile e perplessa (art. 360 c.p.c., n. 4).

Ai sensi dell’art. 1417 c.c. la prova per testimoni e per presunzioni della simulazione è ammissibile senza limiti quando sia diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato, anche se proposta dalle parti. Ai fini della valida applicazione di tale disciplina bisogna distinguere l’illiceità, dalla mera illegalità, in quanto solo nel caso di illiceità, ovvero quando il contrasto con la norma imperativa investe la causa, l’oggetto e il motivo comune, può trovare applicazione la prova per testimoni e per presunzioni. Dunque, quando la stipulazione del contratto dissimulato integra in sè un reato la valutazione di riprovazione è tale che impedisce qualsiasi tutela civilistica, quando, invece, la sanzione penale è prevista a carico di uno solo dei contraenti il contratto non è contrario alla legge e la nullità è una sanzione non conforme agli interessi della parte tutelata/offesa che, comunque, ha il rimedio risarcitorio e di annullamento del contratto. Peraltro, questa era stata la decisione con riferimento al contratto stipulato con la C. e, dunque, la pronuncia oltre che mancante della motivazione sarebbe anche insanabilmente contraddittoria rispetto alla precedente statuizione sull’altro contratto.

7. Il settimo motivo di ricorso è così rubricato: violazione art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, – nullità della sentenza inesistenza della motivazione – motivazione inconciliabile e perplessa (art. 360 c.p.c., n. 4).

A parere dei ricorrenti la motivazione della Corte d’Appello richiama per relazione il contenuto del giudicato penale a lo travisa affermando circostanze non accertate in tale giudizio. In primo luogo, le minacce poste in essere in danno della D.S. da M.M. erano state escluse dal giudizio nella sentenza penale. Il M.M., infatti, aveva semplicemente minacciato di far valere il diritto di credito vantato dal padre mediante l’incasso dei titoli e l’esecuzione forzata e dunque non aveva posto in essere minacce idonee ad incidere coartandola sulla volontà negoziale della D.S.. Inoltre, non corrispondeva al vero che la vendita era avvenuta senza il pagamento di alcun corrispettivo, in quanto con la stessa erano stati saldati i debiti di gioco della D.S. e non era stata accertata la pattuizione di interessi usurari. Non risultava accertato neanche l’accordo di retrovendita. La sentenza penale, quindi, integrava la prova della radicale assenza di contestualità e di coincidenza soggettiva tra erogazione del prestito, minacce, trasferimento e accordo di retrovendita.

8. L’ottavo motivo di ricorso è così rubricato: violazione falsa applicazione art. 1350 c.c., art. 1414 c.c., comma 2, artt. 1417,2725,2697 c.c., art. 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Ai sensi delle norme citate ai fini dell’accertamento della simulazione relativa soggettiva non può farsi ricorso alle prove testimoniali o per presunzioni in caso di contratto di trasferimento della proprietà immobiliare soggetto alla forma scritta ad substantiam, in tal caso infatti la prova soggiace ai limiti di cui all’art. 1414 c.c., comma 2, con conseguente necessità di prova scritta dell’accordo simulatorio e ricorso alla prova testimoniale limitatamente all’ipotesi di perdita incolpevole del documento scritto.

In mancanza della prova dell’accordo scritto tra interponente, interposto e terzo contraente non si poteva ricondurre a M.M. fatti appartenenti alla sfera giuridica di M.G. ed a lui opponibili.

I ricorrenti ribadiscono che dalla sentenza penale non emergeva alcuna responsabilità di M.M. e, dunque, vi sarebbe anche la violazione dell’art. 2697 c.c. per l’inammissibile inversione dell’onere della prova.

9. Il nono motivo di ricorso è così rubricato: nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).

I ricorrenti lamentano l’omessa pronuncia da parte della Corte d’Appello sullo specifico motivo attinente alla statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto provato il mancato pagamento del corrispettivo mediante la testimonianza della sorella di D.S.L., ciò in aperto contrasto con quanto risultava dal contratto nel quale il prezzo risultava espressamente quietanzato e, quindi, in aperta violazione delle previsioni di cui agli artt. 2732 e 2726 c.c..

Infatti, la quietanza equivale a confessione stragiudiziale proveniente dal creditore e può essere superata solo mediante la prova dell’errore di fatto o della violenza. Inoltre, sarebbe inammissibile la prova testimoniale per presunzioni diretta a dimostrare la simulazione assoluta della quietanza dell’avvenuto pagamento a ciò ostando l’art. 2727 c.c.

Tali censure erano state proposte con specifico motivo di appello in relazione al quale mancherebbe qualsiasi motivazione. Dunque la sentenza violerebbe anche l’art. 112 c.p.c..

10. Omesso esame di un fatto controverso decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello abbia omesso di esaminare che il prezzo del trasferimento era stato pagato mediante la compensazione delle somme ricevute in prestito della D.S. e con quietanza presente in entrambi gli atti di vendita giusta dichiarazione resa dalla venditrice dinanzi al notaio rogante.

In tal senso il ricorrente riporta le testimonianze rese dalla D.S. nel giudizio penale e evidenzia che tale fatto era stato oggetto di discussione tra le parti e del tutto omesso dalla Corte d’Appello. Infatti, la D.S. nel procedimento penale aveva dichiarato di aver trasferito il bene immobile per pagare il proprio debito verso M.G. e aveva rilasciato espressa quietanza del pagamento del prezzo a comprova della natura onerosa della vendita e dell’avvenuto versamento del prezzo per l’acquisto dell’immobile mediante una datio in solutum. Tale fatto storico del pagamento del prezzo e della successiva quietanza avrebbe carattere decisivo ai fini della controversia essendo prova della natura onerosa del trasferimento, con conseguente realizzazione dello scopo tipico di scambio e non già con quello illecito di garanzia.

11. Violazione falsa applicazione degli artt. 1500,1350,13622725 c.c., nonchè degli artt. 1344 e 2744 c.c. e dell’art. 116c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

La pronuncia sarebbe illegittima per violazione e falsa violazione delle norme citate per avere la Corte d’Appello affermato l’esistenza di un contestuale accordo di retrovendita pur mancando agli atti la prova della sua esistenza e, comunque, difettando anche la prova ulteriore dell’aver subordinato tale retrovendita alla condizione della restituzione del debito.

Vi sarebbe violazione anche dell’art. 1417 c.c. avendo la Corte omesso di considerare che l’attrice non poteva avvalersi della prova mediante testimoni e presunzioni. La Corte d’Appello invece avrebbe dato rilievo alle affermazioni di M.G. – peraltro narrate dalla D.S. – ovvero di un soggetto terzo rispetto all’atto negoziale impugnato, mentre il patto di retrovendita mancava del tutto nel contratto e, dunque, vi sarebbe una violazione anche del criterio di interpretazione letterale di cui all’art. 1362 c.c.

Inoltre, il patto di retrovendita avrebbe dovuto avere, a pena di nullità, la stessa forma del contratto di compravendita ex art. 1350 c.c.

Infine, risulterebbe violato il combinato disposto gli artt. 1500 e 2744 c.c. nella parte in cui la Corte d’Appello ha intravisto un ipotetico patto di retrovendita e un sottostante scopo di garanzia mentre, anche ipotizzando l’esistenza di tale patto, lo stesso non sarebbe stato comunque subordinato alla restituzione del debito.

12. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1197,1422,2033 c.c. violazione falsa applicazione dell’art. 2744 c.c.

I ricorrenti lamentano che la Corte d’Appello di Catania abbia ritenuto infondato il motivo di gravame con il quale chiedevano, come già in primo grado, in via subordinata in caso di declaratoria di nullità del contratto, la restituzione di quanto pagato.

Il contratto dichiarato nullo aveva visto la corresponsione del prezzo della vendita, come attestato dalla dichiarazione di quietanza della venditrice, dunque, in aperta violazione dell’art. 2033 c.c.

La dichiarazione di nullità del contratto avrebbe determinato l’insorgere del diritto alla ripetizione di quanto pagato in esecuzione del negozio nullo.

13. Violazione falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 24 e 111 Cost., art. 2943 c.c., art. 2945 c.c., comma 2, art. 2947 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

I ricorrenti lamentano che la Corte d’Appello di Catania abbia ritenuto infondato il motivo di gravame con il quale si eccepiva l’intervenuta prescrizione della domanda di risarcimento del danno quantificata nella somma necessaria liberare l’appartamento ceduto al M. dalla ipoteca iscritta da BDS in data successiva al trasferimento. Il giudice di primo grado aveva rigettato l’eccezione di prescrizione per essere stato il termine interrotto dalla costituzione di parte civile. Tale statuizione è stata confermata in appello, evidenziando che la costituzione di parte civile nel procedimento penale se non limitata a specifiche voci di danni produce l’effetto interruttivo riguardo a tutte le componenti risarcitorie connesse al reato oggetto dell’imputazione.

Il giudice d’appello, secondo i ricorrenti, non avrebbe verificato le specifiche voci di danno azionate in sede penale e, quindi, mancherebbe la prova della interruzione della prescrizione ai sensi art. 2697 c.c., anche perchè la parte non aveva allegato il proprio atto di costituzione di parte civile.

Inoltre, l’interruzione della prescrizione prevista nel caso di costituzione di parte civile opera con riguardo ai fatti causativi di danno integranti reato e sottoposti alla valutazione del giudice penale e non con riguardo a fatti che, seppur correlati alla condotta concretante la fattispecie di reato contestata, siano rimasti estranei all’oggetto del processo penale. Infatti, nella specie, la costituzione di parte civile aveva ad oggetto solo ed esclusivamente l’accertamento del contestato reato di estorsione in rapporto alle violenze e minacce perpetrate dagli imputati in danno della D.S., ai fini di coartarne la volontà per la stipula dell’atto di trasferimento immobiliare, ma non anche la condotta posta in essere dal M. nell’accensione del mutuo fondiario e nella conseguente iscrizione ipotecaria sul bene oggetto della stipulata compravendita. Non vi sarebbe, dunque, identità tra il fatto ipotizzato come reato in sede penale e quello da cui sarebbe scaturito il diritto risarcitorio azionato dall’attrice nel giudizio civile. Il mutuo e l’ipoteca volontaria iscritta da M.M., in data successiva al trasferimento del bene, quando ne era legittimo proprietario, concretizza un fatto estraneo al giudizio penale e, dunque, la costituzione di parte civile non sarebbe idonea a interrompere la prescrizione quinquennale.

14. Nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).

Con riferimento alla posizione di C.C. e alla sua domanda riconvenzionale di rendiconto sui beni affidati in custodia alla D.S. la sentenza sarebbe nulla in violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la Corte d’Appello si sarebbe limitata a pronunciarsi sulla domanda di accertamento della legittimità del sequestro e non anche su quella di rendiconto verso il custode e di pagamento dei frutti percepiti.

15. Violazione dell’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, – nullità della sentenza – inesistenza della motivazione – motivazione perplessa e inconciliabile (art. 360 c.p.c., n. 4).

Il ricorrente ripropone il medesimo motivo e la medesima censura proposta con il 140 motivo in relazione alla inesistenza della motivazione, limitata all’affermazione dell’esistenza del provvedimento di sequestro e della legittimità della detenzione in capo alla D.S. del bene.

16. Violazione e falsa applicazione dell’art. 317 c.p.p., comma 4, (art. 360 c.p.c., n. 3).

La censura attiene ancora alla domanda di restituzione dei frutti civili maturati nel periodo di detenzione degli immobili da parte della D.S. rigettata in primo e secondo grado. Il provvedimento penale di sequestro conservativo e la successiva ordinanza del sequestro erano inidonei a far stato tra le parti e poi il loro effetto era caduto con il passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione di M.M..

17. Violazione e falsa applicazione degli artt. 979,1001 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

La censura attiene al rigetto della richiesta di restituzione dei frutti e di rendiconto rispetto al contratto di vendita del 20 ottobre 1992 con il quale la D.S. cedeva alla C. solo la nuda proprietà dei beni, riservando l’usufrutto al padre, D.S.G., e dopo di sè alla moglie Ch.Ca.. Le parti avevano, infatti, quella massima di cui all’art. 979 c.c. con conseguente di consolidamento in favore della nuda proprietà degli obblighi di restituzione previsti dall’art. 1001 c.c.

Le domande di rilascio e di risarcimento danni azionate nei confronti della D.S. dalla C. trovano fondamento nella necessità del legittimo proprietario di disporre di un titolo rispondente all’esigenza di tornare in possesso del bene a suo tempo concesso in usufrutto e di risarcimento dei danni scaturiti dall’illegittima violazione del diritto di proprietà delle facoltà adesso correlate.

18. Violazione art. 1362 c.c., D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 2 (T.U. imposta di registro) D.L. n. 12 del 1985, art. 2, comma 1, e art. 5, e art. 2 convertito dalla L. n. 118 del 1985 (art. 360 c.p.c., n. 3).

La censura attiene al rigetto della domanda reiterata in appello di risarcimento del danno corrispondente alle spese fiscali e notarili dei due atti di compravendita, in mancanza di prova dell’entità degli esborsi. Infatti, alle due vendite consegue automaticamente il pagamento dell’imposta di registro e dell’imposta sul valore aggiunto e anche del contenuto del contratto nel quale la parte acquirente affermava di voler accedere al meccanismo agevolativo previsto dal D.L. n. 112 del 1985, art. 2 tale pagamento poteva ricavarsi.

Ricorso incidentale.

19. Il primo motivo del ricorso incidentale è così rubricato violazione falsa applicazione dell’art. 185 c.p., artt. 651 e 654 c.p.p. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

La censura attiene alla parte della decisione con la quale la Corte d’Appello ha riformato la sentenza di primo grado relativa alla dichiarazione di nullità degli atti di compravendita per vizio del consenso. La Corte territoriale ha motivato la decisione ritenendo che il Tribunale avesse pronunziato ultra petita. Tale assunto sarebbe smentito dagli atti di causa avendo la parte attrice inequivocabilmente esposto le proprie ragioni di diritto sia nell’atto di citazione che, nella successiva memoria ex art. 183 c.p.c., con la quale aveva fatto esplicito riferimento alla illiceità della causa, in relazione alla cosa giudicata formatosi con la pronuncia del giudice penale che aveva incontrovertibilmente accertato che gli atti di trasferimento dei due immobili costituivano l’illecito profitto del reato di estorsione. Peraltro, al giudice civile era stata proposta l’azione conseguente alla condanna penale irrevocabile ai sensi dell’art. 185 c.p. che obbliga alle restituzioni e al risarcimento del danno. La sentenza penale aveva acclarato il reato di estorsione consumato da M.G. nei confronti di D.S.L., avendo il M. indotto quest’ultima a trasferire al figlio e alla moglie due immobili di pregio senza pagamento di corrispettivo. La sentenza, pertanto, in parte qua violava la forza giudicato espressa dall’art. 651 c.p.p..

Inoltre, la statuizione della Corte d’Appello sarebbe erronea anche in relazione alla violazione del divieto del patto commissorio nella parte in cui non ha ritenuto estendere tale nullità all’acquisto della C.. In tal senso la ricorrente incidentale cita la sentenza n. 1657 al 1996 nella quale in un caso speculare si era fermata che la prova del patto di retrocessione vietato dall’art. 2744 c.c. formatasi nel giudizio penale costituiva un giudicato intangibile anche nel giudizio civile. A prescindere dalla buona o malafede di tutti i soggetti del rapporto contrattuale.

20. Il secondo motivo di ricorso incidentale è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione al disposto dell’art. 651 c.p.c., artt. 2744,1343 e 1344 c.c. – motivazione contraddittoria ed illogica (art. 360 c.p.c., n. 3).

A parere della ricorrente sarebbe del tutto illogica l’applicazione dell’art. 651 c.p.p. al contratto in favore di M.M. e non a quello in favore di C.C.. Il giudice penale non aveva in alcun modo distinto gli atti negoziali, ponendoli entrambi alla base della commissione del delitto e specificando che si trattava dell’ingiusto vantaggio del condannato in danno della parte civile costituita. Dunque, il giudice non poteva non estendere ad entrambi gli atti la sanzione di nullità radicale che colpisce l’unico disegno negoziale che viola, nel suo complesso, norme imperative e che realizza una causa illecito ex art. 1343 e ed è in frode alla legge ex art. 1344 c.c. Sarebbe del tutto illogico ipotizzare che M.G. condannato per il reato di estorsione abbia commesso il reato solo per il trasferimento del primo immobile e non per quello relativo al secondo. Entrambi dunque devono essere dichiarati nulli.

21. Il ricorso principale e quello incidentale sono speculari e possono essere trattati unitariamente. Infatti, la domanda originaria della D.S. aveva ad oggetto due contratti rogati dal notaio S., rispettivamente il 3 aprile e il 20 ottobre del 1992, con i quali aveva trasferito a M.M.G., figlio di M.G., la proprietà di un appartamento in (OMISSIS) e a C.C., moglie di M.G., la nuda proprietà di un altro appartamento con il garage di pertinenza nella stessa via al n. (OMISSIS). Tali contratti erano stati dichiarati nulli in primo grado.

La Corte d’Appello, invece, aveva accolto l’appello di C.C., riformando la sentenza nella parte in cui aveva dichiarato nullo il contratto di cessione della nuda proprietà del secondo appartamento, mentre aveva rigettato l’appello di M.M.G., confermando la nullità del contratto di vendita del primo appartamento al n. (OMISSIS).

22. Ciò premesso, i due motivi del ricorso incidentale sono fondati, mentre tutti i motivi del ricorso principale sono infondati, salvo il diciottesimo che è inammissibile oltre che infondato.

La Corte d’Appello ha escluso la sussistenza della nullità del contratto perchè la coartazione della volontà della D.S. da parte di M.G. non era tale da determinare l’assenza di volontà negoziale, e dunque, il vizio della volontà era causa di annullabilità e non di nullità.

Il collegio ritiene erronea tale affermazione, in quanto non tiene conto dell’evoluzione giurisprudenziale sulla c.d. “nullità virtuale” per violazione di norme penali, ovvero sul tema tradizionale del regime di invalidità del contratto stipulato per effetto diretto della consumazione di un reato.

23. Sul punto diverse sono le opinioni dottrinali e giurisprudenziali. L’approdo comune della prevalente dottrina e della più avvertita giurisprudenza è nel senso che non è possibile individuare un automatismo tra nullità e atto di autonomia privata posto in essere in violazione di una norma penale. Nella prospettiva del diritto civile, non è sufficiente per aversi nullità del negozio che sia sanzionata, anche penalmente, la condotta di colui o coloro che l’hanno posto in essere, dovendo farsi oggetto di verifica, piuttosto, le finalità perseguite e gli interessi tutelati dalla norma violata, sia quanto al divieto della condotta tenuta dalla/e parte/i che quanto al risultato ottenuto ponendo in essere quel determinato regolamento di interessi.

La giurisprudenza di legittimità sul punto, da ultimo, ha evidenziato che l’individuazione del trattamento civilistico dell’atto negoziale che si confronti con una fattispecie di reato dipende dal rapporto che, di volta in volta, si abbia tra reato e contratto (o negozio) (Sez. 3 sent. n. 26097 del 2016).

Tradizionalmente quando il negozio si è concluso commettendo un reato, si usa distinguere l’ipotesi dei reati commessi nell’attività di conclusione di un contratto, cioè dei c.d. “reati in contratto”, e l’ipotesi dei reati che consistono nel concludere un determinato contratto, in sè vietato, cioè dei c.d. “reati contratto”.

In sintesi la distinzione è la seguente: nel caso in cui la norma incriminatrice penale vieti proprio la stipulazione del contratto, in ragione dell’assetto degli interessi che esso mira a realizzare, si è al cospetto del c.d. “reato-contratto” (es. la vendita di sostanze stupefacenti; la ricettazione ex art. 648 c.p.; il commercio di prodotti con segni falsi ex art. 474 c.p.); allorchè, al contrario, la norma penale sanzioni la condotta posta in essere da uno dei contraenti in danno dell’altro nella fase della stipulazione, rileva la categoria concettuale del c.d. “reato in contratto” (si tratta, per lo più, delle fattispecie di reato caratterizzate dalla cooperazione artificiosa della vittima come la violenza privata ex art. 610 c.p., l’estorsione ex art. 629 c.p., la circonvenzione di persona incapace ex art. 643 c.p., l’usura ex art. 644 c.p.)

24. In merito ai c.d. reati in contratto la giurisprudenza di legittimità ha elaborato due distinti criteri per giudicare dell’invalidità del negozio concluso commettendo il reato: uno, di natura sostanziale, che tende a privilegiare la verifica della natura della norma penale violata, per valutare se si tratti di norma imperativa di ordine pubblico o comunque di rilevanza pubblica, perchè posta a tutela di un interesse generale, sicchè solo in tale eventualità il contratto che la viola si ritiene affetto da nullità perchè in contrasto con l’art. 1418 c.c., comma 1; un altro, di natura formale, che tende a privilegiare la verifica del vizio introdotto nel contratto a seguito della consumazione del reato, e dei possibili rimedi di tipo civilistico, secondo la rilevanza che la condotta vietata assume in questo ambito, sicchè se la condotta del contraente – pur penalisticamente rilevante – comporti soltanto un vizio del consenso della controparte, il contratto si ritiene affetto da annullabilità, non da nullità (sul punto vedi Sez. 3 sent. n. 26097 del 2016 in motivazione).

25. Il primo dei due criteri interpretativi – in conformità con la pronuncia da ultimo citata – appare al Collegio più coerente col disposto dell’art. 1418 c.c., comma 1 alla stregua di quella che è l’interpretazione più accreditata del sintagma contrarietà a “norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente” ivi contenuto.

Ed invero si deve osservare che la nullità del negozio è lo strumento predisposto dal legislatore per realizzare o non frustrare, per il tramite di esso (e non soltanto della condotta dei contraenti, anche quando si tratti di violazione di divieti soggettivi di contrarre), interessi di carattere generale protetti dall’ordinamento. Pertanto, la violazione della norma penale dà luogo ad un negozio nullo ogni qual volta la disposizione violata si connoti come norma penale di ordine pubblico nel senso che l’interesse o il bene giuridico protetto dalla norma assume una connotazione pubblicistica (secondo una tesi dottrinale che restringe la nozione di norma inderogabile a quella, appunto, di interesse e di ordine pubblico; seguita, da ultimo, da Cass. n. 7785/16) ovvero solo quando la norma penale, tenuto conto della sua ratio, tutela interessi generali di rilevanza pubblica.

Nella sentenza della Sez. III n. 26097 del 2016, sopra citata, si è ritenuto essere emblematica, in proposito, la giurisprudenza in tema di contratti conclusi da uno dei contraenti, mediante truffa o mediante circonvenzione di incapace. Quanto al primo, è consolidato l’orientamento secondo cui il contratto concluso per effetto di truffa, penalmente accertata, di uno dei contraenti in danno dell’altro è non già radicalmente nullo (ex art. 1418 c.c., in correlazione all’art. 640 c.p.), sebbene annullabile, ai sensi dell’art. 1439 c.c., atteso che il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente, neanche sotto il profilo dell’intensità, diverso da quello che vizia il consenso negoziale, entrambi risolvendosi in artifizi o raggiri adoperati dall’agente e diretti ad indurre in errore l’altra parte e così a viziarne il consenso. Pertanto, il contratto concluso non è nullo, nè tanto meno inesistente, ma soltanto annullabile per vizio del consenso (così, da ultimo, Cass. n. 18930/2016, vedi anche Cass. n. 7468/2011).

Quanto al secondo reato, si è affermato nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento secondo il quale il contratto effetto di circonvenzione d’incapace, punito dall’art. 643 c.p., deve essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c. per contrasto con norma imperativa, giacchè va ravvisata una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sulla annullabilità dei contratti (così Cass. n. 10609/2017, Cass. n. 7785/2016 e Cass. n. 2860/2008).

26. I due diversi orientamenti in relazione alle diverse ipotesi di reato, sono entrambi coerenti, come si è detto con l’interpretazione dell’art. 1418 c.c. cui si intende aderire, atteso che, nel primo caso, la norma penale violata (art. 640 c.p.) mira a tutelare un interesse essenzialmente individuale, quale è quello connesso al patrimonio del soggetto passivo; nel secondo caso, la norma penale violata (art. 643 c.p.) mira a tutelare precipuamente esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela della libertà di autodeterminazione dell’incapace.

27. Alla seconda di queste due ipotesi c.d. dei reati in contratto, per quanto si dirà, deve ricondursi la fattispecie oggetto di ricorso, che attiene alla stipulazione di un contratto frutto della condotta estorsiva di una parte nei confronti dell’altra che, per effetto della minaccia subita, ha stipulato i due contratti di compravendita oggetto della domanda di nullità.

Secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza penale di legittimità nel reato di estorsione l’oggetto della tutela giuridica è costituito dal duplice interesse pubblico della inviolabilità del patrimonio e della libertà personale (Cass. pen. Sez. 3, Sent. n. 27257 del 2007). Inoltre, è consolidato l’orientamento secondo il quale, nell’estorsione patrimoniale, che si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con altri soggetti, l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune.

L’interesse pubblico sotteso alla salvaguardia delle vittime dei reati di estorsione, già desumibile da quanto detto, emerge con tutta evidenza nella legislazione speciale volta ad offrire loro un sostegno di tipo economico. Il delitto di estorsione, infatti, è considerato di estremo allarme sociale per la sua diffusione sul territorio e per la sua nefasta incidenza sul tessuto economico della collettività. Al centro di tali iniziative legislative vi è l’istituzione del fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura. Il primo provvedimento in questo senso è rappresentato del D.L. 31 dicembre 1991, n. 419 (Istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive), convertito dalla L. 18 febbraio 1992, n. 172. L. n. 419 del 1991, che ha istituito per la prima volta il fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive. Sono seguite numerose altre leggi a tutela delle vittime del delitto di estorsione (a solo titolo esemplificativo D.L. 27 settembre 1993, n. 382, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 novembre 1993, n. 46; L. 23 febbraio 1999, n. 44 del 1999, L. 28 dicembre 2001, n. 448. D.P.R. 19 febbraio 2014, n. 60, D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, L. n. 3 del 2012).

Le ragioni che ispirano tale legislazione sono variegate: oltre all’intento solidaristico vi è anche quello di dare sostegno alle attività economiche delle vittime, che altrimenti potrebbero cadere nelle mani della criminalità organizzata; inoltre, in tal modo l’intento del legislatore è di aumentare il numero di denunce per rendere sempre più incisiva l’azione di contrasto a tali attività criminali, e “dimostrare” che è possibile sottrarsi alle minacce e alla violenza delle organizzazioni criminali.

In ogni caso, ciò che in questa sede rileva è l’evidente connotazione e dimensione pubblicistica della tutela delle vittime dei reati di estorsione, quale indice sicuro della sussistenza di esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sulla annullabilità dei contratti.

28. Sulla base di quanto sopra argomentato può affermarsi che la fattispecie penale del delitto di estorsione è posta indiscutibilmente a tutela di interessi non soltanto di tipo patrimoniale, ma anche di diritti inviolabili della persona, quali appunto la libertà personale, e di interessi generali della collettività. Il contratto concluso per mezzo di una condotta estorsiva, pertanto, è stipulato in violazione di norme imperative e, pur in assenza di una sanzione esplicita, è nullo per lesione dell’interesse generale di ordine pubblico tutelato dalla norma violata.

D’altra parte, già le Sezioni Unite con la sentenza n. 26724 del 2007, dopo aver ricostruito la tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto, hanno evidenziato che, seppure deve rimanere ferma la tesi secondo la quale le norme imperative la cui violazione determina la nullità del contratto essenzialmente sono quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti, tuttavia deve assecondarsi la direzione intrapresa da quella giurisprudenza che tende a ricondurre al vizio della nullità anche la violazione di norme che riguardano elementi estranei a quel contenuto o a quella struttura, come ad esempio accade per il delitto di circonvenzione d’incapace (cfr. Cass. 23 maggio 2006, n, 12126; Cass. 27 gennaio 2004, n. 1427; e Cass. 29 ottobre 1994, n. 8948).

Proprio con riferimento a tale ipotesi, le Sezioni Unite hanno affermato l’esigenza di rimeditare se, ed entro quali limiti, l’illiceità penale della condotta basti a giustificare l’ipotizzata nullità del contratto sotto il profilo civile e che l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’art. 1418 c.c., comma 1, è in effetti più ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo.

Viene meno, dunque, l’obiezione di coloro che ritengono che la limitazione di cui all’art. 1418 c.c., comma 1 sarebbe di impedimento per accedere alla tesi della nullità, perchè le norme poste a presidio in questi casi sono l’art. 1434 e 1435 c.c., che prevedono l’annullabilità del contratto.

In conclusione, deve affermarsi che il contratto derivante dalla condotta penalmente rilevante del delitto di estorsione è nullo, perchè viola norme imperative, è contrario all’ordine pubblico e costituisce il profitto del reato, così assumendo un chiaro connotato di illiceità.

Nel caso all’esame di questa Corte, la Corte d’Appello penale di Catania, con sentenza passata in giudicato, ha ritenuto colpevole M.G. del delitto di estorsione in danno di D.S.L., condannandolo a quattro anni di reclusione e ha accertato che, la condotta estorsiva si è concretizzata nella cessione da parte della D.S. dei due appartamenti, siti in (OMISSIS), mediante l’intestazione di uno a C.C., e dell’altro a M.M.G., rispettivamente moglie e figlio del predetto M.G..

A tal proposito deve ribadirsi che, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel processo civile di risarcimento del danno quanto all’accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, con esclusione della colpevolezza, il cui esame è autonomamente demandato al giudice civile. Per “fatto” accertato dal giudice penale deve intendersi il nucleo oggettivo del reato nella sua materialità fenomenica, costituita dall’accadimento oggettivo, accertato dal giudice penale, configurato dalla condotta, evento e nesso di causalità materiale tra l’una e l’altro (fatto principale), e le circostanze di tempo, luogo e modi di svolgimento di esso. (ex plurimis Sez. 3, Sent. n. 20786 del 2018 Sez. 6-3, Ord. n. 14648 del 2011, Sez. 3, Sent. n. 19387 del 2004, in motivazione).

29. A nulla rileva il fatto che il contratto prevedesse come acquirenti fittizi il coniuge e il figlio dell’estortore perchè, la nullità del negozio per violazione di una norma imperativa quale quella di cui all’art. 629 c.p. ha valenza assoluta e determina la nullità radicale e totale dell’intero negozio, del tutto inficiato, inidoneo e incapace di produrre effetti nei confronti di tutte le parti che ad esso hanno partecipato. In altri termini, la sanzione (nullità) colpisce l’intero negozio ed opera erga omnes, vale a dire nei confronti di tutti i soggetti del rapporto senza che alcuno di essi, richiamando posizioni personali (di presunta buona fede) o soggettive differenziate (di non partecipazione all’altrui attività delittuosa), possa giovarsi della situazione creatasi in dispregio del precetto legislativo. L’illiceità del contratto esclude che possano venire in rilievo gli aspetti psicologici (motivi) e pertanto rende irrilevanti le singole posizioni soggettive (nello stesso senso vedi Cass. n. 1657 del 1996).

Nel caso di specie sussisteva anche la prova dell’interposizione fittizia, in base ai fatti accertati in sede penale, peraltro – come si dirà più diffusamente al punto 31 – tale prova può ricavarsi anche mediante testimoni e presunzioni in conformità all’art. 1417 c.c.

Ritiene pertanto il collegio, che entrambi i contratti di cui si discute nel presente giudizio sono nulli ex art. 1418 c.c., essendo stato accertato con sentenza penale passata in giudicato che gli stessi sono conseguenza della condotta estorsiva di M.G. in danno di D.S.L..

30. La Corte d’Appello, dunque, ha commesso un duplice errore.

Il primo, consistente nel ritenere che il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità di un contratto debba essere coordinato con il principio della domanda nel senso che solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda il giudice può rilevare in ogni stato e grado del giudizio, indipendentemente dall’attività selettiva delle parti, l’eventuale nullità dell’atto stesso, mentre se la contestazione attenga direttamente all’illegittimità dell’atto, una diversa ragione di nullità non può essere rilevata d’ufficio ne può essere dedotta per la prima volta in grado di appello, trattandosi di domanda nuova e diversa da quella ab origine proposto dalla parte.

Il secondo che le minacce subite dalla D.S., seppure qualificate come costituenti il delitto di estorsione a carico di M.G., non fossero causa di nullità dei due contratti di compravendita, non potendo derivarne la nullità dalla condanna penale.

Sotto il primo profilo, in disparte il fatto che D.S.L. aveva agito in giudizio per fare dichiarare proprio la suddetta nullità, domanda che il giudice di primo grado aveva integralmente accolto, deve ribadirsi in ogni caso che, la nullità contrattuale è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo come affermato in più occasioni da questa Corte (Sez. U, Sent. n. 26242 del 2014, Sez. U, Sent. n. 26243 del 2014 e Sez. U, Sent. n. 14828 del 2012) e che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale o di simulazione deve rilevare d’ufficio, ove emergente dagli atti, l’esistenza di un diverso vizio di nullità, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato (Sez. 1, Sent. n. 8795 del 2016, Sez. 2, Sent. n. 22457 del 2019).

Sotto il secondo aspetto deve affermarsi il seguente principio di diritto: “Il contratto stipulato per effetto diretto del reato di estorsione è nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., per contrasto con norma imperativa, dovendosi ravvisare una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze d’interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sull’annullabilità dei contratti”.

31. L’accoglimento dei due motivi del ricorso incidentale proposto da D.S.L. implica il rigetto dei primi quattro, nonchè dell’ottavo, del nono e dell’undicesimo, motivi del ricorso principale perchè tutti aventi ad oggetto la statuizione della Corte d’Appello di nullità del secondo contratto di compravendita in favore di M.M.G. per violazione del patto commissorio.

A questo proposito, a fini nomofilattici, deve comunque evidenziarsi l’erroneità della statuizione della Corte d’Appello, in tema di prova dell’interposizione fittizia nel caso di violazione del divieto del patto commissorio.

Occorre premettere che, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, il divieto del patto commissorio sancito dall’art. 2744 c.c., con la conseguente sanzione di nullità radicale, si estende a qualsiasi negozio, ancorchè di per sè astrattamente lecito, allorchè esso venga impiegato per conseguire il fine concreto, riprovato dall’ordinamento, della illecita coercizione del debitore, costringendolo al trasferimento di un bene a scopo di garanzia nella ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta. In particolare, si ritiene pacificamente che il patto commissorio possa essere ravvisato anche di fronte a più negozi tra loro collegati, quando da essi scaturisca un assetto di interessi complessivo tale da far ritenere che il procedimento negoziale attraverso il quale deve compiersi il trasferimento di un bene del debitore sia collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia, a prescindere dalla natura meramente obbligatoria o traslativa o reale del contratto (ex plurimis Cass. n. 23617 del 2017 che richiama a sua volta Cass. 23 ottobre 1999 n. 11924; Cass. 20 luglio 1999 n. 7740; Cass. 15 agosto 1990 n. 8325).

In tali casi, allorchè venga dedotta la nullità di un contratto di compravendita siccome dissimulante un patto commissorio, la simulazione costituisce soltanto la causa petendi, cioè il fatto rivelatore del vietato patto posto a base dell’azione di nullità del contratto, sicchè il relativo accertamento non è soggetto alle limitazioni ex art. 1417 c.c., quanto alla prova testimoniale, essendo volta a far valere l’illiceità ex lege del negozio dissimulato (Cass. n. 7740 del 1999 che richiama a sua volta Cass. n. 8325 del 1990).

32. I motivi quinto, sesto e settimo del ricorso principale sono infondati per quanto si è detto circa la valenza probatoria della sentenza penale di condanna per il delitto di estorsione a carico di M.G. ex art. 651 e 654 c.p.c. e delle conseguenze di tale condanna.

33. Il decimo e il dodicesimo motivo di ricorso con il quale il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello abbia omesso di esaminare che il prezzo del trasferimento era stato pagato mediante la compensazione delle somme ricevute in prestito della D.S. e con quietanza presente in entrambi gli atti di vendita sono infondati posto che la Corte d’Appello di Catania ha evidenziato che dalla sentenza penale emergeva l’accertamento del fatto che nessun prezzo era stato pagato e che l’alienazione era effettuata a scopo di garanzia con patto di retrovendita.

34. Il tredicesimo motivo di ricorso è altrettanto infondato posto che l’azione di nullità è imprescrittibile e che correttamente la Corte d’Appello ha affermato che l’effetto interruttivo della prescrizione derivante dalla costituzione di parte civile riguarda tutte le componenti risarcitoria connesse al reato oggetto dell’imputazione.

35. I motivi dal quattordicesimo al diciassettesimo sono tutti infondati, attenendo alle domande di rendiconto e di restituzione dei frutti civili che presuppongono la validità del trasferimento del diritto di proprietà in capo alla C. sull’appartamento del quale la D.S. aveva mantenuto il possesso.

36. Il diciottesimo motivo è inammissibile perchè richiede una rivalutazione in fatto delle prove circa l’effettivo pagamento da parte del ricorrente degli oneri fiscali derivanti dal contratto e sarebbe, comunque, infondato in quanto il presunto danno deriverebbe comunque dalla condotta illecita del danneggiato.

37. In conclusione la Corte accoglie entrambi i motivi del ricorso incidentale, rigetta integralmente il ricorso principale, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Catania in diversa composizione che provvederà anche alle spese del giudizio di legittimità.

38. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

La Corte accoglie entrambi i motivi del ricorso incidentale, rigetta integralmente il ricorso principale, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Catania in diversa composizione che provvederà anche alle spese del giudizio di legittimità;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 agosto 2020

 

 

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