Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17956 del 13/09/2016


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Cassazione civile sez. II, 13/09/2016, (ud. 05/07/2016, dep. 13/09/2016), n.17956

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26299/2011 proposto da:

DITTA B.N., (OMISSIS), IN PERSONA DELL’OMONIMO TITOLARE,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 8, presso lo

studio dell’avvocato FRANCA UMBRO, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati SILVIA CHIEPPE, ROBERTO CANEVA;

– ricorrente –

nonchè da:

IMPRESA COSTRUZIONI ARCH. M.D.G., (OMISSIS), IN PERSONA

DEL SUO OMONIMO TITOLARE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

VIGLIENA 10, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO SANTI,

rappresentata e difesa dall’avvocato FABIO TRALDI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1668/2010 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 20/08/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

udito l’Avvocato Umbro Franca difensore della ricorrente che deposita

un avviso di ricevimento e si riporta agli scritti difensivi

chiedendone raccoglimento;

udito l’Avv. Dario Cuomo con delega depositata in udienza dell’Avv.

Traldi Fabio difensore della controricorrente e ricorrente

incidentale che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e

l’accoglimento del ricorso incidentale;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale, e per il rigetto del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con atto 26.5.2000 l’architetto D.G.M., titolare dell’omonima impresa di costruzioni, si oppose al Decreto Ingiuntivo n. 946 del 2000 (avente ad oggetto il pagamento della somma di Lire 46.862.280), emesso dal Tribunale di Verona su richiesta della ditta B.N. a titolo di corrispettivo per lavori di scavo, rimozione materiali di risulta e successivi. A sostegno dell’opposizione il D.G. invocò un accordo di compensazione tra il valore del materiale di risulta (ghiaia e terreno) prelevato dal Benetti e i crediti vantati dallo stesso per l’attività di spianamento e semina del prato, salvo conguaglio per l’eventuale differenza; precisò che dai conteggi effettuati risultava addirittura un credito a suo favore di Lire 632.464, oltre IVA, e chiese pertanto la revoca del decreto opposto e la condanna della ditta B. al pagamento del suddetto importo.

La ditta creditrice contestò la ricostruzione dei fatti operata dall’opponente ed in particolare l’esistenza di un accordo di compensazione.

2. Il Tribunale adito, con sentenza 2472/04, rigettò l’opposizione, ma la Corte d’Appello di Venezia, con sentenza depositata il 20.8.2010, accolse parzialmente l’appello del D.G. e, revocato il decreto opposto, ridusse la pretesa del B. a Lire 21.263.900 (Euro 10.982,00) oltre interessi legali, osservando:

– che non era disponibile nessun’altra prova sulle prestazioni di servizi e le forniture di merce effettuate dalla ditta B., se non quella costituita dal riconoscimento di un debito di lire 21.263.900 (pari a Euro 10.982,00);

– che non risultava fornita dal D.G. la prova dell’accordo di compensazione tra i rispettivi crediti, non potendosi attribuire valore al mero fatto della “non-destinazione in discarica” del materiale di risulta prelevato, nè alla deposizione del teste T., avente ad oggetto fatti riferitigli dallo stesso appellante;

– che la domanda di arricchimento senza causa, pure formulata dal D.G., doveva ritenersi inammissibile perchè il carattere sussidiario dell’azione ne impedisce la proposizione nel caso in cui, come nella fattispecie, sia stata proposta domanda ordinaria fondata su un titolo contrattuale rimasta sfornita di prova;

– che pertanto l’importo dovuto dall’appellante d.G. era quello sopra accennato (Euro 10.982,00).

3 La ditta B.N. ricorre per cassazione con unico motivo, a cui resiste l’Impresa D.G. con controricorso contenente ricorso incidentale articolato a sua volta in due motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 Preliminarmente, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 121 c.p.c. e art. 87 disp. att. c.p.c.. Sostiene il controricorrente che il ricorso, formato in parte da un atto e in parte da documenti (fotocopie di fatture e bolle di accompagnamento che si assume siano state poste a sostegno della domanda monitoria) elude l’onere del deposito dei documenti nella sede opportuna.

L’eccezione è infondata.

Come già affermato da questa Corte in fattispecie di ricorsi confezionati mediante veri e propri assemblaggi di atti, il difetto di autosufficienza è sanzionabile con l’inammissibilità, a meno che il coacervo dei documenti integralmente riprodotti, essendo facilmente individuabile ed isolabile, possa essere separato ed espunto dall’atto processuale, la cui autosufficienza, una volta resi conformi al principio di sinteticità il contenuto e le dimensioni globali, dovrà essere valutata in base agli ordinari criteri ed in relazione ai singoli motivi (v. Sez. 5, Sentenza n. 18363 del 18/09/2015 Rv. 636551; v. altresì Sez. 2, Sentenza n. 2846 del 2016, e Sez. 2, Sentenza n. 3657 del 2016, non massimate).

Nel caso di specie, sulla scorta del citato principio, resta da valutare se il ricorso, una volta reso conforme al principio di sinteticità (mediante l’espunzione del coacervo delle fotocopie inserite nel corpo dell’atto) risponda a sua volta al requisito dell’autosufficienza.

La risposta è comunque positiva essendo possibile cogliere il nucleo della questione sottoposta alla Corte di cassazione, che è rappresentato dalla critica alla motivazione adottata dalla Corte di merito sulla portata della “non contestazione” del credito vantato dal B., in rapporto alla tesi difensiva sostenuta dal D.G. nel giudizio di merito.

Sempre per ragioni di priorità logica è opportuno trattare dapprima il ricorso incidentale del D.G., che col primo motivo denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c.: la Corte d’Appello, a suo dire, sarebbe incorsa nel vizio di extrapetizione per avere posto a fondamento della decisione un fatto costitutivo (non contestazione di parte del debito) affatto diverso rispetto a quello dedotto in giudizio dal B., il quale aveva invece fondato la prova del quantum su fatture e bolle di accompagnamento. In tal modo – prosegue il ricorrente incidentale – la sentenza finisce con l’interferire col potere dispositivo delle parti perchè sul tappeto del dibattito processuale erano stati posti altri fatti (con relativi argomenti) dai quali la Corte veneziana si è voluta totalmente discostare, andando a ricercare autonomamente differenti elementi di giudizio (parziale non contestazione del credito) su cui fondare la propria decisione.

Il motivo è infondato perchè si scontra con il consolidato orientamento di questa Corte – oggi ancora una volta ribadito dal Collegio – secondo cui il vizio di extrapetizione o di ultrapetizione ricorre solo quando il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti e pronunciando oltre i limiti del “petitum” e delle eccezioni “hinc ed inde” dedotte, ovvero su questioni che non siano state sollevate e che non siano rilevabili d’ufficio, attribuisca alla parte un bene non richiesto, e cioè non compreso nemmeno implicitamente o virtualmente nella domanda proposta. Ne consegue che tale vizio deve essere escluso qualora il giudice, contenendo la propria decisione entro i limiti delle pretese avanzate o delle eccezioni proposte dalle parti, e riferendosi ai fatti da esse dedotti, abbia fondato la decisione stessa sulla valutazione unitaria delle risultanze processuali, pur se in base ad argomentazioni o considerazioni non prospettate dalle parti medesime (Sez. 3, Sentenza n. 21745 del 11/10/2006 Rv. 592770; Sez. 3, Sentenza n. 2297 del 31/01/2011 Rv. 616336 non massimata; Sez. 3, Sentenza n. 1440 del 04/03/1980 Rv. 404990).

Applicando tale regola al caso di specie, appare evidente che la Corte di merito non è incorsa nel denunciato vizio di extrapetizione perchè non ha affatto attribuito al creditore più di quanto richiesto, ma si è limitata a fornire una diversa valutazione degli elementi di prova emersi dal processo, attribuendo peso decisivo ad uno di essi, cioè al riconoscimento parziale del debito.

1.2 Con il secondo motivo di ricorso incidentale l’Impresa D.G. denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2041 e 2042 c.c.. Partendo dal principio secondo cui l’azione generale di arricchimento può essere introdotta contestualmente all’azione di adempimento contrattuale in via alternativa o subordinata qualora l’altra domanda sia stata respinta per carenza del titolo, il D.G. rileva che nel caso di specie la ditta B. aveva negato in radice l’esistenza del titolo contrattuale (accordo di compensazione tra rispettivi crediti), di talchè egli non aveva altra alternativa che quella di spiegare domanda ex art. 2041 c.c., per ottenere in via di indennizzo quanto eventualmente negatogli in via di pagamento contrattuale, all’esito della declaratoria giudiziale di inesistenza di un valido titolo negoziale fatto valere.

Anche questa censura è priva di fondamento.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, l’azione di arricchimento può essere proposta, in via subordinata rispetto all’azione contrattuale proposta in via principale, soltanto qualora quest’ultima sia rigettata per un difetto del titolo posto a suo fondamento, ma non anche nel caso in cui sia stata proposta domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti all’accoglimento, ovvero in quello in cui tale domanda, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall’interessato (tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 6295 del 13/03/2013 Rv. 625491; Sez. 3, Sentenza n. 8020 del 02/04/2009 Rv. 607889; Sez. 3, Sentenza n. 23625 del 20/12/2004 Rv. 578523).

Insomma, per la proposizione dell’azione di arricchimento in via subordinata rispetto all’azione contrattuale proposta in via principale, occorre che l’azione tipica dia esito negativo per carenza “ab origine” dell’azione stessa derivante da un difetto del titolo posto a suo fondamento (v. Sez. 1, Sentenza n. 17647 del 10/08/2007 Rv. 599679).

Nel caso di specie, però, non ricorrono affatto tali condizioni perchè la domanda di pagamento a sua volta avanzata dal D.G., avente ad oggetto un controcredito opposto in compensazione nell’ambito di un rapporto di prestazioni di servizi, è stata rigettata per mancato assolvimento dell’onere probatorio, avendo la Corte di merito affermato a chiare lettere che “nessuna prova è stata fornita dell’accordo alla base della compensazione” (v. pag. 6).

L’errore di fondo in cui mostra di incorrere il ricorrente incidentale sta pertanto nella confusione tra carenza “ab origine” dell’azione derivante da un difetto del titolo posto a suo fondamento e infondatezza, per difetto di prova, della domanda ordinaria secondo una valutazione spettante, ovviamente, al giudice di merito e non certo alla controparte (come pure erroneamente mostra di ritenere il ricorrente incidentale).

2 Resta da esaminare a questo punto l’unico motivo di ricorso principale della ditta B. con cui si deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il difetto di motivazione. Afferma in particolare la ditta ricorrente che la difesa impostata dal D.G. nel corso di giudizi di merito si rivelava assolutamente incompatibile con la contestazione delle prestazioni da essa eseguite e per dimostrare l’assunto procede a ricostruire la posizione difensiva della ditta debitrice, fondata essenzialmente sull’esistenza di un controcredito pari al costo dei materiali prelevati dalla B. per proprio conto, da opporre, secondo un preciso accordo, in compensazione rispetto alla somma vantata quest’ultima per le prestazioni svolte nel cantiere, prestazioni di cui invece veniva riconosciuto l’espletamento e il relativo ammontare, come dimostrato anche da apposite tabelle compilate dalla stessa ditta debitrice.

Solleva infine perplessità sulla affermazione della Corte d’Appello circa il mancato rinvenimento di fatture e bolle negli atti del giudizio rilevando invece di avere tempestivamente curato il deposito e di avere avanzato a suo tempo richiesta di certificazione di smarrimento fascicolo, non ancora evasa.

Il ricorso è infondato.

Conviene premettere, in considerazione della natura del vizio denunziato, che secondo il costante orientamento di questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (v. tra le tante, Sez. 3, Sentenza n. 17477 del 09/08/2007 Rv. 598953; Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997 Rv. 511208; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014 Rv. 629382).

Nel caso di specie, si è senz’altro al di fuori di tale ipotesi estrema: la Corte d’Appello infatti, dopo avere rilevato il mancato inserimento tra i documenti delle fatture e delle bolle poste a base del decreto ingiuntivo, ha ritenuto che dagli atti risultava solo un riconoscimento parziale del debito (per Lire 21.263.900), non essendo disponibile nessun’altra prova delle prestazioni di servizi e forniture di merce effettuate dalla ditta B.. E, sulla base di tale assorbente rilievo, ha liquidato il credito della B. nella predetta misura (v. pag. 6 sentenza impugnata).

Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo succinto, discutibile se si vuole, ma che non certo denota mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettata. dalle parti o rilevabile d di ufficio, oppure un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione.

La decisione della Corte di merito è dunque inattaccabile dalla censura del ricorrente che invece, sotto l’apparente denunzia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, sollecita sostanzialmente una alternativa ricostruzione delle risultanze processuali e quindi una attività che, come si è visto, nel giudizio di legittimità è assolutamente preclusa, a meno di non voler snaturarne la funzione.

In conclusione anche il ricorso principale va respinto con compensazione delle spese in considerazione della reciproca soccombenza.

PQM

rigetta i ricorsi e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 5 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2016

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