Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17954 del 31/08/2011

Cassazione civile sez. III, 31/08/2011, (ud. 07/07/2011, dep. 31/08/2011), n.17954

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – rel. Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 27069/2009 proposto da:

FINCRAI SRL IN LIQUIDAZIONE (OMISSIS) in persona del liquidatore

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA POMA 2, presso lo studio dell’avvocato TROILO Gregorio, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BRICCA LAURA, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

SAI COOP a r.l. (OMISSIS) in persona del Presidente, elettivamente

domiciliata in ROMA, VICOLO ORBITELLI 31, presso lo studio

dell’avvocato CLEMENTE Michele, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GRASSO GAETANO, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2775/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO del

17.9.08, depositata il 17/10/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/07/2011 dal Consigliere Relatore Dott. MAURIZIO MASSERA;

udito per la ricorrente l’Avvocato Laura Bricca che si riporta agli

scritti e chiede la trattazione del ricorso in pubblica udienza.

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. MASSIMO

FEDELI che nulla osserva rispetto alla relazione scritta.

Fatto

FATTO E DIRITTO

E’ stata depositata la seguente relazione:

1 – Con ricorso notificato il 30 novembre 2009 la Fincrai S.r.l. in liquidazione ha chiesto la cassazione della sentenza, non notificata, depositata in data 17 ottobre 2008 dalla Corte d’Appello di Milano che, in riforma della sentenza del tribunale, aveva trasferito alla Sai Soc. Coop. ari. il credito vantato dalla Fincrai nei confronti della CDC S.r.l. fino alla concorrenza di L. 450.000.000.

La Coop. Crai ha resistito con controricorso.

2 – La formulazione dei quattro motivi di ricorso non soddisfa i requisiti stabiliti dall’art. 366-bis c.p.c.. Occorre rilevare sul piano generale che, considerata la sua funzione, la norma indicata (art. 366 bis c.p.c.) va interpretata nel senso che per, ciascun punto della decisione e in relazione a ciascuno dei vizi, corrispondenti a quelli indicati dall’art. 360, per cui la parte chiede che la decisione sia cassata, va formulato un distinto motivo di ricorso.

Per quanto riguarda, in particolare, il quesito di diritto, è ormai jus receptum (Cass. n. 19892 del 2007) che è inammissibile, per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, il ricorso per cassazione nel quale esso si risolva in una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo. Infatti la novella del 2006 ha lo scopo di innestare un circolo selettivo e “virtuoso” nella preparazione delle impugnazioni in sede di legittimità, imponendo al patrocinante in cassazione l’obbligo di sottoporre alla Corte la propria finale, conclusiva, valutazione della avvenuta violazione della legge processuale o sostanziale, riconducendo ad una sintesi logico- giuridica le precedenti affermazioni della lamentata violazione. In altri termini, la formulazione corretta del quesito di diritto esige che il ricorrente dapprima indichi in esso la fattispecie concreta, poi la rapporti ad uno schema normativo tipico, infine formuli il principio giuridico di cui chiede l’affermazione.

Quanto al vizio di motivazione, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. Sez. Unite, n. 20603 del 2007).

3. – Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. – vizio di extrapetizione – violazione del sistema delle preclusioni di cui agli artt. 163 – 167 c.p.c. e art. 183 c.p.c., comma 1, come modificati dalla novella 353/09; violazione dell’art. 101 c.p.c.;

violazione dell’art. 345 c.p.c.. Come si evince dalla rubrica, la censura attiene ad una pluralità di questioni non omogenee e, quindi, si pone in contrasto con il disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4.

Di questa impostazione risente il plurimo quesito finale, il quale non postula l’enunciazione di un principio di diritto fondato sulle norme indicate, ma semmai chiede, sulla base di proposizioni astratte, una verifica della correttezza della sentenza impugnata, dalla cui motivazione peraltro prescinde. Il secondo motivo è articolato in due censure che denunciano, rispettivamente, la prima:

violazione dell’art. 115 c.p.c.; la seconda: violazione dell’art. 2697 c.c..

Sotto il primo profilo, si assume che la sentenza ha utilizzato circostanze di fatto mai tempestivamente prospettate dalla Sai e meno che mai provate.

La censura implica lettura degli atti e loro interpretazione, attività che sono riservare al giudice di merito. Anche il motivo in esame si conclude con un duplice quesito che, contravvenendo al modello sopra delineato, prescinde totalmente dai necessari riferimenti al caso concreto e, quindi, risulta generico e astratto.

Sotto il secondo profilo, si assume che in ogni caso la Sai non ha provato le circostanze utilizzate dalla Corte territoriale.

La censura è apodittica e si conclude con un quesito palesemente astratto.

Il terzo motivo lamenta motivazione illogica, contraddittoria e insufficiente; violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 – 1363 c.c.; erronea ricognizione della fattispecie concreta.

Come dimostra in particolare l’ultima parte della rubrica, la censura si muove su un piano squisitamente di merito e implica un approfondito esame della vicenda all’origine della controversia e la sua precisa ricostruzione in termini fattuali, attività precluse al giudice di legittimità. Giova ribadire che il vizio di contraddittorieta della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorchè dalla lettura della sentenza non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice. (Cass. n. 8106 del 2006), mentre il difetto di insufficienza della motivazione è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione; in ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. n. 2272 del 2007).

La motivazione della sentenza impugnata non presenta nessuna delle situazione sopra delineate, è congrua e da razionalmente conto delle scelte operate.

Quanto al tema (trattato sub 3.2) dell’ermeneutica contrattuale, è orientamento giurisprudenziale costante (confronta, per tutte, Cass. 4849 del 2006; Cass. n. 15381 del 2004) che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c., e segg.. Nell’ipotesi in cui il ricorrente lamenti espressamente tale violazione, egli ha l’onere di indicare, in modo specifico, i criteri in concreto non osservati dal giudice di merito e, soprattutto, il modo in cui questi si sia da essi discostato, non essendo, all’uopo, sufficiente una semplice critica della decisione sfavorevole, formulata attraverso la mera prospettazione di una diversa (e più favorevole) interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante. Tale orientamento è stato totalmente condiviso e applicato da questa stessa sezione che, infatti, ha ripetutamente affermato (Cass. Sez. 3^, n. 18735 del 2003; Cass. Sez. 3^, n. 17427 del 2003) che l’interpretazione della volontà della parti in relazione al contenuto di un contratto o di una qualsiasi clausola contrattuale importa indagini e valutazioni di fatto affidate al potere discrezionale del giudice del merito, non sindacabili in sede di legittimità ove non risultino violati i canoni normativi di ermeneutica contrattuale e non sussista un vizio nell’attività svolta dal giudice di merito, tale da influire sulla logicità, congruità e completezza della motivazione.

Anzi, questa sezione ha ulteriormente precisato (Cass. Sez. 3^, n. 15279 del 2003) che il ricorrente per Cassazione che censuri l’erronea interpretazione di clausole contrattuali da parte del giudice del merito, per il principio di autosufficienza del ricorso, ha l’onere di trascriverle integralmente perchè al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura.

Il triplice quesito finale si connota di genericità assoluta mentre manca il momento di sintesi necessario per specificare gli addotti vizi motivazionali Il quarto motivo lamenta ancora contraddittoria e illogica motivazione; violazione e falsa applicazione degli artt. 769, 782 e 2932 c.c.. Si l’assunto è che la cessione non poteva che integrare una promessa di donazione, con conseguente impossibilità di accedere ad una pronuncia ex art. 2932 c.c., o, in subordine, una donazione nulla per palese difetto del necessario atto pubblico.

La questione è stata esaminata dalla sentenza impugnata che ne ha argomentato la ritenuta infondatezza; comunque, implica lettura e interpretazione degli atti e delle risultanze processuali. Il plurimo quesito finale non tratta il tema dei vizi di motivazione e risulta ancora una volta astratto.

4. – La relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori delle parti;

La ricorrente ha presentato memoria ed ha chiesto d’essere ascoltata in camera di consiglio;

5.- Ritenuto:

che, a seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione;

che le argomentazioni addotte dalla ricorrente con la memoria e in udienza non valgono ad ovviare ai vizi presenti nel ricorso ed evidenziati dalla relazione; il giudizio di cassazione, a differenza di quello di appello, è a critica vincolata e non consente censure diverse da quelle specificamente stabilite dall’art. 360 c.p.c., nè formulazioni difformi da quella risultante dal combinato disposto degli artt. 366 e 366-bis c.p.c. (nella specie ancora vigente ratione termporis); le tesi prospettate non superano i rilievi esposti nella relazione;

che pertanto il ricorso va dichiarato inammissibile; le spese seguono la soccombenza;

visti gli artt. 380-bis e 385 cod. proc. civ..

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.00 0,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2011

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