Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17945 del 04/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 04/07/2019, (ud. 19/02/2019, dep. 04/07/2019), n.17945

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino L. – Presidente –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. PUTATURO Maria Giulia – Consigliere –

Dott. CAVALLARI Dario – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6325/2012 R.G. proposto da:

Agenzia delle Dogane, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale

dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi 12;

– ricorrente –

contro

Milena Confezioni spa, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Ernesto

Marinelli e Maria Teresa Barbantini Fedeli, con domicilio eletto in

Roma, viale Giulio Cesare 14;

– controricorrente –

ricorrente incidentale avverso la sentenza della Commissione

tributaria regionale di Firenze n. 44/17/11, depositata l’8 aprile

2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 febbraio

2019 dal relatore Dario Cavallari.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’Ufficio delle dogane di Arezzo ha notificato quattro avvisi di rettifica dell’accertamento, dopo avere rettificato alcune dichiarazioni doganali, trasformando il trattamento daziario di alcune importazioni da preferenziale a non preferenziale con dazio all’8%.

La Milena Confezioni spa ha opposto tali avvisi davanti alla CTP di Arezzo.

La CTP di Arezzo, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 11/6/2009, ha respinto il ricorso.

La Milena Confezioni spa ha proposto appello che la CTR di Firenze, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 44/17/2011, ha accolto.

L’Agenzia delle Dogane ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.

La Milena Confezioni spa ha resistito con controricorso e ha proposto ricorso incidentale fondato su un motivo.

L’Agenzia delle Dogane ha depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’Agenzia delle Dogane lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2699 e 2700 c.c., del Reg. CE n. 515 del 1997, art. 12 e 45, Reg. CE n. 1073 del 1999 del Parlamento Europeo e del Consiglio, art. 9, degli art. 115,116 e 213 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, commi 1 e 2.

L’Agenzia delle Dogane contesta il fatto che la CTR non abbia posto a carico della società contribuente l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle agevolazioni richieste, nonostante l’esportatore non avesse provveduto a fornire all’amministrazione doganale ceca la documentazione attestante l’origine della merce e quest’ultima amministrazione avesse attestato tale circostanza, togliendo ogni valore al certificato EUR-1 predisposto dal medesimo esportatore.

Con il secondo motivo l’amministrazione ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 43 del 1973, artt. 1 e 2, del Reg. CEE n. 2913 del 1992, art. 4 e art. 201 e 202 (cd. C.D.C.), del Reg. CEE n. 2454 del 1993, art. 904, punto c), poichè la CTR avrebbe errato nel ritenere che, pur in presenza di un certificato EUR-1 irregolare – circostanza che escludeva l’origine preferenziale dei beni – l’importatore non dovesse rispondere dell’obbligazione doganale qualora fosse in buona fede.

Con il terzo motivo l’amministrazione ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del Reg. CEE n. 2913 del 1992, art. 220 (cd. Codice Del Commercio Doganale) e del Reg. CEE n. 2454 del 1993, art. 904, punto c), poichè la CTR avrebbe errato nell’affermare la sussistenza della buona fede dell’importatore pur in assenza di un errore attivo dell’amministrazione doganale ceca e nonostante il modulo EUR-1 fosse stato compilato dall’importatore inserendovi delle attestazioni non veritiere.

Con il quarto motivo l’Agenzia delle Dogane contesta la violazione del Reg. CEE n. 2454 del 1993, art. 199, poichè la CTR avrebbe errato nel considerare in buona fede l’importatore nonostante quest’ultimo non avesse provveduto a verificare l’affidabilità dell’esportatore.

Con il quinto motivo, l’Agenzia delle Entrate lamenta che la CTR avrebbe omesso di motivare in ordine alle ragioni che l’avevano indotta ad accogliere l’appello.

I primi quattro motivi, che possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta connessione, sono fondati.

Per costante giurisprudenza del Giudice comunitario (Corte giustizia, 7 dicembre 1993, causa C-12/92, Huygen, punti 17 e 18; Corte di Giustizia, 9 marzo 2006, causa C-293/04, Beemsterboer, punto 34; Corte di Giustizia, 14 maggio 1996, cause riunite C153/94 e C-204/94, Faroe & Seafood, punto 16; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2011, causa C-409/10, Hauptzollamt Hamburg-Afasia Knits, punto 44) la irrisolta incertezza sull’origine della merce, non comprovabile in base ai documenti prodotti dall’esportatore, si risolve nell’assenza del presupposto richiesto per fruire della preferenza tariffaria poichè, qualora il controllo a posteriori non consenta di confermare la origine della merce indicata nel certificato EUR-1, si deve ritenere che essa sia di origine ignota e che, di conseguenza, il detto certificato e la tariffa preferenziale siano stati concessi indebitamente.

Il Reg. CEE n. 2913 del 1992, art. 220, n. 2, lett. b) (nel testo modificato dal Reg. CE n. 2700 del 2000, applicabile ratione temporis) dispone che non si procede a contabilizzazione a posteriori quando l’importo del dazio non è stato liquidato per un errore della autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore, avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione alla dogana.

Queste condizioni devono ricorrere, però, contemporaneamente (Corte di giustizia, 3 marzo 2005, causa C-499/03, Peter Biegl Nahrungsmittel GmbH, punto 46; Cass., Sez. 5, n. 4022 del 14 marzo 2012).

Tale disciplina si applica quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un Paese terzo, in maniera che il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore, purchè egli abbia agito in buona fede.

Peraltro, sempre in base alla menzionata normativa, il rilascio di un certificato irregolare “non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore”, salvo che risulti provato che le autorità che hanno rilasciato il certificato “erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate” che le merci non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale e che sia dimostrata la “buone fede” del debitore, il quale è tenuto a fornire la prova di avere “agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale”.

In particolare, il C.D.C., l’art. 220, n. 2, lett. b), deve essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui i certificati EUR-1 rilasciati per l’importazione di merci nell’Unione sono annullati in quanto il loro rilascio è viziato da irregolarità e l’origine preferenziale indicata su di essi non ha potuto essere confermata all’atto di un controllo a posteriori, l’importatore non può opporsi al recupero successivo dei dazi all’importazione, facendo valere che talune di dette merci potrebbero avere l’origine preferenziale suddetta (Cass., Sez. 5, n. 14039 del 2012).

Quindi non può essere invocata dalla società importatrice l’esimente della buona fede per la mancanza di un errore attivo ascrivibile al comportamento delle autorità doganali del paese di esportazione. L’azione di recupero a posteriori dei dazi dovuti non è, invero, preclusa dall’errore del contribuente che abbia reso dichiarazioni inesatte perchè determinate dalla falsità delle dichiarazioni o della documentazione provenienti dall’esportatore delle quali nessuna autorità debba preliminarmente verificare o valutare la validità – e che si rivelino mendaci in occasione di un successivo controllo, giacchè tale vicenda esclude la configurabilità di un errore sull’interpretazione o applicazione dei testi doganali, conseguenza del comportamento attivo delle autorità competenti per il recupero o dello Stato membro di esportazione che abbia indotto il debitore a rendere una dichiarazione inesatta.

Infatti, l’errore della dogana, secondo il C.D.C., art. 220, n. 2, lett. b, par. 3, non può consistere nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce – dato che le autorità stesse non debbono verificarne o valutarne la veridicità, mentre resta integrato da un comportamento attivo, che secondo la casistica poi codificata nella seconda parte della norma in esame, citato par. 3, della lett. b) – si basa su un’errata interpretazione delle norme in materia di origine (Corte di giustizia, 14 novembre 2002, causa C-251/00, Ilumitronica, punti 44 e 45) o una erronea classificazione doganale, risultante dal raffronto tra la voce dichiarata e la designazione delle merci in base alla nomenclatura (Corte di giustizia, 1 aprile 1993, causa C-250/91, Società Hewlett Packard France, punto 21).

In altri termini, il legittimo affidamento del debitore è degno della protezione prevista dal citato art. 220 soltanto se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la fiducia del debitore, diversamente, costui è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo (Corte di giustizia, 14 novembre 2002, causa C-251/00, Ilumitronica, punto 43), vigendo il principio secondo cui la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (si veda la citata Corte di giustizia, Beemsterboer, punto 43, ma anche Cass., Sez. 5, n. 4022 del 14 marzo 2012).

La normativa di favore in esame, quindi, intende tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la fondatezza degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare o meno i dazi, con la conseguenza che il giudice è tenuto ad accertare con rigore la ricorrenza della buona fede del contribuente, da valutare alla luce della sua esperienza e diligenza, il suo errore dovendo trovare causa in un comportamento attivo delle autorità doganali, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore (Cass., Sez. 5, n. 7702 del 27 marzo 2013; Cass., Sez. 5, n. 4022 del 14 marzo 2012).

Grava, pertanto, sul debitore, in forza della giurisprudenza comunitaria e nazionale, il rischio derivante da un documento commerciale che, in occasione di un successivo controllo si riveli, come nella fattispecie, falso, poichè egli non può nutrire un legittimo affidamento sulla validità dei certificati per il fatto che siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalle autorità doganali di uno Stato, dato che le operazioni effettuate daì detti uffici nell’ambito dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all’esercizio di controlli successivi.

Ovviamente, spetta alla Autorità doganale che intenda recuperare a posteriori il dazio fornire elementi atti ad invalidare la prova documentale in questione, ovvero dimostrare che “il rilascio dei certificati inesatti è imputabile alla inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore” (Corte di giustizia, 9 marzo 2006, causa C-293/04, Beemsterboer, punto 39), salvo che la dimostrazione di tale imputabilità non possa essere data per negligenza od impedimento opposto dalla stessa ditta esportatrice, gravando, in tal caso, sull’interessato di fornire la prova contraria della esattezza delle indicazioni fornite dall’esportatore al momento della richiesta di rilascio del certificato ovvero la prova che le autorità che hanno emesso il certificato inesatto e successivamente invalidato, al tempo del rilascio dello stesso erano informate o avrebbero dovuto essere informate che la dichiarazione della ditta esportatrice era inveritiera in quanto le merci non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale.

Non può procedersi, pertanto, a controllo a posteriori solo se l’operatore economico interessato ha dimostrato l’esistenza dell’errore colpevole commesso dalle autorità che hanno emesso il certificato, ovvero la violazione di obblighi di controllo previsti da norme che vincolano tali autorità, sempre che venga accertata, altresì, la buona fede della impresa importatrice (Corte di giustizia, 9 marzo 2006, causa C-293/04, Beemsterboer, punti 45 e 46).

In conclusione, grava sulla società debitrice l’onere di provare l’origine certa della merce importata e l’esattezza della indicazioni risultante dai certificati EUR-1.

In proposito occorre rilevare che, in un sistema di cooperazione quale quello del regime preferenziale basato sulla ripartizione di competenze tra Stato d’esportazione – che per il principio di vicinanza della prova è quello maggiormente deputato ad accertare la origine del prodotto – e Stato d’importazione – che è in grado di verificare la corretta applicazione del regime solo attraverso la collaborazione dello Stato esportatore (Corte di giustizia, 14 maggio 1996, cause riunite C-153/94 e C-204/94, Faroer Seafood, punto 19), la prova della inesattezza dei certificati può ritenersi raggiunta nel caso in cui, come nella specie, all’esito di indagine condotta in cooperazione con lo Stato esportatore i certificati EUR-1 vengano destituiti di efficacia probatoria dalle autorità doganali del Paese beneficiario e, dunque, non soltanto ove sia positivamente accertato che le merci ivi indicate non soddisfano al requisito essenziale della origine, ma qualora, all’esito dell’indagine, non sia possibile disporre di elementi sufficienti per confermare l’origine della merce indicata nel certificato, da reputare, pertanto, ignota (Corte di giustizia, 7 dicembre 1993 causa C-12/92, Huygen).

L’inesattezza del certificato rilasciato sulla base di una dichiarazione dell’esportatore non verificabile integra il presupposto dell’errore imputabile a quest’ultimo che ridonda nella mancata dimostrazione, in sede di controllo a posteriori, del requisito della origine preferenziale, che deve essere compiuta dall’esportatore.

Pertanto, deve applicarsi nella specie il principio generale, già enunciato dalla Suprema Corte in tema di dazi antidumping ed applicabile nella specie, che “In tema di tributi doganali, come precisato dalla giurisprudenza comunitaria, lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore richiesto dal Reg. CEE n. 2913 del 1992, art. 220, n. 2, lett. b) (C.D.C.) ai fini dell’esenzione della contabilizzazione “a posteriori” dei dazi, può essere invocato solo se l’errore dell’autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede, il quale deve anche aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore in relazione alla sua dichiarazione in dogana, sicchè quando l’errore dell’Amministrazione sia consistito nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce – tale buona fede non sussiste e il debitore è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo” (Cass., Sez. 5, n. 13770 del 6 luglio 2016).

Una volta che, perciò, è stata accertata come non veritiera l’origine della merce, in linea di principio deve ritenersi che l’ufficio doganale abbia assolto all’onere probatorio su di lui gravante, incombendo sull’importatore il diverso onere di dimostrare la ricorrenza dei presupposti menzionati dal citato art. 220 del C.D.C.(Corte di giustizia, 16 marzo 2017, causa C-47/16, Veloserviss, punto 47; Cass., Sez. 5, n. 4393 del 14 febbraio 2019, in motivazione; Cass., Sez. 5, n. 7674 del 16 maggio 2012, in motivazione).

D’altronde, se si seguisse l’impostazione della CTR, si arriverebbe alla conseguenza irragionevole che lo stato di buona fede dell’importatore lo esonererebbe sempre da ogni responsabilità, con l’effetto che egli non controllerebbe più l’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di riferimento o la sua buona fede, così ingenerandosi abusi (Corte di giustizia, 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos, punto 57).

Lo stato soggettivo di consapevolezza o meno dell’importatore in ordine all’irregolare introduzione della merce è, dunque, irrilevante, in linea generale, poichè egli, essendo il dichiarante della merce importata, è tenuto a vigilare sulla correttezza dei dati forniti dall’esportatore (Corte di giustizia, 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos, punto 57; Corte di giustizia, 11 dicembre 1980, causa 827/79, Acampora, punto 8; Cass., Sez. 5, n. 24675 del 23 novembre 2011).

L’importatore deve, perciò agire, affinchè siano rispettate tutte le condizioni per beneficiare del trattamento preferenziale, con una diligenza qualificata ex art. 1176 c.c., comma 2, da ragguagliare alla natura dell’attività svolta, dovendosi affermare che l’esercizio professionale dell’attività di importazione richiede normalmente il controllo esigibile dell’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di esportazione (Cass., Sez. 5, n. 4393 del 14 febbraio 2019, in motivazione).

Nel caso in questione, è palese che l’amministrazione doganale ceca aveva svolto i dovuti controlli e che unica responsabile della situazione era la società esportatrice che non era stata in grado di fornire alcuna documentazione in grado di provare l’origine dichiarata della merce, a nulla valendo il fatto che la dogana locale avesse passivamente ricevuto le dichiarazioni della medesima esportatrice.

Non vi era stata nessuna condotta attiva impropria dell’ufficio doganale tale da giustificare un affidamento delle società coinvolte nella ricorrenza dei requisiti per godere del trattamento daziale privilegiato e, quindi, del tutto legittimamente l’Agenzia delle Dogane aveva domandato il pagamento dell’importo non versato, richiesta doverosa alla luce del venire meno degli effetti probatori tipizzati del certificato EUR-1 in seguito al controllo dell’autorità del paese di esportazione.

La società importatrice, comunque, a prescindere dalla correttezza dell’operato delle amministrazioni coinvolte, era tenuta a dimostrare di avere operato in buona fede, il che, però, deve escludersi abbia fatto, non avendo essa mai dedotto di avere in qualche modo compiuto dei controlli sull’operato del soggetto esportatore.

Ne consegue, quindi, l’accoglimento dei primi quattro motivi del ricorso principale.

2. L’accoglimento dei primi quattro motivi del ricorso principale comporta la non necessità di esaminare il quinto.

3. Deve essere scrutinato, quindi, l’unico motivo di ricorso incidentale, con il quale la Milena Confezioni spa lamenta l’omessa pronuncia del giudice di appello pregiudiziale della questione.

Il motivo è inammissibile, colto la ratio della decisione.

Il giudice di secondo grado, su un punto rilevante e infatti, ha ritenuto non adeguatamente motivata la decisione di primo grado per poi, però, decidere nel merito la causa, peraltro in favore della Milena Confezioni spa, in applicazione del principio per cui l’effetto devolutivo preclude al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di appello che fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, tuttavia appaiano, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone necessario antecedente logico e giuridico.

Nel giudizio d’appello, infatti, il giudice può riesaminare l’intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purchè tale indagine non travalichi i margini della richiesta, coinvolgendo punti decisivi della statuizione impugnata suscettibili di acquisire forza di giudicato interno in assenza di contestazione, e decidere, con pronunzia che ha natura ed effetto sostitutivo di quella gravata, anche sulla base di ragioni diverse da quelle svolte nei motivi d’impugnazione (Cass., Sez. 3, n. 9202 del 13 aprile 2018).

Ne consegue che il ricorso incidentale va dichiarato inammissibile.

3. Il ricorso principale va, pertanto, accolto, limitatamente ai primi quattro motivi, assorbito il quinto, mentre il ricorso incidentale va dichiarato inammissibile.

La sentenza impugnata va, quindi, cassata con rinvio alla CTR di Firenze, altra sezione, affinchè decida la causa nel merito anche in ordine alle spese di legittimità.

PQM

La Corte:

accoglie i primi quattro motivi del ricorso principale, assorbito il quinto, e dichiara inammissibile il ricorso incidentale;

cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR di Firenze, altra sezione, affinchè decida la causa nel merito anche sulle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5 Sezione Civile, il 19 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019

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