Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17934 del 27/08/2020

Cassazione civile sez. II, 27/08/2020, (ud. 22/01/2020, dep. 27/08/2020), n.17934

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25417-2016 proposto da:

STUDIO LEGALE ASSOCIATO M. & PARTNERS, P.M.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DI MONTE GIORDANO N 36,

presso lo studio dell’avvocato MARCO PISTIS, rappresentati e difesi

dall’avvocato GIANLUCA METERANGELO, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrenti –

contro

DS GROUP SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. DE CAVALIERI

N. 11, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO PETRONI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO DE SANNA, in

virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2989/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 14/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/01/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dai ricorrenti.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. Gli odierni ricorrenti convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la D.S. Group S.r.l., oggi D.S. Group S.p.A. affinchè fosse condannata al pagamento della somma di Euro 30.000,00 per effetto del contratto del 18 dicembre 2007. Deducevano che l’avv. P.M. avesse prestato assistenza in favore della società da svariati anni e che quest’ultima, atteso anche il crescente incremento della propria attività, aveva interesse ad una determinazione del compenso a forfait più vantaggiosa rispetto agli accordi presi per gli anni precedenti.

Pertanto con il contratto in questione, relativo al periodo dal 1 aprile 2008 al 31 marzo 2009, lo studio si impegnava a praticare uno sconto del 40% rispetto alle tariffe ordinarie, e che la società si impegnava a riconoscere allo studio un minimo garantito annuale di Euro 30.000,00 suddiviso in quattro minimi trimestrali di Euro 7.500,00 ciascuno.

Tuttavia in data 26 marzo 2008, la D.S. Group comunicava di non voler dare seguito al contratto, comunicazione che doveva reputarsi priva di efficacia, permanendo quindi il diritto al corrispettivo forfettario pattuito.

Nella resistenza della convenuta, che nel corso del giudizio deduceva anche la nullità del contratto per la mancanza di causa in concreto, il Tribunale adito con la sentenza n. 2355 del 16 febbraio 2011 accoglieva la domanda degli attori, rilevando l’infondatezza, oltre che la tardività della domanda di nullità dell’accordo, e ritenendo che il contratto de quo era vincolante per le parti già al momento della sua sottoscrizione, sebbene la sua operatività andasse dal 1 aprile 2008 al 31 marzo 2009.

La durata predeterminata del contratto escludeva la possibilità di recesso da parte della committente, il che rendeva illegittimo il recesso ad nutum esercitato dalla convenuta.

Avverso tale sentenza ha proposto appello la D.S. Group e, nella resistenza degli appellati, la Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 2989 del 14 luglio 2016 ha accolto il gravame, rigettando la domanda attorea.

La sentenza di secondo grado rilevava che nel contratto d’opera professionale la previsione di un compenso forfettario non esime il professionista dall’esposizione specifica dell’attività compiuta e delle spese sostenute, così che laddove non sia stata svolta alcuna attività, nessun compenso può essere preteso.

Tuttavia, non poteva ritenersi che la pattuizione di una durata predeterminata del contratto, senza la previsione di un recesso anticipato, sottenda il fatto che la committente abbia rinunciato implicitamente alla facoltà di recesso.

Poichè il contratto non aveva avuto alcuna esecuzione, il recesso comunicato in data anteriore alla data prevista per l’inizio di esecuzione, non legittimava il diritto ad alcun compenso da parte del professionista.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso P.M. e lo Studio Legale Associato M. & Partners sulla base di tre motivi, illustrati anche da memorie.

La D.S. Group S.p.A. ha resistito con controricorso.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c.

Infatti, l’appellante aveva reiterato in appello la domanda di nullità del contratto per l’assenza di causa concreta, ma la Corte d’Appello ha omesso di pronunciarsi su tale domanda, concentrandosi invece su questioni diverse da quelle dedotte con l’atto di impugnazione, come ad esempio quella relativa alla determinazione del compenso a forfait pattuita in contratto.

Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 183 c.p.c., comma 1 e art. 345 c.p.c., nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Nel richiamare quanto dedotto con il primo motivo, la censura evidenzia che già la domanda di nullità era stata tardivamente avanzata in primo grado, sicchè andava dichiarata inammissibile anche dal giudice di appello.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono inammissibili.

Invero, come si ricava in maniera piana dalla lettura della sentenza impugnata, la decisione della Corte distrettuale, nel valutare le modalità con le quali le parti avevano determinato il compenso spettante al professionista in seguito alla conclusione del contratto, ma al limitato fine di evidenziare che al momento del recesso non era stata offerta alcuna prestazione che potesse comunque legittimare il diritto a ricevere una parte del compenso pattuito, ha risolto la controversia in ragione della perdurante possibilità per la committente di poter recedere dal contratto, in assenza di una deroga alla previsione di cui all’art. 2237 c.c., ritenendo quindi tale considerazione assorbente di ogni “altra domanda, eccezione o questione avanzate e trattate dalle parti” (cfr. pag. 5).

Alla luce di tale affermazione che denota come la controversia sia stata risolta sulla base del principio della ragione ritenuta più liquida, deve escludersi (come peraltro si evince anche dalle argomentazioni spese dalle Sezioni Unite nelle sentenze nn. 26242 e 26243 del 2014 in tema di nullità negoziale) che il giudice di merito fosse tenuto a pronunciarsi sulla domanda di nullità del contratto, valutandone anche la sua inammissibilità sul piano processuale (come peraltro opinato dal Tribunale, che ne aveva in ogni caso sancito anche l’infondatezza nel merito). Peraltro trattandosi di domanda avanzata dalla società committente, della sua omessa pronuncia è legittimata a dolersene solo la parte che l’aveva proposta e non anche gli odierni ricorrenti, nè vale invocare l’interesse ad ottenere una declaratoria di sua inammissibilità, per essere stata tardivamente proposta in primo grado, posto che la soluzione del giudice di appello, basata sulla ammissibilità del recesso, presuppone (sebbene non sia idonea a determinare il giudicato sulla validità del contratto, atteso il ricorso al principio della ragione più liquida) che il contratto sia produttivo di effetti e che dallo stesso possa quindi recedersi.

Ne deriva che, ove anche fosse stata affermata la tardività della domanda di nullità, avendo la parte appellante dedotto con i motivi di appello (così come riassunti a pag. 3 e 4 della sentenza gravata) la questione circa la possibilità di recedere dal contratto, ciò non incide sulla ratio che sorregge la sentenza impugnata, rendendo quindi evidente l’inammissibilità dei motivi in esame che non appaiono idonei a determinare la caducazione della decisione gravata.

3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1371, 1372, 2237 c.c., nonchè l’omesso esame di un atto controverso e decisivo per il giudizio.

Si deduce che correttamente il Tribunale aveva reputato che il contratto fosse immediatamente efficace tra le parti e che fosse stata pattuita una deroga alla previsione di cui all’art. 2237 c.c.

Il giudice di appello, nel negare che il diritto al corrispettivo fosse correlato alla semplice messa a disposizione della società della struttura e delle prestazioni dello studio associato, non ha considerato che il nuovo contratto prescindeva per il riconoscimento del compenso dalla richiesta di specifiche attività, ma mirava a compensare la semplice messa a disposizione dello studio, inteso come complesso di professionisti e mezzi, anche in assenza di prestazioni effettive. Inoltre non risulta comprensibile la ragione per la quale la Corte d’Appello abbia ritenuto che le parti non avessero inteso derogare alla disposizione di cui all’art. 2237 c.c., a fronte della previsione di una durata predeterminata del contratto.

Il motivo è in parte fondato.

Rileva il Collegio che la questione relativa alla modalità con la quale era stato determinato il compenso a forfait è stata esaminata dal giudice di appello, al fine di verificare, una volta ritenuto ammissibile il recesso da parte della committente, se a fronte del recesso residuasse comunque un’obbligazione in capo alla convenuta in relazione alle spese sostenute ed al compenso per l’attività prestata sino al momento del recesso. A tal fine è stato evidenziato che, poichè il recesso era anteriore alla stessa data per la quale era stato previsto l’inizio delle prestazioni offerte dallo studio, sulla base della disciplina del nuovo contratto concluso nel dicembre del 2007, nulla potesse esser richiesto.

Rileva il Collegio che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).

Ciò rileva ai fini di evidenziare che le critiche complessivamente mosse all’interpretazione del contratto, come sviluppate nella prima parte del motivo, quanto alla modalità di corresponsione del compenso a forfait, lungi dal denotare l’assoluta erroneità, alla luce delle regole di ermeneutica contrattuale, ovvero l’implausibilità dell’interpretazione offerta dal giudice di appello, mirano a sollecitare una personale e ritenuta più appagante ricostruzione della volontà contrattuale, che però non giustifica l’accoglimento della censura, palesandosi in ogni caso prospettabile anche la diversa lettura offerta dal giudice di merito, cui la legge riserva tale compito, e dovendo la Corte esclusivamente verificarne la correttezza nei suindicati limiti.

Peraltro la questione perde anche di rilevanza, ove si abbia riguardo a quello che appare essere il vero punto centrale della vicenda, e cioè la possibilità o meno per la committente, pur a fronte di un contratto che prevedeva un termine prefissato di durata, di potere recedere anticipatamente ex art. 2237 c.c., in questo caso, non già nel corso del periodo di operatività del contratto, ma in data anteriore.

In tal senso va osservato che, se si reputa il recesso legittimo, alla data del recesso non poteva farsi riferimento alle ragioni che avevano indotto a modificare le condizioni economiche del rapporto per legittimare il diritto al compenso, atteso che l’attività sino a quel momento svolta era destinata a trovare la sua regolamentazione nella disciplina del contratto preesistente; se invece si reputa illegittimo il recesso, per la volontà delle parti di derogare alla previsione di cui all’art. 2237 c.c., allora il compenso pattuito sarebbe dovuto, non potendo l’anteriorità del recesso rispetto alla data di inizio dell’efficacia del rapporto, precludere le conseguenze derivanti dalla permanente vincolatività del contratto, anche quanto alle obbligazioni gravanti sulla committente.

In relazione alla questione relativa quindi alla possibilità di recesso della committente, ritiene il Collegio che debba darsi continuità a quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 469/2016, la cui massima recita che in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sè la facoltà di recesso “ad nutum” previsto, a favore del cliente, dall’art. 2237 c.c., comma 1 dovendosi accertare in concreto, in base al contenuto del regolamento negoziale, se le parti abbiano inteso o meno vincolarsi in modo da escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita.

In motivazione si è chiarito altresì che certamente è legittima l’apposizione di un termine di durata del contratto, non essendo vietata da alcuna specifica norma, così come è derogabile pattiziamente la facoltà di recesso ad nutum del cliente.

Tuttavia occorre verificare se, in presenza di una durata convenzionale, il rapporto sia suscettibile di anticipato scioglimento per effetto del recesso ad nutum da parte del cliente ovvero se la previsione di un termine di durata integri rinuncia alla facoltà di recesso da parte del cliente.

Sebbene la previsione della possibilità di recesso ad nutum del cliente contemplata dall’art. 2237 c.c., non abbia carattere inderogabile e quindi sia possibile che, per particolari esigenze delle parti, sia esclusa tale facoltà fino al termine del rapporto, tuttavia la predeterminazione di un termine di durata del contratto intanto può integrare rinuncia da parte del cliente al recesso ove dal complessivo regolamento negoziale possa inequivocabilmente ricavarsi la volontà delle parti di vincolarsi per la durata del contratto, vietandosi reciprocamente il recesso prima della scadenza del termine finale (in tal senso provvedendosi a mitigare l’apparente assolutezza del principio affermato da Cass. n. 22786/2013 e da Cass. n. 27293/2006, secondo cui doveva ritenersi sufficiente ad escludere la facoltà di recesso di cui all’art. 2237 c.c., comma 1 la mera apposizione di un termine al rapporto di collaborazione professionale, senza necessità di un patto espresso e specifico).

A tale orientamento ha mostrato poi di adeguarsi anche la successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 1215/2017; Cass. n. 17679/2017; Cass. n. 21904/2018; Cass. n. 24350/2019).

A tal fine è stato ribadito che la durata predeterminata del contratto può implicare rinuncia solo a condizione che dal complesso del regolamento contrattuale si ricavi in maniera inequivoca la volontà delle parti di vincolarsi per la durata del contratto, vietandosi quindi reciprocamente la facoltà di recesso e tale verifica compete al giudice di merito che deve stabilire se, nella specifica fattispecie al suo esame, la previsione di un termine di durata valga o meno quale implicita esclusione del diritto di recesso del committente.

La sentenza impugnata ha escluso che le parti avessero rinunciato alla facoltà di recesso, in presenza di un contratto avente una durata predeterminata, solo perchè mancava una previsione espressa al riguardo, avendo quindi omesso di compiere quella verifica richiesta dai precedenti indicati, che deve attenere non solo alla clausola di durata o all’assenza di una pattuizione esplicita, ma alla valutazione del complesso del regolamento negoziale.

La conclusione alla quale è pervenuto il giudice di merito determina quindi una falsa applicazione della norma di cui all’art. 2237 c.c., dovendosi quindi pervenire, in accoglimento del motivo, alla cassazione della sentenza impugnata, e dovendo il giudice del rinvio provvedere alla verifica della ricorrenza o meno di una deroga alla previsione di cui all’art. 2237 c.c., sulla scorta di una complessiva valutazione delle pattuizioni contrattuali.

4. Il giudice del rinvio che si designa in una diversa sezione della Corte d’Appello di Milano, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

PQM

Accoglie il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, e dichiarati inammissibili i primi due motivi, cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 agosto 2020

 

 

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