Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17930 del 04/07/2019

Cassazione civile sez. III, 04/07/2019, (ud. 06/05/2019, dep. 04/07/2019), n.17930

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29031-2017 proposto da:

DOTT. F. P. SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DOMENICO CHELLINI 20, presso lo studio dell’avvocato MARCO

CALABRESE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE CONDIPODERO

MARCHETTA;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI LIBRIZZI;

– intimato –

avverso la sentenza n. 563/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 24/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/05/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Patti, con sentenza n. 4362/2010, revocato il decreto ingiuntivo opposto dal Comune di Librizzi, condannava l’ente locale a pagare alla Società Dott. F. P. s.r.l. il compenso per la esecuzione del servizio di accertamento e liquidazione dell’ICI per l’anno 1994, affidato con Delib. sindacale 16 novembre 1996, n. 64/T, che prevedeva un compenso fisso per ogni pratica trattata ed un compenso variabile, pari al 30% della maggiore imposta accertata. Il Giudice di primo grado riteneva tuttavia provato solo lo svolgimento di 670 pratiche, contro le 1.351 indicate in fattura, e non anche l’importo della maggiore imposta accertata.

La Corte d’appello di Messina, con sentenza in data 24.5.2017 n. 563, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla società, ha ritenuto invece raggiunta, sulla scorta delle dichiarazioni testimoniali assunte, la prova delle somme riscosse dal Comune pari a Lire 5.867.700 (Euro 3.030,41) riconoscendo quindi dovuta anche la somma di Euro 909,10 corrispondente alla quota variabile del compenso (pari al 30% del riscosso). Il Giudice di secondo grado ha confermato per il resto la decisione di prime cure in quanto la mera fattura non costituiva prova del maggior numero di pratiche trattate allegate dalla società ma contestate dal Comune.

La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata dalla società con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, ritualmente notificato, in via telematica, al Comune di Librizzi presso l’indirizzi PEC del difensore domiciliatario in data 27.11.2017.

Il Comune intimato non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo (violazione dell’art. 2697 c.c. del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 12, dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la società assume che la Corte territoriale:

a) non avrebbe tenuto conto della disposizione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 12 che prevedeva la riscossione a mezzo ruolo delle maggiori somme accertate a titolo ICI, ma entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello della notifica dell’avviso di liquidazione o di accertamento, sicchè al tempo dell’espletamento del mandato l’importo accertato doveva ritenersi corrispondente all’importo riscosso;

b) avrebbe omesso di considerare che il Comune non aveva contestato nè il numero di pratiche esaminate “che si ribadisce corrisponde a 1.141”, nè la determinazione del compenso come liquidato nella fattura n. (OMISSIS), sicchè la società non era tenuta a provare “il maggior importo riscosso dall’ente”.

Il motivo è inammissibile sotto entrambi i profili censurati.

Il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 12 nel testo vigente all’epoca, disponeva che “Le somme liquidate dal comune per imposta, sanzioni ed interessi, se non versate, con le modalità indicate nell’art. 10, comma 3, entro il termine di 90 giorni dalla notificazione dell’avviso di liquidazione o dell’avviso di accertamento, sono riscosse, salvo che sia stato emesso provvedimento di sospensione, coattivamente mediante ruolo secondo le disposizioni di cui al D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, e successive modificazioni; il ruolo deve essere formato e reso esecutivo non oltre il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’avviso di liquidazione o l’avviso di accertamento sono stati notificati al contribuente ovvero, in caso di sospensione della riscossione, non oltre il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di scadenza del periodo di sospensione.”.

Tanto è sufficiente, attesa la inequivocità della lettera del testo normativo, ad escludere la supposta “coincidenza” tra l’importo liquidato od accertato e l’importo effettivamente riscosso, essendo chiaramente riferibili tali attività a fasi ben distinte del procedimento tributario: la fase dell’accertamento, che si conclude con la notifica dell’avviso, e quella della riscossione che richiede la previa formazione del titolo esecutivo stragiudiziale, mediante la formazione del ruolo con la iscrizione delle somme dovute a titolo di imposta, interessi e sanzioni.

Qualora poi la ricorrente avesse voluto, invece, censurare la errata interpretazione delle disposizioni che regolavano il servizio in affidamento, ed in particolare la determinazione del compenso, contenute nella Delib. sindacale 16 novembre 1996, n. 64/T ipotizzando un errore del Tribunale e della Corte d’appello laddove avevano ritenuto di collegare, la parte variabile del compenso, al “riscosso” anzichè all'”accertato”, bene allora avrebbe dovuto la società descrivere compiutamente le clausole del provvedimento di affidamento del servizio, evidenziando specificamente la violazione della norma disciplinatrice del criterio ermeneutico da applicare alla fattispecie: in assenza di tali elementi il motivo non risponde, pertanto, ai requisiti di ammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6.

Anche la seconda censura va incontro ad inammissibilità per difetto del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

Per un verso infatti neppure viene allegato se la questione della “non contestazione” da parte del Comune del numero delle pratiche e dell’importo riscosso indicati in fattura, fosse stata devoluta alla cognizione del Giudice di appello con specifico motivo di gravame (vedi ricorso pag. 5 in cui la questione non viene indicata tra le critiche mosse con l’appello alla decisione del Tribunale). Per altro verso l’affermazione della ricorrente del comportamento processuale non contestativo del Comune non è supportata da alcun elemento di riscontro desunto dagli atti processuali di primo grado: in mancanza di trascrizione del contenuto dei motivi di opposizione a decreto ingiuntivo e delle – eventuali – difese svolte alla udienza di trattazione ovvero nelle memorie depositate dall’opponente ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, la censura si palesa inammissibile per difetto di esposizione del fatto processuale (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 15961 del 18/07/2007; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 20637 del 13/10/2016), mentre la mera allegazione che il Comune avesse contestato soltanto l’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto convenzionale (cattiva gestione ed arbitrarie dimissioni della società: vedi ricorso pag. 3-4) non depone affatto a sostegno della tesi della ricorrente, sibbene evidenzia una contestazione “a tutto campo” del Comune volta a negare qualsiasi corrispettivo, con la conseguenza che l’onere della prova dei fatti costituivi del diritto, ossia non soltanto del corretto adempimento del servizio ma degli elementi fattuali cui era ricollegata la determinazione del quantum, non poteva che ricadere sulla società opposta.

Con il secondo motivo (nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) la società censura la sentenza di appello per aver omesso di pronunciare sul motivo di gravame con il quale veniva contestato al Tribunale di aver quantificato il numero di pratiche trattate, cui era collegata la quota fissa del compenso, nel minor numero di 670 anzichè, come risultava dalla fattura, in complessive 1.341 pratiche.

Con il terzo motivo (omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), proposto in via subordinata, formula la medesima critica prospettata come errore di fatto per omessa rilevazione del motivo di gravame nell’atto di appello.

Il secondo motivo è fondato, rimanendo in conseguenza assorbito l’esame del terzo motivo.

La Corte territoriale ha statuito in ordine alle sole somme richieste per la “quota variabile” del compenso (30% dell’importo riscosso dal Comune), ritenendo fondata la pretesa nei limiti della prova testimoniale assunta, in cui era stato riferito dal teste che l’ente locale, in relazione alla maggiore imposta accertata o liquidata negli avvisi notificati, aveva incassato la somma di Lire 5.867.700 (pari ad Euro 3.030,41). La stessa Corte distrettuale aveva, invece, ritenuto la pretesa priva di prova in relazione alla “riscossione di un importo maggiore, precisamente di quello di cui alla fattura allegata al ricorso per decreto ingiuntivo, attesa la opposizione proposta dal Comune avverso il provvedimento monitorio, emesso sulla base del documento fiscale, che come noto non ha valenza probatoria nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo” (sentenza appello in motivazione pag. 3). Per il resto ha confermato la sentenza del Tribunale, ed in particolare per quanto qui rileva, ha confermato la statuizione che aveva riconosciuto il diritto della società a percepire la “quota fissa” del compenso in relazione al minore numero di 670 pratiche e condannato il Comune al pagamento della somma di Euro 1.843,75 IVA inclusa, oltre interessi, avendo la Corte d’appello rilevato espressamente che “su tale capo non vi è appello” (sentenza appello in motivazione pag. 3).

Orbene dalla lettura dell’atto di appello in data 9.1.2012 proposto dalla società ed il cui contenuto, nella parte essenziale, è stato debitamente trascritto in ricorso (pagine 8 ed 11), risulta che la decisione di prime cure era stata specificamente investita da motivo di gravame anche in relazione alla statuizione che liquidava il corrispettivo “a quota fissa” nella parte in cui “riconosce che la Società Dott. F. P. S.r.l. ha eseguito l’esame di 670 pratiche e non 1341 come in effetti avvenuto come erroneamente ritiene il Tribunale di Patti…”.

Pertanto, riqualificato correttamente il vizio di nullità processuale come omessa rilevazione della proposizione dello specifico motivo di gravame, la sentenza impugnata deve essere cassata nella parte in cui conferma la decisione prime cure anche sul capo concernente la liquidazione del corrispettivo in “quota fissa” ritenendo erroneamente non impugnata tale statuizione, con conseguente rinvio della causa al Giudice di appello affinchè esamini anche il motivo di gravame pretermesso.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso ed assorbito il terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Messina, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019

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