Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1793 del 26/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 26/01/2011, (ud. 16/12/2010, dep. 26/01/2011), n.1793

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13663-2007 proposto da:

N.E., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato PELLEGRINI SERGIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144,

presso lo studio degli avvocati LA PECCERELLA LUIGI e FAVATA EMILIA,

giusta procura speciale atto notar CARLO FEDERICO TUCCARI di Roma del

05/06/07, rep. 73643;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 482/2006 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata

il 10/05/2006 R.G.N. 45460/98;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/12/2010 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

Udito l’Avvocato EMILIA FAVATA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE UMBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso proposto al Pretore di Napoli, in funzione di Giudice del Lavoro, in data 11 giugno 1996, N.E. – esponendo di essere tecnico frigoriferista, addetto alla manutenzione ed al controllo degli impianti di condizionamento e celle frigorifere, ubicati in zone esposte alle radiazioni ionizzanti, oltre a contenere i medesimi tali sostanze, che aveva svolto la propria attività all’interno dell’Istituto internazionale di genetica e biofisica del C.N.R. – chiedeva, nei confronti dell’INAIL, il riconoscimento del diritto alla rendita per malattia professionale, denunziata il 10 giugno 1994, nella misura del 100 per cento, da determinare mediante consulenza tecnica, con conseguente condanna dell’INAIL stesso al pagamento della suddetta rendita e degli interessi legali.

Asseriva il ricorrente che a suo danno era insorta la malattia dell’adenocarciroma gastrico.

2. Il Pretore con sentenza n. 11457 del 26 maggio 1998 accoglieva la domanda e condannava l’INAIL al pagamento in favore di esso ricorrente di una rendita per malattia professionale nella misura del 70 per cento, oltre la condanna del convenuto alla rifusione delle spese di giudizio.

Il Pretore condivideva le argomentazioni del CTU, che, in particolare, poneva in rilievo che il ricorrente era stato esposto per un numero elevato di anni a diversi agenti ionizzanti capaci di contaminazione interna e che il tempo tra l’inizio dell’esposizione (1975) e la manifestazione della malattia cancerosa (1983) appariva compatibile con la manifestazione della patologia neoplastica evidenziata.

3. Avverso la suddetta sentenza l’INAIL interponeva appello al Tribunale di Napoli deducendo l’erroneità della valutazione medico legale del CTU. 4. Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 482 del 10 maggio 2006, in accoglimento dell’appello, riformava la sentenza di primo grado e rigettava la domanda del N.. Compensava le spese di giudizio e poneva a carico dell’INAIL le spese per le perizie espletate.

5. Ricorre N.E. per la cassazione della sentenza del Tribunale di Napoli prospettando tre motivi di ricorso.

6. Resiste l’INAIL con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata violazione o falsa applicazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 3, degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 2697 c.c., del D.P.R. 9 giugno 1975, n. 482 e della relativa tabella (voce 40), del D.P.R. 13 aprile 1994, n. 336 e della relativa tabella (voce 51), nonchè dei principi di cui alla sentenza della Corte costituzionale 18 febbraio 1988 n. 179. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

1.1. In ordine al suddetto motivo veniva formulato il seguente quesito di diritto: se, in presenza di una lavorazione riconducibile ad una espressa previsione tabellare l’assicurato può giovarsi della presunzione eziologica professionale, restando a carico dell’INAIL l’onere di dimostrare non solo che la malattia è dipesa elusivamente da cause extralavorative ma che le mansioni esercitate dal lavoratore non hanno avuto idoneità sufficiente, neppure come concausa.

Il ricorrente rileva che la malattia denunciata (adenocarcinoma) costituisce malattia professionale tabellata, così come è, altresì, tabellata la lavorazione alla quale il medesimo era addetto, in quanto comportante l’esposizione a radiazioni ionizzanti.

Da ciò conseguirebbe che, poichè l’eziologia professionale doveva ritenersi esistente per presunzione legale, il Giudice d’appello avrebbe errato nel condividere il parere del CTU, il quale aveva escluso che l’infermità denunciata dalla ricorrente fosse derivata dalla lavorazione a cui la stessa era addetta.

1.2.11 motivo, così sinteticamente esposto, non è fondato.

Oltre all’esistenza della malattia, devono anche essere provate in giudizio l’esposizione a rischio dell’agente patogeno e la contrazione della malattia nell’esercizio ed a causa della lavorazione svolta; mentre le prime due circostanze sono sempre a carico dei richiedente, trattandosi di elementi costitutivi della fattispecie, per la terza l’onere della prova, sia pure con il criterio della “probabilità qualificata” che sia suscettibile di diventare certezza giudiziaria, si atteggia diversamente a secondo che si tratti, o meno, di malattia inclusa nelle apposite tabelle predisposte dal Ministro del lavoro.

Questa Corte ha avuto occasione di ritenere specificamente come l’accertamento che sia la lavorazione sia la malattia, manifestatasi entro il periodo massimo di indennizzabilità, sono comprese tra quelle tabellate comporta l’applicabilità della presunzione di eziologia professionale della patologia sofferta dall’assicurato, con il conseguente onere dell’INAIL di provare una diversa eziologia della infermità stessa ed in particolare della dipendenza dell’infermità, nel caso concreto, da una causa extralavorativa oppure del fatto che la lavorazione, cui il lavoratore è stato addetto, non ha avuto idoneità sufficiente a cagionare la malattia, di modo che, per escludere la tutela assicurativa deve risultare rigorosamente ed inequivocabilmente accertato che vi è stato l’intervento di un diverso fattore patogeno, il quale, da solo o in misura prevalente, ha cagionato o concorso a cagionare la tecnopatia (ex plurimis, Cass. n. 4297 del 1996; Cass. n. 14023 del 2004).

Consente il superamento della presunzione legale un giudizio di certezza di esclusione di eziologia professionale, o di inidoneità della fonte morbigena a determinare la malattia tabellata. Soltanto ove esistesse la prova della sicura eziologia diversa dal rischio professionale, si potrebbe pervenire a negare il nesso di causalità e, così, superare la presunzione posta dalla legge.

In altri termini, in relazione a malattia che si assume derivante da lavorazione inclusa nella tabella, la reiezione della domanda può trovare fondamento soltanto nell’accertamento che trattasi di malattia che neppure astrattamente può derivare dalla lavorazione tabellata, ovvero nell’accertamento che non vi è stata da parte dell’assicurato esposizione al rischio professionale, o una esposizione del tutto irrilevante, (cfr. Cass. n. 8002 del 2006, n. 4297/1996 cit.).

La Corte d’Appello di Napoli ha attuato correttamente le disposizioni di legge invocate dal ricorrente, facendo applicazione dei principi sopra richiamati.

Il Giudice dell’appello ha ritenuto che alla fattispecie in questione andavano applicate le norme di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, ritenendo che spettava al N. l’onere di provare l’esistenza della malattia e l’adibizione ad una delle lavorazioni morbigene.

Il Giudice del gravame ha effettuato un articolato, ragionato e motivato esame delle risultanze delle CTU, anche alla luce delle osservazioni del consulente di parte.

In particolare, ha posto in evidenza come il primo CTU, in esito alla valutazione di una serie di dati tecnici, riteneva che, per le mansioni svolte, l’interessato poteva essere potenzialmente esposto ad eventuali tracce di residui radioattivi dei frigoriferi da riparare, tali da non superare le condizioni massime ammissibili previste dal D.M. 2 febbraio 1971 per l’aria. Lo stesso metteva, altresì, in evidenza come l’insorgenza di adenocarcinoma gastrico era stata una componente ereditaria della famiglia dell’interessato.

La Corte d’Appello, inoltre, rilevava che la seconda consulenza tecnica d’ufficio, nel ritenere con buona approssimazione che non possa accreditarsi il nesso causale materiale tra la lavorazione cui era adibito l’interessato e il successivo sviluppo del carcinoma gastrico, sottolineava come il N. poteva solo potenzialmente essere esposto – non sicuramente esposto – ad eventuali tracce di residui radioattivi nei frigoriferi da riparare, e che tali tracce non superavano le concentrazioni massime ammissibili dal citato D.M. 2 febbraio 1971 per l’aria inalata.

La Corte napoletana, quindi, rilevava, tra l’altro, come emergeva dall’analisi critica della documentazione e dall’esame obiettivo del N. che lo stesso era portatore almeno di due fattori di predisposizione o almeno di rischio di sviluppare un carcinoma gastrico (familiarità dei due genitori, deceduti per cancro esofageo ed intestinale) e gastrite cronica, databile dal 1990); che non vi era alcuna evidenza scientificamente attendibile che infinitesimali dosi di radiazioni ionizzanti – di cui veniva postulata l’esistenza – potessero aver indotto un carcinoma gastrico; che i mezzi di protezione di cui era fornito il N. impedivano di fatto qualsiasi accesso di tali presunte radiazioni per contaminazione interna; che il periodo di sviluppo del carcinoma gastrico, come riferito dal consulente di parte, sarebbe stato di 18 anni e si discostava significativamente dal periodo indicato dall’ENEA consistente in 5-10 anni dalla presunta esposizione, che gli effetti probabilistici (o stocastici) hanno soltanto un rapporto di probabilità con la esposizione (non provata e non dimostrabile).

La Corte d’Appello riteneva, pertanto, facendo corretta applicazione della normativa in questione e con congrua motivazione, che nella fattispecie in esame non vi era prova dell’esistenza di una reale fonte morbigena in quanto non vi era prova che l’ambiente di lavoro avesse effettivamente esposto il N. all’inalazione di residui radioattivi, soprattutto dal 1975 al 1985, mentre tale prova era ragionevolmente esclusa dal 1985 in poi, come evidenziato dal CTU. Il Collegio ha, altresì, su sollecitazione della parte appellata, utilizzato i propri poteri d’ufficio per provare l’esposizione effettiva al rischio, acquisendo l’atto di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della patologia sofferta dal N. proveniente dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, dovendo rilevare, tuttavia, che poichè si trattava di collegale medica, tale atto era privo di rilevanza processuale sostanziale, ai sensi dell’art. 147 disp. att. c.p.c. – in conformità a quanto ritenuto da questa Corte (v. Cass., Sezione Lavoro, sentenza n. 7548 del 2006) – e non forniva alcun elemento di valutazione, ai sensi dell’art. 116 c.p.c. per ritenere sussistente, nel caso di specie, la prova della causa unica dedotta e non provata malattia professionale.

2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata violazione e/o falsa applicazione degli artt. 116, 134, 420, 421 e 437 c.p.c., nonchè del disposto di cui all’art. 111 Cost., comma 1, sul giusto processo regolato dalle leggi. Omessa, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

In relazione al suddetto motivo è stato formulato il seguente quesito: se la prova della causa di lavoro che grava sul lavoratore, in relazione all’entità ed all’esposizione dello stesso a fattori di rischio, va valutata anche con mezzi istruttori ritualmente dedotti e che gli stessi una volta non ammessi, senza che il Giudice espliciti le ragioni di tale omissione, determinano una violazione del giusto processo regolato dalle leggi, non di meno se la documentazione esibita proveniente da Enti pubblici, che si reputi assistita da un presunzione iuris tantum di corrispondenza al vero dei fatti in essa attestati sia idonea a vincolare l’apprezzamento giudiziale al riguardo, formando essa stessa “prova costituita” e comunque, ad offrire ulteriori significativi elementi di indagine da acquisire mediante le prove testimoniali.

2.1. Il motivo non è fondato.

Occorre rilevare che il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, questa Corte deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Cass., ord. n. 17915 del 2010, Cass., sentenza n. 3004 del 2004). In ogni caso, il mancato esame di un’istanza istruttoria può dar luogo al vizio di omessa o insufficiente motivazione solo se le risultanze processuali non o mal valutate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre sulle quali il convincimento si è formato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base (citata sentenza n. 3004 del 2004). Nella specie il ricorrente non specifica le prove che non sarebbero state ammesse, nè offre indicazioni sui testi, salvo affermare che dalle stesse e non dalla CTU potevano alcune emergere circostanze a suo avviso rilevanti;

contrasta le risultanze della CTU. Il motivo di ricorso, come articolato, pertanto, si risolve essenzialmente, pur se titolato come violazione di legge e come vizio di motivazione, nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa, inammissibile in sede di legittimità, nonchè nella pretesa di contrastare il risultato dell’attività svolta dalla corte di appello in ordine alla valutazione ed all’apprezzamento dei fatti e delle risultanze probatorie.

Ciò, ancor più, ove si consideri che la Corte d’Appello, in esito alle argomentazioni già sopra riportate, ha affermato che da alcun altro atto del processo si evince la esposizione al rischio e di conseguenza il giudice di appello non può esercitare i suoi poteri di ufficio in assenza di allegazioni delle parti e/o di fatti ammissibili e rilevanti nella direzione della richiesta prova dell’esposizione ad una fonte morbigena.

3. Con il terzo motivo di impugnazione è denunciata violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 74 in rapporto agli artt. 116, 191, 194 e 201 c.p.c.. Omessa, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

In relazione a detto motivo di ricorso è stato proposto il seguente quesito: se i rilievi contenuti in una consulenza di parte, portando a conclusioni diametralmente opposte a quelle contenute nella consulenza tecnica d’ufficio, impongono al Giudice di esprimere le ragioni del proprio convincimento in termini tali da consentire il controllo del processo logico adottato per pervenire ad esso e se il recepimento acritico delle conclusioni del consulente tecnico, essendo il risultato di una omessa od errata valutazione delle critiche rivolte a dette conclusioni, determinano vizio di insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio.

3.1. Il motivo non è fondato, per le ragioni già esposte con riguardo all’esame del secondo motivo, a prescindere dal rilievo che il ricorrente non contestualizza il richiamo del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 74, relativo alla definizione della inabilità permanente assoluta e parziale e alla relativa rendita, e che la Corte d’Appello, come si rileva dalla motivazione della sentenza, ha osservato il principio del rispetto del contraddittorio nell’esame delle risultanze delle consulenze tecniche e non ha aderito acriticamente alle stesse.

4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

5. Nulla per le spese trovando applicazione, ratione temporis, l’art. 152 disp. att. c.p.c. nel testo precedente all’entrata in vigore del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, nella L. 24 novembre 2003, n. 326.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2011

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