Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17913 del 12/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 12/09/2016, (ud. 06/04/2016, dep. 12/09/2016), n.17913

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23890/2013 proposto da:

COOPERATIVA SOCIALE QUADRIFOGLIO S.C. ONLUS (già COOPERATIVA SOCIALE

QUADRIFOGLIO A R.L.) P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LIVORNO 51, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PERFETTI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMILIANO GENCO,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.M.C. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA DI PIETRA 26, presso lo studio dell’avvocato DANIELA

JOUVENAL LONG, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

ROBERTO ZIBETTI, NICO PARISE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 657/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 06/08/2013 r.g.n. 826/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

G6/04/2616 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato PERFETTI PAOLO;

udito l’Avvocato ZIBETTI ROBERTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al giudice del lavoro, G.M.C., socia lavoratrice della Cooperativa Sociale QUADRIFOGLIO a r.l., poi divenuta Cooperativa Soc. Quadrifoglio s.c. onlus, chiedendo di accertare la ineffettività del rapporto associativo con la convenuta, impugnava il licenziamento (disciplinare) intimatole il due ottobre 2007, con ogni conseguente pretesa risarcitoria. Instauratosi il contraddittorio con la costituzione di parte convenuta, che resisteva alle domande avversarie, eccependo tra l’altro la decadenza di controparte per mancata impugnazione della esclusione dell’attrice da socia della stessa cooperativa, il tribunale con sentenza del 29 marzo 2012 rigettava tutte le domande poste dalla G.. Contro tale pronuncia proponeva appello l’attrice, per cui la Corte distrettuale di Torino con sentenza n. 757 del 21 maggio – otto agosto 2013, in accoglimento del quarto motivo dell’interposto gravame, restando assorbiti i primi tre, dichiarava l’illegittimità del provvedimento di contestuale esclusione da socia della ricorrente e di licenziamento intimato con lettera del due ottobre 2007, di conseguenza condannando l’appellata società cooperativa a reintegrare G.M.C. nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno (L. n. 300 del 1970, ex art. 18), peraltro senza quantificazione alcuna, nonchè al rimborso delle spese per entrambi i gradi del giudizio. Secondo il collegio piemontese, il rapporto di lavoro non si identifica totalmente con quello associativo. Inoltre, dalla esclusione del socio della cooperativa non deriva l’automatica estinzione del rapporto di lavoro, di modo che il lavoratore può impugnare anche soltanto il recesso da tale rapporto ed agire per far accertare l’illegittimità del licenziamento davanti al giudice del lavoro, quando il licenziamento non trae origine unicamente dall’esclusione da socio. Orbene, nel caso di specie, ad avviso della Corte torinese, visto che con lettera del due ottobre 2007 (avente ad oggetto provvedimento disciplinare, doc. 36) era stata comunicata alla G. la sua esclusione da socia in relazione alla contestazione di cui alla nota del 19.9.2007 (contestualmente ivi precisandosi che dalla ricezione dovevano considerarsi conclusi tanto il rapporto societario che quello di lavoro); che con raccomandata dell’undici ottobre 2007 la medesima lavoratrice aveva impugnato il licenziamento intimatole con la missiva del due ottobre precedente, chiedendo altresì il tentativo obbligatorio di conciliazione (doc. 37); altresì premesso che l’impugnazione non poteva non ritenersi estesa anche all’esclusione da socio (considerato che detta esclusione ed licenziamento erano stati comunicati col medesimo atto, unico dunque impugnabile, e che erano sorretti dalla stessa motivazione), era evidente, per il contenuto della comunicazione datoriale in data due ottobre 2007, che la cessazione del rapporto di lavoro veniva ricollegata, oltre che all’esclusione da socio, anche a ragioni di carattere disciplinare.

Nella specie, il licenziamento era stato intimato in quanto la lavoratrice era entrata al lavoro con nove minuti di ritardo il primo settembre 2007, circostanza che indubbiamente non integrava nè giusta causa, nè giustificato motivo di recesso, avuto riguardo pure a quanto previsto in via esemplificativa dall’art. 42 del c.c.n.l. laddove peraltro non risultava alcuna previa contestazione di recidiva, sicchè a nulla rilevava l’accenno alla ripetitività dei fatti contestati, contenuto peraltro nella sola lettera di licenziamento riferita alla precedente contestazione disciplinare, che a sua volta ineriva al solo addebito di cui alla condotta osservata il primo settembre 2007. Dunque, visto che l’esclusione dalla compagine sociale era stata comunicata con la stessa missiva di licenziamento e che risultava fondata sul medesimo addebito concernente il recesso disciplinare, perciò in effetti unicamente sul licenziamento, però illegittimo, gli effetti di tale invalidità non potevano non investire la deliberata esclusione da socio, con conseguente applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 (all’uopo citandosi anche il precedente di questa Corte n. 14143/12).

Per la cassazione della pronuncia di secondo grado ricorre la Cooperativa Sociale Quadrifoglio (corrente in (OMISSIS)) con tre motivi, evidenziando in sintesi la mancata impugnazione della esclusione da socia, con conseguente giudicato ed impossibilità quindi di ritenere la domanda di parte attrice, inerente all’impugnazione del connesso licenziamento, pure nei confronti della esclusione dalla compagine sociale, donde altresì l’impossibilità della reintegra ex art. 18 dello Stat. lav., poichè in contrasto con quanto sul punto previsto dalla L. n. 142 del 2001, art. 2, comma 1.

Ha resistito all’impugnazione avversaria G.M.C. con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione di legge con riferimento alla L. n. 142 del 2001, art. 1, artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., art. 112 c.p.c., nonchè art. 19 dello Statuto, visto che il contenuto della missiva inviata in data due ottobre 2007, ineriva non all’intimazione di un licenziamento, bensì ad un provvedimento di esclusione della G. dalla cooperativa, con conseguente effetto della conclusione di ogni rapporto, societario e lavorativo.

Inoltre, la sentenza impugnata, oltrepassava, in violazione dell’art. 112 c.p.c., il limite della domanda proposta dalla G., laddove presupponeva che il licenziamento non avrebbe tratto unica origine dall’esclusione da socio, ma sarebbe ricollegato anche a ragioni di carattere disciplinare. Infatti, la tesi sostenuta dall’attrice nei primi due gradi di giudizio, per la quale la Delib. di esclusione configurerebbe un licenziamento, non autorizzava a qualificare come licenziamento un atto ontologicamente diverso, come la Delib. di esclusione dalla cooperativa ai sensi dell’art. 19 titolo 7^ dello Statuto della cooperativa stesa 5 (doc. 4 fascicolo Quadrifoglio di 1^ grado) facendo seguito alla contestazione mossa con la nota n. 1238 in data 19-09-2007, nonchè alle reiterate condotte assunte dalla socia lavoratrice ritenute incompatibili con la prosecuzione del rapporto.

D’altro canto, secondo la ricorrente, pur operando nella specie la modifica introdotta dalla L. n. 30 del 2003, art. 9, comma 1, lett. a), consistita nella soppressione delle parole “e distinto”, contenute nella L. n. 142 del 2001, art. 1, comma 3, erroneamente era stata ritenuta la possibilità di agire davanti al giudice del lavoro per far accertare l’illegittimità del licenziamento, pur in assenza d’impugnazione della Delib. di esclusione da socio. Per contro, correttamente il giudice di primo grado aveva negato che l’esclusione del socio potesse essere letta e giustificata in termini di giusta causa o di giustificato motivo di licenziamento, poichè in tal caso si sarebbe vanificato il meccanismo estintivo previsto dalla legge, nel senso dell’automaticità e della non necessità di un recesso dal rapporto di lavoro.

Come secondo motivo, poi, la ricorrente ha dedotto violazione e/o falsa applicazione della L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, come modificato dalla L. n. 30 del 2003), anche con riferimento all’art. 2533 c.c., che aveva modificato l’originario art. 2527 c.c., nonchè della cit. L. n. 142, art. 2, comma 1, ed ancora dell’art. 112 c.p.c., con riferimento all’art. 2909 c.c., nonchè artt. 324 e 329 c.p.c..

Infatti, la Corte d’Appello, da un lato aveva riconosciuto che il rapporto di lavoro subordinato instaurato dal socio non si identificava con il rapporto associativo, avendo poi preso atto che nessuna opposizione avverso la Delib. di esclusione era stata proposta dall’attrice entro il termine perentorio stabilito dall’art. 2533 c.c., d’altro canto aveva ritenuto legittima l’azione promossa dalla lavoratrice davanti al giudice del lavoro di Novara, sul falso ed erroneo convincimento che nella specie il licenziamento non avrebbe trovato origine esclusiva nell’esclusione dalla compagine sociale deliberata dalla cooperativa. Per contro, la missiva del due ottobre 2007 integrava un atto di esclusione di socio lavoratore implicante l’estinzione del rapporto di lavoro, esclusione avverso cui non sono esperibili i rimedi propri dell’impugnazione del licenziamento, come quelli attivati dalla G., ma soltanto quelli previsti in tema di esclusione dalla società ai sensi dell’art. 2533 c.c., ciò che non era avvenuto e per cui la resistente già in prime cure aveva sollevato tempestiva eccezione di decadenza, quindi accolta con la sentenza del tribunale di Novara del 29 marzo 2012.

Sul punto, peraltro, doveva ritenersi formato il giudicato interno, poichè l’appellante non aveva contestato, nemmeno in via subordinata, la decadenza ritenuta dal giudice di primo grado, sicchè la Corte di Appello non avrebbe neanche potuto pronunciarsi.

Infatti, a fronte della qualificazione dell’atto impugnato in termini di licenziamento e di contestuale esclusione, i giudici di appello, constatata la mancata impugnazione di quest’ultima nei termini di cui all’art. 2533 c.c., avrebbero dovuto fermarsi a valutare la legittimità del licenziamento senza svolgere alcuna considerazione in merito e provvedimento di esclusione.

Come terzo motivo, la società ha dedotto violazione e/o falsa applicazione della L. n. 142 del 2001, art. 2, comma 1 e della L. n. 300 del 1970, art. 18, nel senso che l’art. 2 esclude la possibilità della tutela reale ex art. 18, allorchè cessino contestualmente il rapporto associativo e quello di lavoro (testo in vigore dal 13/03/2003, art. 2 Diritti individuali e collettivi del socio lavoratore di cooperativa: 1. Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la L. 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell’art. 18, ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo.

Di conseguenza, a fronte della pacifica contestuale cessazione di entrambi i rapporti, la Corte d’Appello, ritenuta l’illegittimità del licenziamento e conformata l’assenza e comunque la tardività di ogni contestazione al provvedimento espulsivo, avrebbe dovuto riconoscere la tutela c.d. obbligatoria di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, peraltro invocata in via gradata dalla stessa appellante.

Inoltre, ad avviso della ricorrente, il richiamo fatto alla pronuncia n. 14143/12 di questa Corte era improprio e fuorviante, atteso che il citato precedente si fondava sul presupposto dell’intervenuta impugnazione del provvedimento espulsivo e della sua tempestività, invece assente nel caso di specie. Gli anzidetti motivi, che per la loro evidente connessione possono esaminarsi congiuntamente, vanno disattesi in virtù delle seguenti considerazioni.

Come appare evidente dalla loro formulazione (violazione e/o falsa applicazione…), la ricorrente ha indubbiamente ritenuto di formulare le sue doglianze ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione: OMISSIS 3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;…).

Per contro, le censure svolte dalla ricorrente, circa l’asserita violazione dell’art. 112 (Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato – giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte – soltanto dalle parti), relativamente ai primi due motivi (laddove poi con il secondo si assume pure la conseguente formazione di un giudicato interno per effetto della pretesa mancata impugnazione, neanche in via gradata, della decadenza ritenuta dal primo giudicante circa l’omessa impugnazione della Delib. di esclusione nei termini di cui all’art. 2533 c.c.), sono ammissibili unicamente per quanto al riguardo consentito dall’art. 360, comma 1, n. 4, in tema di error in procedendo (nullità della sentenza o del procedimento).

Ed invero, la pronuncia d’ufficio da parte del giudice del merito su una domanda o un’eccezione, che può essere fatta valere esclusivamente dalla parte interessata, integra violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4). Conseguentemente, è inammissibile il motivo di ricorso con il quale siffatta censura sia proposta sotto il profilo della violazione di norme di diritto, riconducibile al n. 3 del citato art. 360, ovvero come vizio della motivazione, incasellabile nel n. 5) dello stesso art. 360 (così Cass. 3^ civ. n. 1196 del 19/01/2007. In senso conforme, tra le altre, v. anche Cass. 1^ civ. n. 1755 del 27/01/2006: l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come, in genere, l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3, o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” – ovverosia della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello. La mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro “ex actis” dell’assunta omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo. Conforme Cass. n. 12475 del 2004.

V. altresì Cass. lav. n. 22759 del 27/10/2014: l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonchè, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Cfr. ancora Cass. Sez. 6 – L’ordinanza n. 2150 del 05/02/2015: è inammissibile il ricorso per cassazione proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avverso una decisione di appello, emessa in relazione ad una pregressa cassazione con rinvio che abbia rimesso al giudice del merito la (valutazione dei profili risarcitori, qualora il giudice del rinvio abbia ritenuto la formazione del giudicato preclusiva ad una decisione sulle conseguenze risarcitorie, senza che, in relazione a tale profilo, sia stato dedotto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, un vizio di omissione di pronuncia in relazione all’art. 112 c.p.c..

Cass. 1^ n. 11844 del 19/05/2006: l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” e della violazione dell’art. 112 c.p.c.. Conformi Cass. 5^ n. 1170 del 23/01/2004, nonchè Cass. n. 12366 del 1999, n. 8632 e n. 11260 del 2000)). Dunque, il primo ed il secondo motivo sono inammissibili laddove denunciano, però irritualmente, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, gli asseriti vizi di ultrapetizione da parte dei giudici di appello, sicchè, caduto per le accennate emergenze processuali il presupposto di cui alla pretesa violazione dei principi fissati dall’art. 112, vengono così meno anche tutte le connesse argomentazioni critiche avverso le ragioni, in virtù delle quali la Corte territoriale aveva ritenuto. Invece, che la deliberata esclusione dipendeva direttamente dalla contestata violazione disciplinare, questa peraltro limitata alla condotta del primo settembre 2007, sicchè formava un tutt’uno con l’intimato contestuale recesso, di guisa che poi l’impugnazione di quest’ultimo non poteva non estendersi anche all’anzidetta esclusione.

In tale contesto, quindi, le altre censure mosse dalla Cooperativa non meritano pregio, risolvendosi di fatto le stesse in critiche avverso valutazioni ed accertamenti di fatto, peraltro ampiamente motivati dal giudice di merito, ma comunque non ammesse in sede di legittimità, neanche ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella specie in astratto applicabile però in base al testo vigente alla data del 21 maggio – sei agosto 2013, secondo il vizio contemplato da detta norma, peraltro nello specifico neppure ipotizzato, almeno espressamente, dalla stessa parte ricorrente).

Pertanto, sgombrato il campo, oggetto dell’impugnazione de qua, dalle rilevate non consentite censure, non appare errata la decisione di merito qui impugnata, laddove richiamava il precedente di questa Corte n. 14143 del 26/04/2012 – 06/08/2012, riferito al caso di cui alla sentenza d’appello in data 1 dicembre 2009 – 5 gennaio 2010, che aveva dichiarato illegittima la Delib. di esclusione dell’attore dalla posizione di socio e conseguentemente condannato la convenuta cooperativa alla reintegra del socio lavoratore nel posto di lavoro oltre al risarcimento L. n. 300 del 1970, ex art. 18, di poi confermata in sede di legittimità (… 3. Va esaminato innanzitutto il secondo motivo in quanto logicamente preliminare, non senza rilevare che la società cooperativa ricorrente non contesta l’accertata illegittimità del licenziamento; sicchè su tale capo della sentenza si è formato il giudicato interno. Tale (secondo) motivo è infondato.

L’art. 2533 c.c., prevede che la Delib. di esclusione del socio possa essere impugnata nel termine di 60 giorni dalla comunicazione della Delib. stessa.

E’ vero che la disposizione citata, come già l’art. 2527 c.c., nel regime precedente la riforma del diritto societario, non prevede formalità particolari per la comunicazione. Però richiede che la Delib. sia “comunicata” perchè decorra il termine per impugnarla. Pertanto, non è sufficiente la mera conoscenza che di fatto il socio abbia della Delib. stessa prima della sua comunicazione; sicchè -correttamente la corte d’appello ha fatto decorrere il termine suddetto per l’impugnativa dalla comunicazione della Delib. e non già da un momento precedente, quale quello della produzione in giudizio da parte del socio della Delib. stessa. Per la irrilevanza della conoscenza aliunde cfr. in proposito Cass., sez. 1, 9 maggio 2008, n. 11558, che ha affermato che la eventuale incompletezza della comunicazione al socio della Delib. di esclusione adottata ai sensi dell’art. 2533 c.c., in ordine alle ragioni ritenute giustificative dell’esclusione dall’organo deliberante incide sulla decorrenza del termine per l’opposizione, non assumendo invece alcun rilievo, a tal fine, la conoscenza da parte del socio degli addebiti contestatigli nel corso del procedimento.

4. Il primo motivo è poi infondato come conseguenza dell’infondatezza del secondo motivo.

La Delib. di esclusione del socio si fonda esclusivamente sull’intervenuto licenziamento e quindi, una volta ritenuto quest’ultimo illegittimo, consegue che parimenti illegittima è la Delib. di esclusione del socio. Pertanto L. n. 142 del 2001, ex art. 2 cit. trova applicazione l’art. 18 SL t. Infatti, tale disposizione (l’art. 2) prevede che ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica lo statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300), compreso l’art. 18 sulla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, salvo che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo. Nella specie non si ha che il rapporto di lavoro si è risolto in ragione della cessazione del rapporto associativo; ma al contrario quest’ultimo è cessato a causa dell’intimato licenziamento del socio lavoratore. Pertanto non ricorre la fattispecie eccettuata dell’art. 2 e quindi trova applicazione la disciplina ordinaria sulla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato….).

Ed invero, anche nella specie, come si è visto, in difetto di pertinenti censure, consentite nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c. (per cui secondo Cass. sez. un. civ. n. 7931 del 29/03/2013 ed altre consimili, il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti), la Corte di merito ha ormai accertato che la G., nell’impugnare il licenziamento, aveva contestualmente opposto anche la connessa ed unitaria sua esclusione dalla Cooperativa, sicchè l’illegittimità del recesso disciplinare – sul quale pure qui si è formato il giudicato interno per difetto di ogni e qualsiasi impugnazione sul punto da parte datoriale interessata – si rifletteva inevitabilmente sulla contestuale deliberata esclusione dalla cooperativa. Da ciò derivava, altresì, il ripristino, almeno de jure, del rapporto associativo, perciò ex tunc mai venuto meno, per cui anche nella fattispecie In esame non poteva, nè può, op la deroga di cui all’ultima parte della L. n. 142 del 2001, art. 2, primo periodo, laddove è esclusa l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ovviamente in base al testo allora vigente, soltanto ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo. Tale condizione, per contro, non può considerarsi non avverata nella specie, in base a quanto sopra evidenziato per la ritenuta riflessa invalidità dell’esclusione da illegittimità del licenziamento, sul quale in effetti l’esclusione stessa si fondava.

Ne deriva, pertanto, l’infondatezza altresì del terzo motivo di ricorso, le cui argomentazioni non colgono evidentemente il segno complessivo dell’anzidetta articolata ratio decidendi dell’impugnata statuizione, nei sensi in precedenza illustrati, così che, non risultando peraltro nemmeno alcuna “allegazione, da parte datoriale (pure tenutavi, cfr. per tutte Cass. sez. un. civ. n. 141 del 10/01/2006 ed altre successive conformi) di segno contrario, circa l’eventuale insussistenza del requisito dimensionale, del tutto legittimamente è stata ritenuta applicabile la c.d. tutela reale di cui al più volte citato art. 18 (in base al testo ratione temporis nella specie operante).

Nonostante la soccombenza di parte ricorrente, la cui impugnazione va respinta alla stregua delle precedenti argomentazioni, caratterizzate soprattutto dalle riferite considerazioni di ordine strettamente processuale, il collegio ad ogni modo ravvisa valide ragioni per compensare le relative spese, avuto altresì riguardo alle alterne vicende del giudizio di merito; ciò che d’altro canto non esime la Cooperativa dal versamento dell’ulteriore contributo unificato come per legge.

PQM

La Corte RIGETTA il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 6 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2016

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