Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17912 del 20/07/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 20/07/2017, (ud. 28/03/2017, dep.20/07/2017),  n. 17912

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3020-2012 proposto da:

S.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA GIAN MATTEO GIBERTI N. 6, presso lo studio dell’avvocato

LORENZO TERATONE, rappresentato e difeso dagli avvocati ARTURO

BARBATO, DARIO ABBATE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CASA DI CURA SANTA LUCIA S.R.L. c.f. (OMISSIS);

– intimata –

Nonchè da:

CASA DI CURA SANTA LUCIA S.R.L. c.f. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

CIRCONVALLAZIONE CLODIA 86, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO

MARTIRE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

UMBERTO ICOLARI, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

S.G. C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 5476/2011 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 10/10/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/03/2017 dal Consigliere Dott. SPENA FRANCESCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO che ha concluso per il rigetto del ricorso principale,

inammissibilità in subordine rigetto del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato DARIO ABBATE;

udito l’Avvocato ROBERTO MARTIRE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso al Tribunale di Napoli il Dott. S.G., premesso di avere lavorato, nel periodo dall’1 gennaio 1998 al 30 ottobre 2003 presso la Casa di Cura Santa Lucia srl (in prosieguo: Casa di Cura) nel reparto di terapia intensiva cardiologica, in qualità di aiuto medico, formalmente in regime di collaborazione libero professionale, agiva nei confronti della predetta società per l’accertamento della effettiva natura subordinata del rapporto di lavoro e per la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive (complessivi Euro 176.526,76) maturate in rapporto alla qualifica di aiuto di cui al CCNL CASE DI CURA – PERSONALE MEDICO, applicabile in via diretta ovvero ex art. 36 c..

Il giudice del lavoro accoglieva integralmente la domanda (sentenza nr. 1640/2008).

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 20.9-10.10.2011 (nr. 5476/2011, accogliendo l’appello della casa di Cura ed in riforma della sentenza gravata, respingeva il ricorso originario.

La Corte territoriale osservava che i turni di lavoro erano articolati in tre fasce giornaliere di otto ore secondo una prassi stabilita dai medici; venivano definiti, anche nel periodo estivo, dai medici mentre i direttori responsabili si limitavano a prenderne atto; i sanitari concordavano tra loro le sostituzioni in caso di impedimento, senza dovere giustificare la assenza; non vi erano registri di presenza nè cartellini marcatempo.

Il mero dato dell’inserimento del lavoratore nella struttura aziendale non era decisivo, ben potendo rispondere allo schema della collaborazione coordinata e continuativa nè poteva essere trascurata la qualificazione del rapporto offerta dalle parti del contratto di lavoro e dallo stesso ricorrente nelle comunicazioni inviate alla ASL. La fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa veniva richiamata anche nelle ricevute di pagamento che, diversamente da quanto asserito dal giudice di primo grado, quietanzavano il saldo di importi variabili in base al numero delle guardie effettuate.

Conclusivamente doveva ritenersi non raggiunta la prova della subordinazione.

Ha proposto ricorso per la Cassazione della sentenza S.G., articolato in quattro motivi.

Ha resistito con controricorso la CASA DI CURA S. LUCIA srl, che ha altresì proposto ricorso incidentale, articolato in un unico motivo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, – violazione e falsa applicazione di norme di diritto.

Ha esposto che il giudice dell’appello aveva falsamente applicato i principi di diritto indicati da questa Corte in punto di qualificazione del rapporto di lavoro; ha assunto che in relazione alla specificità dell’attività lavorativa – (attività medica all’interno dei reparto di terapia intensiva cardiologica di una clinica) – l’indice qualificante della subordinazione era costituito dalla obbligazione di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e con assoggettamento al suo potere disciplinare.

In punto di fatto la sua presenza esclusiva nel turno di servizio era funzionale alla stessa operatività del reparto, con la conseguenza che la eventuale assenza avrebbe determinato la interruzione del servizio ai pazienti ricoverati.

La sussistenza dell’elemento della subordinazione doveva essere apprezzata tenendo conto della intensità della etero – organizzazione della prestazione onde stabilire se essa eccedesse le esigenze del coordinamento per dipendere direttamente dall’interesse dell’impresa.

Dalle testimonianze assunte nel primo grado (testi F., A., G., GA.), trascurate dal giudice del merito, risultava il rispetto di un orario di lavoro articolato su turni settimanali, la continuità della prestazione e l’inserimento nella organizzazione aziendale, la esecuzione di ordini e direttive dei primari succeditisi nel tempo, l’obbligo di comunicare tempestivamente al direttore amministrativo della casa di cura le assenze e le relative motivazioni, il carattere fisso e continuativo della retribuzione.

La sentenza si fondava dichiaratamente su una asserita sostanziale omogeneità dei contenuti delle deposizioni testimoniali, che non era riscontrabile negli atti.

2. Con il secondo motivo il ricorrente ha denunziato violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c..

La censura investe in primo luogo l’accertamento in fatto dell’autogestione dei turni da parte dei medici, che la parte ricorrente ha assunto essere smentita dalla deposizione del teste F..

Il ricorrente ha comunque dedotto che tale indice, pur ad ammetterne la effettiva sussistenza, non sarebbe stato comunque decisivo ai fini della qualificazione di attività lavorative, quali quelle mediche, connotate da alto contenuto professionale ed autonomia tecnico scientifica.

3. Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, – omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Ha denunziato l’omesso esame delle disposizioni amministrative emanate dai responsabili della clinica (disposizioni del 23.2.1998 e del 29.4.1998)- riprodotte nell’odierno ricorso- che non erano state contestate nè disconosciute dalla controparte nonchè dei turni di servizio, documenti prodotti nel primo grado.

4. Con il quarto motivo il ricorrente ha assunto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, – violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c., comma 2, e art. 2697 c.c..

Con la censura il ricorrente contesta il rilievo assegnato dal giudice dell’appello alle dichiarazioni da lui inviate alla ASL competente, nelle quali si dava atto della intercorrenza di un rapporto libero professionale con la casa di cura.

Il ricorrente ha dedotto che tali dichiarazioni non potevano costituire elemento di prova della esistenza di un rapporto di lavoro parasubordinato, in quanto attestanti, piuttosto, un rapporto libero professionale di natura autonoma (e non parasubordinata).

Nello svolgimento della prestazione il dato formale era stato comunque superato dall’ avvenuto suo inserimento nella organizzazione aziendale, che faceva capo al datore di lavoro nonchè dalla etero – regolamentazione del contenuto e delle modalità della prestazione.

I motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.

Giova premettere che la qualificazione del rapporto di lavoro operata dal giudice del merito è censurabile davanti al giudice di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, – in combinazione con l’art. 2094 c.c., – soltanto in punto di determinazione dei criteri astratti e generali per il giudizio di sussunzione dei fatti accertati nell’invocato tipo contrattuale del lavoro subordinato; costituisce, invece, apprezzamento di fatto, come tale sindacabile da questa Corte nei limiti del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, la valutazione del concreto atteggiarsi del rapporto di causa.

Alla luce di tale preliminare considerazione risulta evidente che i motivi censurano in massima parte la valutazione di specifiche questioni di fatto – in punto di osservanza da parte del ricorrente di turni predisposti, di sua sottoposizione alle direttive dei responsabili preposti dal datore di lavoro, di obbligo di presenza, di modalità di liquidazione dei compensi- che, attenendo al piano della ricostruzione della fattispecie concreta, possono essere esaminate in questa sede nei limiti del vizio della motivazione – ex art. 360 c.p.c., n. 5, – ma non anche sotto il profilo del vizio di “sussunzione” ex art. 360 c.p.c., n. 3, ovvero di non corretta applicazione dell’art. 2094 c.c..

Per costante giurisprudenza di legittimità il citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012 – (applicabile ratione temporis in ragione della data di pubblicazione della sentenza d’appello) – non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (ex plurimis: Cassazione civile, sez. 3, 04/03/2010, n. 5205Cass. 6 marzo 2006, n. 4766. Sempre nella stessa ottica, altresì, Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500; Cass. 19 dicembre 2006, n. 27168; Cass. 8 settembre 2006, n. 19274; Cass. 25 maggio 2006, n. 12445). In coerenza con le suddette affermazioni, dunque, questa Corte non realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse d’ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso sub specie di omesso esame di un fatto decisivo. Per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito fatto decisivo della controversia è invece necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. In particolare, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un fatto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio dì certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base.

Il primo motivo di ricorso si limita a valorizzare alcuni stralci di deposizioni testimoniali già valutate in senso diverso dal giudice del merito (testi A., C., G.), evidentemente in ragione di una lettura complessiva delle dichiarazioni ovvero a contrapporre alle fonti di prova richiamate in sentenza altre fonti di prova, comunque non idonee a revocare in dubbio la ratio decidendi.

Non si sottraggono ad analoghe considerazioni le questioni di fatto sottoposte con il secondo motivo, in punto di organizzazione dei turni di lavoro e con il terzo motivo, in punto di intensità del potere conformativo della prestazione da parte della direzione aziendale. Sotto il primo profilo il ricorrente si limita a riportare lo stralcio di una deposizione testimoniale (teste F.) diversa da quelle utilizzate in sentenza (testi A., R., C.). Le disposizioni aziendali che costituiscono oggetto del terzo motivo, invece, appaiono prive di rilievo decisivo; trattasi di due documenti i cui contenuti non denotano in sè l’esercizio di un potere direttivo o disciplinare potendo essere letti anche quale espressione di un potere di coordinamento dell’attività del ricorrente rispetto a quella degli altri collaboratori della struttura.

Le questioni di diritto poste con il primo e con il quarto motivo sono infondate.

Nella fattispecie di causa la Corte territoriale ha adottato quale criterio di qualificazione del rapporto di lavoro quello della soggezione del prestatore di lavoro alle direttive ed al controllo del datore di lavoro.

In tal modo ha fatto applicazione della costante giurisprudenza di questa Corte, che ha ripetutamente affermato, sulla premessa che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, che l’elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro e conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività di impresa (ex plurimis: tra le numerose decisioni V. Cass. 3 aprile 2000 n. 4036; Cass. 9 gennaio 2001 n. 224; Cass. 29 novembre 2002, n. 16697; Cass. 1 marzo 2001, n. 2970, Cass. 15 giugno 2009 n. 13858 e Cass. 19 aprile 2010 n. 9251; Cassazione civile, sez. lav., 26 settembre 2014, n. 20367).

Vero è che, come assunto dalla parte qui ricorrente, l’esistenza del vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito e che nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia dotata di notevole elevatezza e contenuto intellettuale (ovvero sia all’opposto estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione) il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore di lavoro all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare significativo, legittimando il ricorso a criteri distintivi sussidiari (la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale, la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore).

Tuttavia nella sentenza non si rinvengono affermazioni in contrasto con tale principio.

Dalla ricostruzione del fatto effettuata in sentenza risulta il mero inserimento del medico in turni di lavoro predisposti dagli stessi collaboratori della struttura e, comunque, la revocabilità della disponibilità già data senza alcuna necessità di giustificazione nonchè il pagamento di compensi variabili (pagina 9 della sentenza), commisurati ai turni di lavoro svolti.

Nè coglie nel segno, da ultimo, la censura articolata con il quarto motivo di ricorso. La Corte di merito ha applicato il costante orientamento di questa Corte secondo cui la qualificazione data dalle parti al rapporto di lavoro è uno degli indici rilevanti nel giudizio di sussunzione ove non contraddetta da concrete circostanze di fatto relative alle modalità di svolgimento della prestazione. La distinzione effettuata in ricorso – al fine di contestare la valorizzazione in sentenza delle comunicazioni inviate dallo stesso ricorrente alla ASL – tra lavoro autonomo e lavoro parasubordinato appare priva di fondamento sostanziale giacchè anche il lavoro parasubordinato appartiene al genere del lavoro autonomo.

Il ricorso principale deve essere conclusivamente respinto.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale la Casa di cura ha impugnato la statuizione del giudice dell’appello di compensazione delle spese del doppio grado di giudizio, deducendo violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Il motivo è infondato.

E’ noto che il potere discrezionale del giudice di disporre la compensazione delle spese di lite è stato nel tempo sottoposto a limiti più stringenti: dalla formulazione originaria dell’art. 92 c.p.c., che prevedeva la compensazione in caso di soccombenza reciproca o giusti motivi, si è passati, con la riforma di cui alla L. 28 dicembre 2005, n. 263 (art. 2, comma 1) alla necessità di indicare esplicitamente nella motivazione i giusti motivi di compensazione e con il testo introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69 (art. 45, comma 11) alla possibilità di disporre la compensazione, fuori dal caso di soccombenza reciproca, per “altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”. Da ultimo, con la modifica introdotta con il D.L. 12 settembre 2014, n. 132 (art. 13, comma 1) la possibilità di compensazione è stata limitata alla “soccombenza reciproca” o al “caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza, rispetto alle questioni dirimenti”.

Nella fattispecie di causa è applicabile il testo originario dell’art. 92 c.p.c., giacchè il ricorso di primo grado è dell’anno 2004.

Le Sezioni Unite di questa Corte (Cassazione civile, sez. un., 17/09/2010, n. 19701) nell’interpretare la disciplina transitoria di cui alla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 4, a tenore della quale la disciplina di compensazione delle spese prevista dal precedente comma 1 si applica ai procedimenti instaurati successivamente al 1 marzo 2006, hanno chiarito che il procedimento resta unico anche se si articola in fasi diverse, ognuna soggetta alla propria disciplina. Pertanto la disciplina delle spese resta regolata dalla norma vigente alla data di introduzione del giudizio di primo grado (in termini: Cassazione civile, sez. 6^, 26/04/2017, n. 10213).

Il giudice del merito ha motivato la compensazione delle spese in ragione della complessità di apprezzamento del caso concreto.

Tale motivazione è logicamente fondata sulla ampiezza della attività istruttoria e sulla pluralità degli elementi di prova acquisiti, come emerge dal complessivo impianto della sentenza; la complessità della valutazione della prova configura uno dei giusti motivi previsti dalla norma dell’art. 92 c.p.c., per la compensazione delle spese.

Le spese del presente grado devono essere compensate per l’esito alterno delle fasi di merito e per la reciproca soccombenza.

PQM

 

La Corte rigetta entrambi i ricorsi. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 28 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2017

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