Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17902 del 04/07/2019

Cassazione civile sez. III, 04/07/2019, (ud. 09/01/2019, dep. 04/07/2019), n.17902

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27056/2016 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 86,

presso lo studio dell’avvocato ANDREA MELUCCO, che lo rappresenta e

difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LEONE IX 16,

presso lo studio dell’avvocato C.G., difensore di sè

medesimo;

BANCA POPOLARE DI SPOLETO, in persona del procuratore speciale Dott.

S.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BOSIO

2, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LUCONI, che la rappresenta

e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4407/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/01/2019 dal Consigliere Dott GABRIELE POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione dell’8 marzo 2011, la Banca Popolare di Spoleto conveniva davanti al Tribunale di Roma, C.L. e G. per sentir pronunziare, ai sensi dell’art. 2901 c.c., l’inefficacia, sia dell’atto di donazione del 25 gennaio 2010 intercorso tra C.L., quale donante e C.G., quale donatario, per un immobile sito in (OMISSIS), sia per dell’atto del 25 febbraio 2010 con il quale C.L., con il consenso del coniuge, aveva destinato in fondo patrimoniale un immobile sito in (OMISSIS). L’istituto di credito poneva a sostegno della domanda la copia di un contratto di fideiussione del 17 novembre 2006 e le relative firme a nome C.L., con il quale quest’ultimo avrebbe garantito la posizione della società DELI s.r.l., che si era resa morosa nel rimborso delle rate di un finanziamento concesso dall’istituto di credito istante;

nella contumacia di C.G. si costituiva C.L. disconoscendo la propria sottoscrizione in calce alla fideiussione e, in via riconvenzionale, chiedeva la cancellazione del proprio nominativo dalla Centrale Rischi della Banca d’Italia e il risarcimento del danno subito;

all’esito del deposito dell’originale della fideiussione, decorsi i termini previsti dell’art. 183 c.p.c., comma 6, C.L. disconosceva l’autenticità della sottoscrizione e contestava la data di effettuazione dell’apposizione del bollo postale. Disposta consulenza preordinata alla verificazione dell’autenticità della sottoscrizione ed espletata prova testimoniale sulla medesima questione, il Tribunale, con sentenza del 27 maggio 2015, dichiarava inefficaci nei confronti dell’istituto di credito l’atto di donazione e quello di costituzione di fondo patrimoniale, rigettava la domanda riconvenzionale, condannando i convenuti al pagamento delle spese di lite e di CTU;

impugnava tale decisione C.L., proponendo querela di falso al fine di rendere inutilizzabile la fideiussione comprovante il credito della Banca e contestava, nel merito, la configurabilità dei presupposti dell’azione revocatoria. Si costituiva l’Istituto di credito insistendo per l’inammissibilità della querela di falso e, comunque, per il rigetto dell’appello. Si costituiva, altresì, C.G. aderendo alle conclusioni dell’appellante;

dichiarata inammissibile la querela di falso, la Corte d’Appello di Roma, con sentenza, ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., dell’8 luglio 2016 rigettava l’impugnazione provvedendo sulle spese, con condanna dell’appellante anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3;

avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione C.L., affidandosi a dieci motivi. Deposita controricorso adesivo C.G. e resiste con controricorso la Banca Popolare di Spoleto S.p.A. C.L. e G. depositano memorie ex art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 221 e 335 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, rilevando che la querela di falso proposta con l’atto di appello, erroneamente era stata disattesa con l’ordinanza del 6 maggio 2016. La Corte territoriale nel rilevare che “l’appellante ha contestato genericamente integralmente la verità del contenuto del documento senza specificare che solo alcune parti dello stesso dovevano essere considerate non vere” non avrebbe colto la natura dell’atto, che necessariamente doveva riferirsi all’abusivo riempimento delle parti non previste a stampa, e la contestazione sulla verità del documento avrebbe dovuto essere correttamente intesa come riferita alla complessiva genuinità dello stesso. Sotto altro profilo, non sarebbe comprensibile la censura della Corte d’Appello, secondo cui l’appellante avrebbe dovuto precisare se la contestazione era riferita all’ipotesi di abusivo riempimento di foglio parzialmente in bianco e, soprattutto, se si intendeva censurare l’illegittima iniziativa della banca, absque pactis o contra pacta. Tali rilievi sarebbero inconferenti, perchè si trattava di un atto totalmente estraneo “a qualsivoglia dinamica intercorsa tra le parti” e quindi sostanzialmente si censurava l’utilizzo absque pactis. Questa sarebbe l’unica possibile lettura degli atti difensivi. Sotto altro aspetto, la decisione sarebbe illegittima, nella parte in cui richiama l’ordinanza declaratoria di inammissibilità della querela di falso la quale, al contrario, non avrebbe dovuto essere menzionata esaurendo la propria funzione quale provvedimento autonomo. Infine, l’appellante aveva enunciato tutti gli elementi probatori posti a sostegno della querela di falso incidentale;

il motivo è inammissibile perchè dedotto in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6. Come emerge chiaramente anche dal contenuto delle censure, la Corte territoriale, rilevando che il contratto di fideiussione era formato da un prestampato che presentava alcune parti in bianco, ha ritenuto inammissibile la querela, perchè l’appellante si era limitato a contestare genericamente e integralmente la verità del contenuto del documento, senza specificare che solo alcune parti dello stesso dovevano essere considerate non vere, in quanto le altre erano già predisposte in via unilaterale, mediante un modulo da utilizzare per tutta la clientela dell’istituto di credito. In particolare i rilievi riguardavano due profili centrali e cioè la mancata individuazione dell’ipotesi di abusivo riempimento di foglio firmato parzialmente in bianco e, soprattutto, la deduzione di una illegittima iniziativa della banca, da qualificare come riempimento absque pactis o contra pacta. Rispetto a tale prospettazione il ricorrente avrebbe dovuto trascrivere, allegare o comunque individuare all’interno del fascicolo di legittimità, il contenuto del corrispondente motivo di appello, dal quale evincere con chiarezza che la censura riguardava in maniera specifica l’abusivo riempimento, con prospettazione dell’illiceità della condotta della banca che, in assenza di autorizzazione avrebbe, absque pactis, riempito abusivamente le parti in bianco, specificamente individuate nell’atto di appello. Nulla di tutto ciò emerge dal contenuto del motivo, che si limita a generiche deduzioni secondo cui il senso dell’impugnazione risulterebbe chiaro e sarebbe stato ulteriormente precisato, ma solo in sede di discussione orale, non trascritta, in occasione della discussione ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.. La seconda censura relativa al rinvio operato dalla Corte territoriale al contenuto della ordinanza, con la quale è stata dichiarata inammissibile la querela di falso, appare oscura, ed in ogni caso la parte non ha interesse a sollevarla, poichè la censura riguarda proprio il contenuto dell’ordinanza del 6 maggio 2016;

con il secondo motivo si deduce l’omessa motivazione su un punto decisivo, sotto il profilo della motivazione apparente, perplessa o incomprensibile ovvero per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. In particolare, la Corte territoriale avrebbe dichiarato l’autenticità della firma sulla base di alcuni elementi istruttori (la perizia grafologica avrebbe perentoriamente affermato la veridicità della sottoscrizione, non vi sarebbero profili di contraddittorietà nelle deposizioni non potendosi confrontare quelle rese in sede penale, l’operazione economica sarebbe in linea con la prassi di richiedere il rilascio di fideiussioni personali ai soci o agli amministratori, e la differente data apposta sul timbro postale, rispetto a quella di sottoscrizione della fideiussione, si spiegherebbe con la necessità di ottenere la data certa attraverso il meccanismo dell’invio del documento per posta) senza spiegare per quale motivo non avrebbe considerato alcune dichiarazioni rese dai testi escussi e per quale ragione non avrebbe considerato che C. era stato amministratore, ma non anche socio della società garantita e non avrebbe dato conto dell’anomalia rappresentata dalla non contestualità della garanzia prestata;

il motivo è inammissibile, sia perchè dedotto in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, con riferimento al contenuto delle deduzioni che si assumono non esaminate, sia perchè la fattispecie prospettata è chiaramente estranea all’ipotesi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, poichè la motivazione, sulla base delle medesime premesse del ricorrente esiste, è specifica e puntuale e si fonda su una pluralità di argomentazioni. Inoltre, la censura si traduce nella richiesta di valutazione del materiale probatorio ed è contraria al principio giurisprudenziale secondo cui il giudice di merito non è tenuto a confutare ogni singolo profilo tra quelli eventualmente prospettati dalla parte, potendosi limitare a valorizzare i mezzi di prova ritenuti decisivi, così come correttamente ha effettuato la Corte territoriale nell’ambito di un potere che spetta esclusivamente al giudice di merito, e che non è sindacabile in sede di legittimità;

con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, sollecitando la Corte di legittimità ad una verifica in ordine all’effettivo esame dei motivi di appello;

il motivo è inammissibile perchè dedotto in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, prospettando l’eventuale omesso esame dei motivi di appello senza trascriverli, allegarli o individuare all’interno del fascicolo di legittimità la posizione del documento. Oltre a ciò, la doglianza è prospettata in maniera assolutamente generica e ipotetica;

con il quarto motivo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo costituito dalla differente datazione della fideiussione rispetto al contratto di mutuo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, rilevando che il contratto di mutuo recava la data del 17 novembre 2006, mentre sulla busta unita alla fideiussione era stampigliata quella del timbro postale del 3 gennaio 2007. Con il quarto motivo di appello l’odierno ricorrente aveva segnalato che la timbratura postale consentiva di attribuire al documento la data ivi indicata, evidentemente differente rispetto a quella presente in calce alla fideiussione e ciò contrariamente a quanto sostenuto dall’istituto di credito in citazione, secondo cui la fideiussione sarebbe stata rilasciata nella stessa data del contratto di mutuo. Il profilo della contestualità sarebbe stato sempre contrastato da C.;

il motivo è irritualmente dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale omesso esame di un motivo di appello (il quarto), mentre avrebbe dovuto essere formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e art. 112 c.p.c.. Oltre a ciò la censura è infondata perchè la questione, come rilevato dallo stesso ricorrente, è stata espressamente presa in esame dalla Corte territoriale, la quale ha evidenziato che, atteso l’accertamento giudiziale dell’autenticità della firma, la circostanza che il contratto di garanzia fosse stato sottoscritto nella data posta all’interno del documento ovvero in quella, differente, ottenuta attraverso l’invio del plico per posta, costituiva un profilo non rilevante. Per il resto vanno ribadite le considerazioni espresse riguardo alla valutazione dei mezzi di prova operata dal giudice di merito e non sindacabile in questa sede, se adeguatamente motivata;

in considerazione delle deduzioni contenute nella memoria ex art. 380 bis c.p.c. di C.G. va precisato che il profilo dedotto difetta della decisività ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto, sulla base delle stesse argomentazioni poste a sostegno della memoria, che pure riguardano la (inammissibile richiesta di) valutazione dei mezzi di prova, le dichiarazioni rese a sommarie informazioni dal direttore della Banca Popolare di Spoleto attengono esclusivamente alla circostanza della apposizione della firma da parte del garante ( C.) alla presenza del direttore, e non al profilo della contestualità tra la sottoscrizione della fideiussione e la conclusione del contratto di mutuo. Come evidenziato dai giudici di merito tale profilo non è decisivo, in quanto l’efficacia della data certa conseguente all’apposizione del timbro postale, riguarda la posizione dei terzi e non quella delle parti. Tale carattere inficia anche il motivo di ricorso dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e questo anche a prescindere dalla sindacabilità in sede di legittimità della valutazione delle prove atipiche da parte dei giudici di merito;

il quinto motivo si lamenta la nullità della sentenza per violazione di artt. 115,116 e 216 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 riguardo alla consulenza grafologica. Rileva il ricorrente che la consulenza non costituisce un mezzo imprescindibile per la verifica dell’autenticità della sottoscrizione e che la motivazione del giudice sarebbe, in realtà, soltanto apparente riguardo alla esistenza di criticità nella valutazione operata dalla perito;

il motivo è inammissibile per assoluta genericità fondandosi, nella prima parte, su valutazione di carattere generale, e nella seconda, su censure prive di riscontro documentale;

con il sesto motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, riguardo all’erronea valutazione delle prove testimoniali. La Corte d’Appello avrebbe omesso di valutare l’attendibilità, nel merito, dei testi escussi. Le dichiarazioni rese dal direttore dell’agenzia della Banca Popolare di Spoleto non sarebbero in linea con quanto dallo stesso dichiarato in sede di sommarie informazioni e tali incongruenze non sarebbero state adeguatamente valutate dal giudice di appello;

il motivo è inammissibile. Questa Corte ha avuto modo di chiarire (Sez. U, Sentenza n. 16598 del 2016) che per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c., è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016);

con il settimo e ottavo motivo si lamenta la violazione l’art. 116 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 3, per erronea valutazione di elementi presuntivi e del complessivo materiale probatorio. I giudici di primo e secondo grado avrebbero posto a fondamento della decisione elementi presuntivi (necessità per l’istituto di credito di munirsi di garanzia fideiussoria nonostante l’ipoteca rilasciata di per sè insufficiente a coprire il maggior debito, interesse di C. a prestare la fideiussione quale amministratore della società e prassi di effettuare la spedizione per posta, ecc) per posta dell’atto di fideiussione per acquisire la certezza della data) assolutamente generici e insufficienti;

come è noto, è inammissibile la censura relativa alla mancata applicazione della prova per presunzioni, non rispettosa dei parametri di deduzione richiesti (Cass. Sezioni Unite n. 1785 del 2018), non avendo il C. lamentato che il giudice di merito avrebbe erroneamente sussunto sotto i tre caratteri individualizzanti della presunzione (fatto grave, preciso e concordante) circostanze concrete che non sono, invece, rispondenti a quei caratteri. Parte ricorrente non ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito risultava non rispettoso del paradigma della gravità, precisione e concordanza. Al contrario, la critica si risolve nella mancata applicazione di quei parametri e cioè in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti. In definitiva, le censure consistono “nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio, ponendosi su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c.)”, con una richiesta di controllo della motivazione, al di fuori degli angusti limiti enucleati da Cass. Sezioni Unite nn. 8053 e 8054 del 2014. A quanto detto occorre aggiungere, con riferimento all’ottavo motivo, che formalmente si riferisce all’art. 360 c.p.c., n. 3, che la censura, in realtà, consiste nell’omessa adeguata valutazione di una serie di ulteriori elementi desumibili dal materiale probatorio (il valore di un altro appezzamento di un terreno edificabile in (OMISSIS), la mancanza di necessità di prestare una garanzia personale, oltre a quella reale, ecc.). Si tratta di rilievi con i quali si prospetta una ricostruzione alternativa e più appagante per il ricorrente rispetto a quella adottata dai giudici di merito;

con il nono motivo si deduce la violazione degli artt. 2697 e 2901 e 170 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, riguardo ai presupposti dell’azione revocatoria. In particolare la Corte non avrebbe adeguatamente valutato che la costituzione del fondo patrimoniale avrebbe la funzione di costituire un patrimonio separato per esigenze strettamente familiari. Pertanto, il criterio identificativo dei crediti, il cui soddisfacimento potrebbe essere realizzato in via esecutiva su quelli conferiti nel fondo patrimoniale, andrebbe ricercato nella relazione esistente tra gli scopi per i quali i debiti sono stati contratti e i bisogni della famiglia. Quanto alla donazione, si tratterebbe di un negozio simulato rispetto a quello effettivo costituito dall’adempimento da parte di C.L. di una obbligazione restitutoria nei confronti di C.G.. Sulla base di tali premesse non ricorrerebbe un pregiudizio delle ragioni del creditore, anche perchè la garanzia personale risultava incrementata rapportando il valore dell’immobile donato fittiziamente con quello conferito nel fondo patrimoniale;

il motivo è inammissibile perchè non coglie nel segno, in quanto i rilievi riguardano la possibilità di agire in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo, mentre la funzione dell’azione revocatoria è quella di rendere inefficace nei confronti del creditore l’atto oggetto di citazione. Quanto alla donazione, gli effetti del presunto carattere simulato della stessa sono illustrati in maniera assolutamente generica (pagina 49 del ricorso), assumendo l’infondatezza della domanda di revocazione “anche sotto il residuale profilo del pregiudizio delle ragioni del creditore attore”;

con il decimo motivo si lamenta la nullità della sentenza per violazione agli artt. 92 e 96 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, con riferimento alla condanna alle spese contestando la congruità dell’importo, ritenuto esorbitante ed ingiusto rispetto ad una controversia di valore indeterminato e di media complessità. Sotto altro profilo, la Corte non avrebbe considerato le contestazioni dell’appellante, la discrepanza tra le modalità di acquisizione della garanzia nel caso concreto e le prassi bancarie, e la circostanza che la banca si era ben guardata dal produrre il fascicolo dell’istruttoria relativa alla concessione del mutuo, al fine di valutare la linearità della fideiussione;

il motivo è inammissibile perchè assolutamente generico e non si confronta con la motivazione adottata dalla Corte, che ha ritenuto sussistente l’elemento della colpa grave per avere l’appellante proposto un’impugnazione destituita “del benchè minimo fondamento, solo ove si consideri l’insistenza, nel prospettare la falsità della fideiussione a fronte di elementi decisivi e concordanti in ordine alla autenticità di quel documento”, profilo ritenuto rilevante quanto meno in termini di “marcata negligenza”. Rispetto a tale argomentazione il ricorrente eccepisce che il giudice di appello non avrebbe preso in esame altri profili, peraltro genericamente dedotti in violazione l’art. 366 c.p.c., n. 6;

quanto alla determinazione dell’importo occorre operare alcune puntualizzazioni. Diversamente dal testo dell’art. 385, comma 4, abrogato dalla riforma del 2009, che individuava un limite massimo, il legislatore del 2009, con riferimento all’art. 96 c.p.c., comma 3, ha rimesso la determinazione alla discrezionalità del giudice sulla base di un parametro equitativo. Questo ha limitato la concreta possibilità per parte soccombente di operare un controllo sui criteri di determinazione della somma. Il rischio è quello di una compressione del principio di legalità al fine di consentire al giudice di valutare, caso per caso, la congruità della somma rispetto a determinazioni arbitrarie dell’importo. La giurisprudenza di merito ha prospettato delle griglie valutative per la determinazione dell’importo oggetto di condanna;

si è fatto riferimento (criterio richiamato anche dalla Corte territoriale) ai parametri di determinazione del danno riferito alla violazione della ragionevole durata del processo, come determinati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Pertanto, concorrono il parametro relativo alla gravità della colpa della parte soccombente, il valore della causa, la durata del processo e la natura dell’oggetto della controversia. Riguardo al profilo della durata del procedimento i criteri sono quelli stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo al fine di determinare l’indennizzo da irragionevole durata del processo nelle sentenze del 10 novembre 2004 (Zullo – Italia e Pizzati – Italia) e cioè da Euro 1000 a Euro 1500 per anno di durata della procedura;

la Corte territoriale ha determinato, in via equitativa, l’importo tenendo conto di una pluralità di profili: il pregiudizio patrimoniale determinato da una impugnazione palesemente infondata e idonea a determinare una condizione di incertezza dei rapporti giuridici coinvolti nel processo. Sotto il profilo non patrimoniale, ha richiamato il danno provocato dall’irragionevole durata di un processo temerariamente intrapreso, oltre al parametro normativo presente nell’abrogato art. 385 c.p.c., che faceva riferimento al doppio delle spese di lite nei limiti tariffari. Importo questo che, anche sulla base della stessa prospettazione del ricorrente (valore indeterminato, media complessità, tariffa pari ad Euro 10.000) risulterebbe rispettato;

a riguardo osserva questa Corte che la giurisprudenza di merito ha sostenuto “relativamente all’entità del danno sofferto per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., che se l’esistenza e la prova devono essere offerte dall’istante sia per quanto concerne l'”an” sia per il “quantum debeatur”, il pregiudizio derivante da condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte può desumersi da nozioni di comune esperienza, anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2) e della L. n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l'”id quod plerumque accidit”, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali, causano anche danni di natura psicologica che, per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa;

l’impostazione, ove riferita solo a tale parametro, è censurabile perchè la c.d. legge Pinto, riferendosi alla durata non ragionevole del processo, prende in considerazione i ritardi imputabili alla macchina della giustizia, e non al comportamento processuale del soccombente. In secondo luogo, tale criterio non consente di valutare la violazione del principio di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c., guardando soltanto al dato temporale; infine, quei parametri si riferiscono ad una ipotesi risarcitoria, mentre in questo caso la componente prevalente è quella punitiva e sanzionatoria.

l’altro parametro equitativo proposto è quello del valore della controversia, in modo da rapportare la sanzione ad una percentuale del profitto indebito che la parte avrebbe inteso conseguire attraverso il comportamento processuale temerario. In altri casi si è fatto riferimento anche alla qualità delle parti ed, in particolare, alla consistenza economica dei contendenti, e cioè alla rispettiva capacità di sostenere gli oneri della lite. Secondo altre decisioni di merito si tratterebbe di una liquidazione equitativa pura che deve tenere conto esclusivamente del caso concreto, valorizzando soprattutto il profilo dell’elemento soggettivo e, quindi, l’esistenza dell’abuso del processo e la condotta della parte. In tal caso è stato rilevato che la gravità potrebbe essere desunta dall’intensità della malafede o dal grado della colpa della parte soccombente;

rispetto a tali criteri la prassi si è assestata sull’individuazione, come criterio di riferimento, delle tariffe forensi. Conseguentemente la condanna è costituita da una frazione o un multiplo delle spese di lite, così riprendendo l’abrogato testo dell’art. 385 c.p.c., comma 4, che stabiliva, come limite massimo, quello del doppio dei massimi tariffari;

tale criterio è quello applicato in concreto anche dalla giurisprudenza di legittimità purchè lo stesso appaia ragionevole. Pertanto, sia nella determinazione della somma conseguente alla condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., disposta dalla Corte di legittimità, sia nell’ipotesi di valutazione della congruità della decisione di merito, che abbia adottato anche siffatto criterio, questa Corte ha reiteratamente ritenuto ragionevole tale parametro, rilevando che la norma vigente non fissa alcun limite quantitativo, nè massimo, nè minimo, al contrario dell’art. 385 c.p.c., comma 4, che, prima dell’abrogazione ad opera della legge del 2009, stabiliva, per il giudizio di cassazione, il limite massimo del doppio dei massimi tariffari. Pertanto, la determinazione giudiziale deve osservare il criterio equitativo, potendo essere calibrata anche sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l’unico limite della ragionevolezza;

sotto tale profilo, come anticipato, la decisione impugnata non è censurabile avendo la Corte territoriale condannato il soccombente a pagare una somma non irragionevole in termini assoluti e prossima a quanto liquidato con riferimento alle spese processuali del grado;

le argomentazioni contenute nella copiosa memoria ex art. 380 bis c.p.c., del ricorrente non aggiungono profili ulteriori a quelli sopra esaminati;

ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Quanto alla posizione del controricorrente adesivo, C.G., non va disposta alcuna pronuncia sulle spese. Infine, va dato atto mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della banca controricorrente, liquidandole in Euro 6.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 9 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019

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