Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17895 del 31/08/2011

Cassazione civile sez. II, 31/08/2011, (ud. 23/06/2011, dep. 31/08/2011), n.17895

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. PROTO Vincenzo – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA BONCOMPAGNI 61, presso lo studio dell’avvocato MICHELINI

VINCENZO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

SP.GI., n. a (OMISSIS),

B.G., n. a (OMISSIS)

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BALDO DEGLI UBALDI 71, presso

lo studio dell’avvocato MORICHI MASSIMILIANO, rappresentati e difesi

dall’avvocato TERESI VINCENZO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2440/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 22/07/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/06/2011 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Sp.Gi. e B.G. convenivano in giudizio S.A. assumendo di essere proprietari esclusivi di un fondo sito in (OMISSIS) sul quale la convenuta aveva realizzato una struttura coperta in muratura estesa circa 70 mq. Gli attori chiedevano quindi l’abbattimento di detta costruzione ed il rilascio del suolo occupato abusivamente, nonchè la condanna della S.A. al risarcimento dei danni per il mancato godimento del suolo.

La convenuta, costituitasi, eccepiva la prescrizione estintiva del diritto vantato dagli attori e spiegava domanda riconvenzionale di usucapione ex art. 1159 bis c.c. sostenendo di aver posseduto il fondo dal 1981. In via subordinata la S.A. proponeva domanda di indennizzo per addizioni e miglioramenti fondiari, facendo valere anche il diritto di ritenzione previsto per il possessore in buona fede.

Nel corso del giudizio la difesa della convenuta proponeva domanda di condanna degli attori al pagamento di quanto previsto dall’art. 936 c.c., comma 2.

Con sentenza 11/6/2002 l’adito tribunale di Torre Annunziata accertava l’esclusiva proprietà del fondo in capo agli attori e condannava la convenuta al rilascio dello stesso oltre alla rimozione degli immobili realizzati.

Avverso la detta sentenza la S.A. proponeva appello al quale resistevano lo Sp. e il B. i quali spiegavano appello incidentale.

Con sentenza 25/7/2005 la corte di appello di Napoli rigettava l’appello incidentale e, in parziale accoglimento di quello principale, dichiarava compensate per Va le spese processuali di primo grado. Osservava la corte di merito: che il mancato deposito della comparsa conclusionale da parte degli appellati non impediva il tempestivo deposito della memoria di replica; che l’appellante principale aveva lamentato il mancato riconoscimento del difetto di legittimazione passiva ed attiva, nonchè della denunciata violazione del litisconsorzio necessario; che, secondo l’appellante, era stato il marito ad occupare il fondo ed a realizzare il manufatto edilizio;

che la questione non riguardava il profilo della legittimazione passiva in senso stretto, ma la titolarità dal lato passivo del rapporto sostanziale oggetto del giudizio; che la S.A. in primo grado non aveva inteso contestare di possedere il fondo (proponendo anzi domanda riconvenzionale volta alla declaratoria di acquisto per usucapione) e di aver realizzato il manufatto edilizio;

che pertanto l’eccepito difetto di titolarità, dal lato passivo, del rapporto sostanziale incorrendo nel divieto di cui all’art. 345 c.p.c., era inammissibile; che altrettanto valeva per l’asserito compossesso (unitamente al coniuge) del fondo e per la realizzazione della costruzione; che, quanto ai profili della legittimazione passiva relativi alla domanda riconvenzionale di usucapione, andava rilevato che l’acquisto del cespite immobiliare da parte degli attori in primo grado avvenuto nel 1973, ossia prima dell’entrata in vigore della L. n. 151 del 1975, impediva, ex art. 228 della detta legge, l’automatica ricaduta nel regime di comunione legale dei beni acquistati antecedentemente; che infondato era anche il secondo motivo dell’appello principale con il quale la S.A. aveva eccepito la carenza di legittimazione attiva dello Sp. e del B. sul rilievo che il loro atto di acquisto del 1973 sarebbe “a non domino” sia per essere stata contestata la conformità della copia del citato documento all’originale, sia per non aver il c.t.u. riferito in ordine alla provenienza dei beni; che il tribunale aveva qualificato “revindica” la domanda degli attori e la mancanza di apposita censura sul punto rendeva immodificabile l’operata qualificazione; che, secondo il primo giudice, era stato assolto l’onere probatorio del rivendicante anche grazie all’attenuazione del rigore della “probatio diabolica” conseguita al fallimento della esperita domanda riconvenzionale di usucapione; che l’atto con il quale gli attori in primo grado avevano acquistato il fondo in questione era stato stipulato da coloro che, quali venditori, potevano disporre dell’immobile in quanto pro prietari per acquisto conseguito ad intervenuta successione mortis causa; che la validità del detto titolo non risultava contestata; che la conformità della prodotta copia del documento in questione all’originale non era stata contestata nel rispetto dei termini decadenziali di cui agli artt. 214 e 215 c.p.c.; che il c.t.u. non era tenuto ad accertare il diritto di proprietà dell’uno o dell’altro esulando la detta indagine dai compiti dell’ausiliare; che mancavano nell’atto di appello specifiche censure in ordine alla ritenuta attenuazione dell’onere probatorio gravante sull’attore in revindica, nè le stesse potevano essere introdotte con la comparsa conclusionale; che incombeva alla S.A. provare l’esclusività e la pienezza del possesso per il periodo utile per usucapire; che tale prova era mancata tenuto conto delle risultanze dell’espletata inchiesta testimoniale; che non era significativa la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà resa dalla S.A. il 7/3/1996, ossia dopo l’inizio del giudizio di primo grado; che con il quarto motivo di gravame l’appellante aveva sottolineato la connotazione di “buona fede” del possesso del fondo da parte della S.A. con riferimento agli indennizzi, alla decadenza ed al diritto di ritenzione; che la detta censura si poneva in netto contrasto con la eccepita carenza di legittimazione passiva; che comunque l’asserito possesso non risultava connotato dall’estremo della continuità alla luce del raccolto testimoniale; che la dedotta conoscenza da parte dei presunti proprietari della situazione possessoria e della realizzata costruzione non aveva alcuna incidenza sull’esperibilità dell’azione di revindica e sulla domanda di abbattimento ex art. 936 c.c.; che l’eccezione di decadenza del proprietario del fondo dal diritto di chiedere l’eliminazione dell’opera realizzata dal terzo integrava un’eccezione in senso proprio non proponibile per la prima volta in appello; che il legittimo esercizio dell’opzione del proprietario di conseguire l’eliminazione dell’opera realizzata dal terzo assorbiva la questione della “abusività” o meno rispetto alle previsioni urbanistiche del manufatto edilizio; che, in ogni caso, la costruzione realizzata in assenza di concessione non era indennizzabile attesa la precarietà dei diritto acquisito dal rivendicante; che, quanto all’indennizzo correlato ai pretesi miglioramenti agrari, andava osservato che, nonostante l’insistenza del fondo in zona pedemontana con vincolo idrogeologico, risultavano abbattuti una cinquantina di alberi di alto fusto il che concretava un “danno” e non un miglioramento; che non poteva essere riconosciuto alcun indennizzo in ordine alla piantagione di pini e di alberi da frutta; che era generico il rilievo dell’appellante in merito alla errata valutazione delle prove testimoniali, come era generica la censura relativa a non meglio precisati “difetti di consulenza”.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Napoli è stata chiesta da S.A. con ricorso affidato a sei motivi. Sp.Gi. e B.G. hanno resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso S.A. denuncia violazione degli artt. 88, 190, 190 bis, 115, 132, 156, 161, 169, 347, 348, 352, 359 c.p.c., degli artt. 36, 74, 77, 87 disp. att. c.p.c., art. 24 Cost., art. 113 c.p.c., art. 2719 c.c. Deduce la ricorrente di aver eccepito il mancato rideposito tempestivo del fascicolo di parte e delle memorie di replica peraltro senza il deposito della comparsa conclusionale. Il cancelliere aveva certificato che il fascicolo di parte dell’appellato e la comparsa e la replica non erano stati depositati: pertanto non si doveva tener conto del fascicolo depositato tardivamente. Era stata anche contestata la rispondenza all’originale della c.t.u. depositata da controparte in fotocopia. Si era anche dedotto che andava fissata nuova udienza di conclusioni essendo stata la causa rimessa sul ruolo. Dopo la rimessione della causa sul ruolo è comparso il fascicolo di parte e la memoria di replica che in precedenza non erano contenuti nel fascicolo di ufficio. Si è quindi eccepito la tardività del deposito e la violazione del diritto di difesa e del contraddittorio. La corte di appello: nulla ha detto sulla contestazione della rispondenza della ridepositata c.t.u.

all’originale e sulla mancanza del fascicolo di parte, fino alla nuova udienza ed ha solo motivato in ordine al deposito della memoria di replica senza il deposito della comparsa conclusionale ritenendola ammissibile; nulla ha detto sulla violazione del diritto di difesa e sulla necessità di una nuova udienza di precisazione delle conclusioni. La corte di appello quando la causa è andata in decisione doveva decidere senza il fascicolo di controparte, non doveva rimettere la causa sul ruolo e, ove rimessa, non doveva tener conto del fascicolo di parte depositato tardivamente e della memoria di replica mancante in precedenza e non indicata nell’indice del fascicolo di ufficio. Non è stato rispettato il principio del contraddittorio non avendo potuto essa ricorrente prendere visione del fascicolo di controparte e della memoria di replica, con violazione del diritto di difesa. Il giudice di appello ha errato nel tener conto della memoria di replica depositata senza il deposito della comparsa conclusionale.

Il motivo è infondato in quanto basato in buona parte su vicende processuali che – come risulta dalla stessa parte narrativa del ricorso – si sono verificate prima della rimessione della causa sul ruolo (ineccepibilmente disposta dalla corte di appello per la mancanza, al momento della decisione, della c.t.u.) e della successiva e conseguente udienza del 22/6/2005 nel corso della quale la causa è stata definitivamente assegnata a sentenza su richiesta delle parti le quali, secondo quanto riportato nella stessa sentenza, hanno anche precisato le proprie conclusioni.

Alla detta udienza del 22/6/2005 la parte appellata (ossia gli attuali resistenti) ha dichiarato “di avere tempestivamente depositato la memoria di replica ed anche il fascicolo di parte e di non aver depositato la sola comparsa conclusionale” (così testualmente pagina 3 del ricorso).

Al momento della decisione la corte di appello ha quindi avuto modo di esaminare il fascicolo di parte degli appellati e la memoria di replica dagli stessi depositata e che – come correttamente rilevato dalla corte di appello nella sentenza impugnata – deve essere presa in considerazione dal giudice pur se non preceduta dalla comparsa conclusionale (in tali sensi sentenze di questa Corte 17/3/2009 n. 6439; 25/3/2002 n. 4211).

Va inoltre rilevato che – come posto in evidenza nel controricorso – il fascicolo di parte degli appellati conteneva solo documenti già prodotti in primo grado e ben noti alla parte appellante la quale, quindi, non ha subito alcuna limitazione al diritto di difesa.

Va infine aggiunto che dalla lettura della sentenza impugnata non risulta (nè è stato dedotto in ricorso) che la S.A. abbia contestato il contenuto della c.t.u., sicchè non è dato comprendere la rilevanza della questione della conformità o meno all’originale della copia fotostatica della relazione del c.t.u., conformità comunque di fatto necessariamente riscontrata dalla corte di appello.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 936, 948, 949, 1168, 1170 c.c., artt. 100, 102, 132, 688 e 703 c.p.c. lamentando l’errore commesso dalla corte di appello nel rigettare le eccezioni di mancanza di legittimazione e di violazione del litisconsorzio tra essa S.A. ed il marito M.R..

Gli stessi attori avevano dichiarato che la casa era stata costruita dal M. non citato in giudizio e nei cui confronti non è stato integrato il contraddittorio. Inoltre nella specie la domanda di abbattimento delle opere – da attuare ad opera di chi le aveva realizzate – doveva essere proposta nei confronti dei due compossessori, ossia di essa S.A. e del marito.

Il motivo non è fondato come emerge agevolmente e con immediatezza dalla lettura della sentenza impugnata la cui motivazione sul punto è adeguata, congrua, immune da vizi logici e giuridici, oltre che aderente al principio che questa Corte ha più volte affermato – in tema di legittimatio ad causam e di titolarità del diritto sostanziale fatto valere – secondo cui la legittimazione “ad causam” dal lato passivo (o legittimazione a contraddire) costituisce un presupposto processuale, cioè una condizione affinchè il processo possa giungere ad una decisione di merito, e consiste nella correlazione tra colui nei cui confronti è chiesta la tutela e la affermata titolarità, in capo a costui, del dovere (asseritamente violato), in relazione al diritto per cui si agisce, onde il controllo del giudice al riguardo si risolve nell’accertare se, secondo la prospettazione del rapporto controverso data dall’attore, il convenuto assuma la veste di soggetto tenuto a “subire” la pronuncia giurisdizionale. Quando, invece, il convenuto eccepisca la propria estraneità al rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, viene a discutersi, non di una condizione per la trattazione del merito della causa, qual è la “legitimatio ad causam”, ma dell’effettiva titolarità passiva del rapporto controverso, cioè dell’identificabilità o meno nel convenuto del soggetto tenuto alla prestazione richiesta dall’attore. Tale ultima questione concerne il merito della causa: per cui il giudice che riconosca fondata detta eccezione, correttamente decide la controversia, non con una pronuncia di rito sulla regolare costituzione del contraddittorio, ma con una sentenza di rigetto nel merito della domanda dell’attore per difetto di titolarità passiva del rapporto sostanziale dedotto in causa (tra le tante sentenze 14/6/2006 n. 13756; 6/4/2006 n. 8040).

La corte di appello a sostegno della decisione adottata ha segnalato – come sopra riportato nella parte narrativa che precede – che in primo grado l’impostazione difensiva della S.A. era imperniata sul proprio possesso del fondo in questione e sulla realizzazione del manufatto abusivo ad opera della stessa e che solo in appello era stato eccepito (in violazione del divieto di cui all’art. 345 c.p.c.) il difetto di titolarità dal lato passivo del rapporto sostanziale.

Analogo principio è stato coerentemente e correttamente applicato dalla corte di appello con riferimento alla tesi relativa alla necessità di integrazione del contraddittorio sostenuta dalla appellante sulla base di una situazione di fatto – prospettata solo nel giudizio di secondo grado – concernente l’asserito compossesso del fondo “unitamente al coniuge” e l’individuazione dell’autore della realizzazione del manufatto.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 948, 2697, 2699, 2643, 2648 e 2650 c.c. sostenendo che la corte non ha correttamente affrontato e deciso i motivi di gravame concernenti:

la mancata prova della proprietà dei rivendicanti; la mancata prova della trascrizione e della continuità di acquisto e delle trascrizioni; la mancata prova della trascrizione dell’acquisto per successione del dante causa; la motivazione inidonea ed insufficiente. Segnala la S.A. che l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui l’atto di appello non conteneva specifiche impugnazioni del titolo di proprietà degli attori, è errata in quanto, al contrario, nell’atto di gravame vi era una specifica deduzione in relazione alla mancanza di continuità dei titoli e delle trascrizioni. Gli appellati avrebbero dovuto affermare o provare l’esistenza di un titolo legittimo di acquisto da chi era proprietario e la continuità degli acquisti dal primo acquirente o avrebbero dovuto dedurre e provare l’usucapione ventennale. L’esibito atto notarile del 18/3/1973 proviene da soggetto che si dichiara proprietario in virtù di successione. Il giudice – al fine dell’accertamento del requisito della continuità – avrebbe dovuto chiarire se la successione e la relativa denuncia di successione erano riferiti a quel bene, se l’acquisto per successione era regolare e se il de cuius era proprietario del bene. 11 rigore del principio in base al quale l’attore in rivendica deve provare la sussistenza del diritto di proprietà attraverso i suoi danti causa non può trovare nella specie attenuazione per la formulata domanda di usucapione. Il presunto acquisto da parte degli attori è avvenuto nel 1973, mentre essa ricorrente nel 1995 ha presentato istanza di condono ed ha dichiarato e dedotto di aver usucapito il bene con dies a quo anteriore al 1973 per cui incombeva agli attori dimostrare la precedente titolarità, ossia la continuità degli acquisti e delle trascrizioni. Ciò non è avvento e la corte di appello sul punto non ha fornito alcuna motivazione.

Le dette numerose censure non sono meritevoli di accoglimento: la sentenza impugnata si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto con il motivo in esame in quanto del tutto corretta e conforme al principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui quanto il convenuto deduca – come avvenuto nella specie – con eccezione o domanda riconvenzionale di avere acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, si attenua l’onere probatorio a carico dell’attore in rivendicazione, poichè tale onere si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell’appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, nonchè alla prova che quell’appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto. ( tra le tante, sentenze 29/11/2004 n. 22418; 8/10/2001 n. 12327; 28/6/2000 n. 8806 ).

Nel caso in esame la corte di appello ha ritenuto fornita la prova incombente sull’attore in rivendica con la produzione dell’atto notarile 18/6/1973 con il quale lo Sp. ed il B. avevano acquistato il fondo in questione da coloro che “quali venditori potevano legittimamente disporre dell’immobile siccome proprietari per acquisto conseguito ad intervenuta successione mortis causa” (pagina 9 sentenza impugnata).

La corte di merito ha poi affermato (alla pagina 10 della sentenza in esame) che: a) la validità di detto titolo non era stata contestata;

b) non erano state formulate specifiche censure “in ordine alla ritenuta attenuazione dell’onere probatorio gravante sull’attore in revindica …. nè le stesse possono essere introdotte con la comparsa conclusionale. Nella parte espositiva della sentenza la corte di merito ha poi rilevato che la S.A. aveva spiegato domanda di usucapione sostenendo di aver “posseduto il fondo senza ingerenze di terzi e continuativamente dal 1981”.

Quanto affermato dalla corte di appello – sopra riportato e posto a sostegno della decisione impugnata – non ha formato oggetto di specifiche censure da parte della ricorrente la quale quindi in questa sede di legittimità propone inammissibilmente questioni – ritenute dalla corte di merito non ritualmente prospettate in sede di appello – relative alla validità del titolo di acquisto dei resistenti, all’attenuazione dell’onere probatorio in questione e all’inizio del possesso in data anteriore a quella dell’acquisto ( avvenuto con atto 18/3/1973) del fondo da parte dello Sp. e del B..

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 112, 437, 345 c.p.c. e dell’art. 936 c.c. deducendo che la corte di appello ha rigettato l’eccezione della decadenza del diritto del proprietario del fondo dal diritto di chiedere l’eliminazione dell’opera realizzata dal terzo sulla base di tre argomenti:

tardività dell’eccezione, natura di eccezione in senso stretto e abusività dell’opera. Nella stessa sentenza impugnata si afferma che essa S.A. aveva eccepito la prescrizione estintiva del diritto vantato dagli attori deducendo la sua buonafede ed il decorso del termine di un anno ed eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza delle domande. Il decorso del termine è motivo ostativo all’azione di abbattimento e non va eccepita, ma solo dedotta il che può avvenire anche in appello. Non si tratta di un’eccezione riconvenzionale, nè di una eccezione in senso stretto o sostanziale, ma di una mera difesa. L’eccezione di decadenza era stata quindi proposta in primo grado e specificata in appello. In ogni caso la corte di appello avrebbe dovuto motivare il perchè le eccezioni proposte a sostegno della dedotta infondatezza della domanda degli attori non comprendevano anche l’eccezione di decadenza: così la corte di merito ha violato i principi di cui agli artt. 112 e 437 c.p.c. La corte di appello, infine, avrebbe dovuto motivare perchè l’istanza di condono non era accoglibile e solo all’esito affermare la non indennizzabilità per essere l’opera realizzata abusiva.

Il motivo è privo di pregio ponendosi in netto ed insanabile contrasto con il principio, richiamato nella sentenza impugnata, che questa Corte ha avuto modo di affermare – sin da tempi lontani e mai smentito successivamente -secondo cui il termine di sei mesi, trascorso il quale il proprietario del suolo non può, a norma dell’art. 936 c.c., comma 5 chiedere al terzo la rimozione delle costruzioni da questi eseguite con materiali propri sul detto fondo, integra un termine di decadenza disposto in materia non sottratta alla disponibilità delle parti; pertanto il decorso di questo termine non può essere rilevato di ufficio, ma deve essere eccepito dall’interessato mediante conclusioni specifiche formulate in modo chiaro ed univoco (sentenze 10/6/1977 n. 2402; 2374/1976 n. 1456;

20/1/1976 n. 170).

La detta eccezione non è stata formulata dalla S.A. in primo grado in modo “specifico, chiaro ed univoco” come emerge da quanto al riguardo dedotto dalla stessa ricorrente nel motivo in esame nel quale si fa solo riferimento a quanto esposto nella comparsa di costituzione in primo grado in merito alla buona fede, all’infondatezza delle domande proposte dagli attori in quanto “improcedibili, inammissibili ed infondate”, alla carenza dei presupposti della pretesa, alla prescrizione estintiva del diritto vantato dagli attori, al possesso del fondo, alla realizzazione del manufatto da oltre venti anni, alla conoscenza da parte degli attori della occupazione del fondo e dell’edificazione su parte dello stesso, alla spiegata domanda di indennizzo per addizioni e miglioramenti. Si tratta, come risulta evidente e come correttamente ritenuto dalla corte di appello, di tesi difensive volte a contestare e contrastare la domanda degli attori senza incidenza diretta ed immediata sulla domanda di abbattimento e nelle quali non può di certo ravvisarsi la formulazione specifica, chiara ed univoca dell’eccezione di decadenza di cui all’art. 936 c.c., u.c..

Per quanto riguarda poi la parte finale del motivo in esame – concernente la mancata motivazione in ordine alla inaccoglibilità dell’istanza di condono – è appena il caso di rilevare che con la sentenza di primo grado era stata esclusa la domanda di indennizzo in quanto il manufatto era stato “realizzato in spregio della normativa urbanistica ed ambientale” (pagina 4 sentenza impugnata) e sul punto dalla lettura della sentenza della corte di appello non risulta (nè è stato dedotto nel motivo in esame) che nei motivi di appello la S.A. abbia contestato tale affermazione facendo riferimento alla “accoglibilità” della presentata istanza di condono: di tale questione quindi non era tenuto ad occuparsi il giudice di secondo grado.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 61, 112, 191. 437 c.p.c., degli artt. 936, 1140, 1147, 1150, 1152, 2697, 2727 c.c., L. n. 47 del 1985, erronea valutazione della c.t.u.

e mancata motivazione in ordine alla non condivisione della c.t.u. Ad avviso della S.A. la sentenza impugnata è erronea anche:

a) in relazione alla deduzione di impossibilità di ottenere l’abbattimento stante la buona fede di essa ricorrente: si tratta di una deduzione e non di un’eccezione; b) in relazione alla erronea qualificazione della domanda fatta rientrare dalla corte di appello alternativamente nella fattispecie di cui all’art. 936 c.c. e in quella di cui all’art. 1150 c.c. La ricorrente censura l’impugnata sentenza laddove ha prima affermato che essa S.A. in alcuni periodi ha posseduto ed in altri ha detenuto ed ha poi applicato l’art. 936 c.c. e non l’art. 1150 c.c. I miglioramenti invocati da essa ricorrente sussistono e non potranno sussistere al momento della restituzione solo ove venga applicato l’art. 936 c.c. Contraddittoriamente la corte di appello da un lato riconosce che nella specie va applicato l’art. 1150 c.c. e da altro lato mantiene fermi gli effetti della normativa di cui all’art. 936 c.c. in altri punti ripudiata ove ha parlato di azione di rivendica e di periodi di possesso. Il giudice di secondo grado non ha poi precisato se i miglioramenti e le addizioni sono avvenuti in periodi di detenzione o di possesso. La corte di merito inoltre non ha motivato – in relazione alla concessione edilizia in sanatoria subordinata al vincolo – il tipo di vincolo sull’area in questione. La corte di merito nulla motiva anche sul diritto di ritenzione cui si è fatto riferimento in primo ed in secondo grado.

Le dette censure sono in parte infondate ed in parte inammissibili.

In particolare sono inammissibili le critiche mosse alla sentenza impugnata alle pagine 31, 32 e 33 del ricorso che contengono al centro uno spazio in bianco che impedisce la completa comprensione delle ragioni articolate in dette pagine a sostegno dell’impugnazione.

Per le parti comprensibili le censure in esame sono infondate e sono frutto di una non attenta lettura e di una non corretta interpretazione della sentenza impugnata con la quale, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, la corte di appello:

ha rilevato che il giudice di primo grado aveva qualificato come “revindica” la domanda proposta dagli attori e che, mancando censura sul punto, la detta qualificazione non era modificabile;

ha confermato la sentenza di primo grado, confermando quindi l’affermazione del tribunale secondo cui la domanda ex art. 936 c.c., era “necessariamente preceduta” da quella di revindica (pagina 3 sentenza impugnata);

ha affermato che incombeva alla S.A. provare il possesso per il tempo utile per usucapire e che tale prova non era stata offerta “tenuto conto delle risultanze dell’espletata inchiesta testimoniale”;

ha escluso la rilevanza della diade “detenzione-possesso” non essendo il possesso “connotato dall’estremo della continuità”;

ha escluso l’indennizzo correlato a miglioramenti non sussistendo in fatto detto miglioramento;

ha ritenuto insussistente la censura mossa dalla S.A. alla sentenza di primo grado – in ordine alla contraddittorietà della relativa motivazione sulla natura giuridica (detenzione-possesso) della relazione materiale di essa S.A. con il fondo – ponendo in evidenza che in realtà si erano alternati periodi di detenzione e periodi di possesso senza alcuna ricaduta sul rigetto della domanda di usucapione.

La corte di appello è pervenuta alle dette conclusioni attraverso argomentazioni complete ed appaganti, improntate a retti criteri logici e giuridici nonchè frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze istruttorie riportate nella decisione impugnata.

Il giudice di secondo grado ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esaminando compiutamente le risultanze istruttorie ed esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento.

Alle dette valutazioni la ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compite dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione.

Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la corte di appello, nel porre in evidenza gli elementi probatori favorevoli alle principali tesi difensive del B. e dello Sp. ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi della S.A..

Va solo aggiunto che la corte di appello, avendo escluso il diritto all’indennizzo per l’accertata inesistenza dei pretesi miglioramenti, coerentemente non si è occupata dell’asserito diritto di ritenzione vantato dalla S.A. sulla base di un indennizzo non spettante.

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 112, 132 c.p.c., degli artt. 936, 1140, 1158 e 2727 c.c., erronea valutazione delle prove e vizi di motivazione. Sostiene la S.A. che la sentenza impugnata è mal motivata in ordine alla dedotta usucapione ritenendo non credibile quanto dichiarato dai testi indicati da essa ricorrente: la motivazione sul punto è poco convincente.

Anche questo motivo, al pari degli altri, non può essere accolto risolvendosi essenzialmente – pur se titolato come violazione di legge e come vizio di motivazione – nella pretesa di contrastare e criticare l’apprezzamento delle prove operato dal giudice del merito (omesso od errato esame di risultanze istruttorie) incensurabile in questa sede di legittimità perchè sorretto da motivazione adeguata, logica ed immune da errori di diritto: il sindacato di legittimità è sui punto limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza. La ricorrente prospetta una diversa lettura del quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze processuali sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabile accertamento di fatto: la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice del merito siano, secondo l’opinione del ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta.

Spetta infatti solo al giudice del merito individuare la fonte del proprio convincimento ed apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dar prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Nè per ottemperare all’obbligo di motivazione il giudice di merito è tenuto a prendere in esame tutte le risultanze istruttorie ed a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che egli indichi – come nella specie – gli elementi sui quali fonda il suo convincimento dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.

Va altresì segnalato che le censure concernenti l’omesso o errato esame delle risultanze probatorie (relative alla prova testimoniale) oltre che per l’incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito, sono inammissibili anche per la loro genericità in ordine all’asserita erroneità in cui sarebbe incorso il giudice di appello nell’interpretare e nel valutare le dette risultanze istruttorie.

Nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentato errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata.

Nella specie le censure mosse dalla ricorrente sono carenti sotto l’indicato aspetto in quanto non riportano il contenuto specifico e completo delle prove testimoniali indicate nel motivo di ricorso in esame. Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo sviluppati in ricorso.

Il ricorso ve pertanto rigettato con la conseguente condanna della soccombente ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 3.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2011

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