Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17895 del 09/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 09/09/2016, (ud. 23/06/2016, dep. 09/09/2016), n.17895

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18364/2014 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), società con socio unico, in persona

del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LUIGI G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO

MARESCA, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NAPOLEONE

III 28, presso lo studio dell’avvocato DANIELE LEPPE, rappresentato

e difeso dall’avvocato ANTONIO ROSARIO BONGARZONE, giusta procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6036/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

18/06/2013, depositata il 22/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/06/2016 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIO FERNANDES.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con sentenza del 22 luglio 2013, la Corte di appello di Roma confermava la decisione del primo giudice che in accoglimento della domanda proposta da F.A. nei confronti di Poste Italiane s.p.a. aveva dichiarato che tra le dette parti si era costituito un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far data dal 17 febbraio 2003 e condannato la società resistente al ripristino del rapporto nonchè al pagamento in favore del F. delle retribuzioni maturate a decorrere dal 26 marzo 2007 oltre accessori come per legge. Vale precisare: che la Poste Italiane e Inwork s.p.a. avevano sottoscritto un contratto per fornitura di lavoro temporaneo che prevedeva la utilizzazione di 100 lavoratori da adibire alle mansioni di addetto allo smistamento per il periodo dal 17 febbraio al 30 aprile 2003 – poi prorogato fino al 30 settembre 2004 – per soddisfare esigenze di carattere temporaneo così come previsto dal CCNL; che a seguito del detto contratto di fornitura il F., previa sottoscrizione di un contratto di lavoro temporaneo con la Inwork s.p.a., era stato inviato presso il CMP di Roma Aeroporto con inquadramento nell’area operativa. Orbene, la Corte territoriale – ritenuta inammissibile l’eccezione di scioglimento del contratto per mutuo consenso perchè, essendo eccezione in senso proprio, era stata sollevata tardivamente per la prima volta in appello – rilevava che, se pure nel contratto di fornitura tra le imprese le ragioni di ricorso allo stesso sottese potessero essere molteplici, rispetto alla singola utilizzazione il contratto di lavoro tra l’impresa che forniva la manodopera ed il lavoratore doveva esattamente esplicitare e specificare quali delle ragioni indicate nel contratto giustificassero l’assunzione del dipendente e la sua destinazione presso l’utilizzatore, onde consentire il controllo successivo sulla congruenza tra le ragioni richiamate e quelle per le quali il dipendente era stato assunto dall’impresa di fornitura ed inviato presso l’utilizzatrice. Osservava che nel caso in esame erano mancate queste specificazioni e la causale era stata indicata in modo del tutto generico nel contratto per prestazione di lavoro temporaneo mediante il rinvio ai “casi previsti dal CCNL” e ciò rendeva evanescente la possibilità di “verifica di effettività” della causale indicata e la sua temporaneità. Quanto alle conseguenze di tale illegittimità, era ravvisabile la novazione soggettiva del contratto, con la sostituzione quale datore di lavoro dell’impresa utilizzatrice all’impresa fornitrice, nell’ambito di un rapporto a tempo indeterminato. Per la cassazione di tale decisione ricorre la società Poste Italiane, affidando l’impugnazione a sei motivi. Il F. resiste con controricorso. La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 23 giugno 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della relazione redatta a norma dell’alt. 380 bis c.p.c.. Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis c.p.c.. La società ha sostanzialmente richiamato i motivi di ricorso limitandosi a dissentire dalle conclusioni proposte nella relazione di rigetto dei primi cinque motivi mentre ha aderito alla proposta di accoglimento del sesto motivo. Il F., a sua volta, ha censurato la relazione evidenziando che il capo della sentenza di primo grado relativo alle conseguenze economiche derivate dalla declaratoria di illegittimità del contratto di fornitura non era stato appellato da Poste Italiane e, quindi, era passato in giudicato, con conseguente inapplicabilità dello ius superveniens costituito della L. n. 183 del 2010, art. 21, comma 5. Orbene, il Collegio condivide le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., comma 1, per quanto riguarda la proposta di rigetto dei primi cinque motivi di ricorso; diversamente dissente rispetto alla proposta di accoglimento del sesto mezzo. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1 e degli artt. 345 e 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) in quanto erroneamente la Corte di merito aveva ritenuto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tardiva perchè proposta solo in appello laddove, invece, non costituiva una eccezione in senso proprio ma solo un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal contratto che ben poteva anche essere accertato d’ufficio dal giudice, se rilevante ai fini della decisione. Con il secondo motivo, si censura la decisione della Corte di appello di Roma per violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, rilevandosi che l’inerzia prolungata del F., per quattro anni dalla fine del rapporto di lavoro prima di mettere le proprie energie a disposizione della società, nonchè la accettazione senza riserve del TFR e l’esigua durata del rapporto di lavoro ben potevano determinare nella parte datoriale la legittima convinzione che il rapporto fosse da ritenere risolto per entrambe le parti. Con il terzo motivo, viene denunziata violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. c) e art. 5, della L. n. 196 del 1997, art. 3, comma 3 e art. 10, sul rilievo che il contratto di fornitura non deve contenere l’indicazione dei motivi di ricorso alla fornitura di lavoro temporaneo ai sensi della L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 5, dovendo tali ragioni essere indicate unicamente nel contratto per prestazione di lavoro temporaneo, ovvero nel contratto stipulato tra il lavoratore e la società di fornitura, e che ogni vicenda relativa al contratto di lavoro temporaneo è da imputare esclusivamente ai rapporti intercorrenti tra società fornitrice e lavoratore, nei cui confronti devono essere fatte valere le pretese azionate. Ciò diversamente che nell’ipotesi di mancanza di forma scritta, che determina l’assunzione del lavoratore che presti la sua attività a favore dell’impresa utilizzatrice da parte di quest’ultima. Con il quarto motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in quanto la Corte territoriale, nel ritenere la causa apposta al contratto di fornitura tanto generica da non consentire una verifica in concreto delle cause giustificatrici previste dal contratto collettivo, aveva finito con il non considerare la documentazione prodotta dalla società e il non ammettere la prova testimoniale pure articolata. Con il quinto motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 10 e della L. n. 1369 del 1960, osservando che l’art. 10, comma 2, della legge citata, che contiene le norme sanzionatorie, dispone che la mancata erronea o generica indicazione dei motivi di ricorso alla fornitura di lavoro temporaneo può produrre solo ed esclusivamente la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della società fornitrice, ma non dell’utilizzatrice, nei confronti della quale si instaura il rapporto a tempo indeterminato solo in mancanza della forma scritta del contratto di fornitura. Con il sesto motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, rilevandosi che la Corte di appello avrebbe dovuto fare applicazione di tale norma in quanto applicabile a mm i giudizi in corso, tanto nel merito quanto in sede di legittimità, e riferibile anche a quelli in materia di fornitura e/o somministrazione. Il primo motivo è infondato. Ed invero, secondo il prevalente indirizzo della sezione lavoro di questa Corte, l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso integra una eccezione in senso proprio (Cass. nn. 713/2016, 18531/2015, 17840/2015, 17775/2015, 773/2014, 3027/2014, 7314/2013, 10201/2012, 26562/2011, 10526/2009, tra le varie) e, quindi, soggetta alle preclusioni contemplate dagli artt. 416 e 437 c.p.c., ragion per cui correttamente la Corte territoriale l’ha ritenuta inammissibile perchè sollevata per la prima volta solo in appello l’infondatezza del primo motivo comporta l’assorbimento del secondo che, comunque, sarebbe stato infondato alla luce del consolidato di questa Corte (Cass. n. 5887 dell’1/3/2011; Cass. n. 23057 del 15/11/2010; Cass. n. 26935 del 10/11/08; Cass. n. 17150 del 24/6/08; Cass. n. 20390 del 28/9/07 e numerosissime altre) – rispetto al quale non si rinvengono ragioni di dissenso – secondo cui la meni inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative tra le quali in varie occasioni questa Corte ha evidenziato che non possono essere annoverate quelle indicate dalla ricorrente nel motivo all’esame quali l’accettazione senza riserve del TFR e la esigua durata del rapporto. Il terzo ed il quarto motivo, da esaminare congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono infondati. La norma di riferimento è la L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, che consente il contratto di fornitura di lavoro temporaneo solo nelle seguenti ipotesi: “a) nei casi previsti dai ccnl della categoria di appartenenza della impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi; 13) nei casi di temporanea utilizzazione di qualifiche non previste dai normali assetti produttivi aziendali; c) nei casi di sostituzione dei lavoratori assenti, fatte salve 1e ipotesi di cui al comma 4” (che prevede le situazioni in cui è vietata la fornitura di lavoro temporaneo). La causale indicata nel contratto di fornitura fa rinvio “..a quanto previsto dall’art. 1, comma 2, lett. A) – casi previsti dal CCNL della L. 24 giugno 1997, n. 196”. Il contratto, pertanto, invece di specificare la causale all’interno delle categorie consentite dalla legge, si limita a parafrasare il testo della legge, senza compiere alcuna specificazione, la genericità della causale rende il contratto illegittimo, per violazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, commi 1 e 2, che consente la stipulazione solo per le esigenze di carattere temporaneo rientranti nelle categorie specificate nel comma 2, esigenze che il contratto di fornitura non può quindi omettere di indicare, nè può indicare in maniera generica e non esplicativa, limitandosi a riprodurre il contenuto della previsione normativa. Nè può ritenersi che il rilevato onere di specificazione non fosse richiesto rispetto ad una genericità della previsione collettiva, posto che solo la indicazione precisa delle esigenze sostitutive sottese all’assunzione del lavoratore avrebbe consentito il riscontro in termini probatori della effettività della ragione posta a fondamento della fornitura del lavoro da parte sua nell’ufficio di adibizione, consentendo di escludere che il lavoro del predetto fosse funzionale alla diversa esigenza di sopperire ad ordinarie carenze di organico del CMP di Roma Fiumicino. Con riferimento, poi, in particolare, alla censura svolta in relazione alla portata probatoria dei documenti asseritamente prodotti, non si specifica la sede di relativa produzione nelle fase del merito, così come anche per la prova per testi, della quale si assume richiesta l’ammissione, non si riportano analiticamente i capi articolati, in dispregio de) principio di autosufficienza, onde consentire a questa Corte di valutarne il carattere di decisività (cfr. Cass. 8569/13; 4220/12; 6937/10; vedi anche Cass. nn. 2861/14; 2427/14; 2966/11). L’inosservanza anche di uno soltanto di questi oneri viola il precetto di specificità di cui al citato art. 366, comma 1, n. 6 e rende il ricorso conseguentemente inammissibile (cfr. Cass. 14216/13; 23536/1323069/13). Destituito di fondamento è anche il quinto motivo. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte l’illegittimità del contratto di fornitura comporta le conseguenze previste dalla legge sul divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro, e, quindi, l’instaurazione del rapporto di lavoro con il fruitore della prestazione, cioè con il datore di lavoro effettivo. Infatti, l’art. 10, comma 1, collega alle violazioni delle disposizioni di cui all’art. 1, commi 2, 3, 4 e 5 (cioè violazioni di legge concernenti proprio il contratto commerciale di fornitura), le conseguenze previste dalla L. n. 1369 del 1960, consistenti nel fatto che “i prestatoti di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni” (tra le varie: Cass. 23 novembre 2010 n. 23684; Cass. 24 giugno 2011 n. 13960; Cass. 5 luglio 2011 n. 14714 alle cui motivazioni si rinvia per ulteriori approfondimenti). Le medesime sentenze hanno precisato che alla conversione soggettiva del rapporto, si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo determinato in lavoro a tempo indeterminato, per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal D.Lgs. n. 368 del 2001, ai fini della legittimità del lavoro a tempo determinato tra l’utilizzatore ed il lavoratore (sul punto v. anche: Cass. 6933/2012, Cass. 5.12.2012 n. 21837, Cass. 17.1.2013 n. 1148); effetto finale è la conversione del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo in un ordinario contratto di lavoro a tempo indeterminato tra l’utilizzatore della prestazione, datore di lavoro effettivo, e il lavoratore (Cass. 24.6.2011 n. 13960; Cass. 5.12.2012 n. 21837, Cass. 17.1.2013 n. 1148 cit.). Il sesto motivo è non può ritenersi fondato come opinato nella relazione. Esso concerne il risarcimento del danno e riguarda l’applicabilità al caso in esame della L. n. 183 del 2010, art 32. Il problema interpretativo consiste nello stabilire se la formula “casi di conversione del contratto a tempo determinato”, riguardi esclusivamente i contratti a termine o anche i contratti di lavoro temporaneo, problema risolto dall’ultima giurisprudenza di legittimità nel senso della estensibilità della formula anche a tali ultimi contratti (Cass. 29.5.2013 n. 13404, Cass. 17.1.2013 n. 1148 e, da ultimo, Cass. 18046 del 2014, alle cui argomentazioni si rimanda anche per i riferimenti a C.G.U.E. C-290/12 dell’11.4.2013). Orbene, osserva il Collegio che i principi della rilevabilità, anche d’ufficio, dello ius superveniens e della sua applicabilità nei giudizi in corso non operano indiscriminatamente, ma devono essere coordinati con quelli che regolano l’onere dell’impugnazione e le relative preclusioni, con la conseguenza che la loro operatività trova ostacolo nel giudicato interno formatosi in relazioni alle questioni, sulla decisione delle quali avrebbe dovuto incidere la normativa sopravvenuta, e nella conseguente inesistenza di controversie in atto sul punto in considerazione (v. tra le tante Cass. 4.06.03 n. 8933). Nel caso in esame, come correttamente rilevato nel controricorso e nella memoria ex art. 380 bis c.p.c., il non aver proposto appello sulla questione relativa al quantum del risarcimento, preclude a Poste Italiane il diritto di invocare lo ius superveniens. Ed infatti, il giudice di primo grado dichiarò l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti e condannò la società a corrispondere al F. le retribuzioni maturate dal 26 marzo 2007 e tale capo della decisione del Tribunale non era stato specificamente impugnato. Vale qui ricordare che, ove la sentenza di primo grado che ha dichiarato la illegittimità del termine (o del contratto per prestazione di lavoro temporaneo) ed il conseguente diritto al risarcimento venga impugnata solo sulla prima questione, non si forma il giudicato sulla seconda, giacchè quest’ultima non costituisce capo autonomo, passibile di passaggio in giudicato in assenza di impugnazione, trattandosi di capo dipendente da una statuizione sottoposta ad appello (tra le tante v. Cass. n. 4732 del 23/03/2012; Cass. n. 4363 del 23.02.09; Cass. n. 8859 del 28/06/2001). Tale principio opera nel senso che ove travolta la prima statuizione sulla illegittimità del termine viene, dunque, meno la statuizione sul quantum per l’effetto espansivo che la riforma o la cassazione produce effetti sui capi dipendenti (art. 336 c.p.c.). Diversamente, ove la pronunzia impugnata venga confermata, come nel caso de quo, non può che formarsi la preclusione sulla questione del quantum, perchè non sottoposta ad impugnazione. In proposito è il caso di precisare che al fine di ritenere ritualmente investita da gravame una statuizione non è sufficiente la sola indicazione del capo di sentenza impugnato occorrendo anche, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., la indicazione delle ragioni sulle quali si fonda la richiesta di riforma. In particolare, è stato chiarito che ai fini della specificità dei motivi dell’appello non è sufficiente che ratto di gravame consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate e i limiti dell’impugnazione, ma è altresì necessario, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, unendo alla parte volitiva dell’appello una parte argomentativa che contrasti le ragioni addotte dal primo giudice (v., tra le altre Cass. n. 10314 del 2004, Cass. n. 22906 del 2005). Orbene, parte ricorrente non ha esposto di avere formulato nell’atto di appello censure attinenti alla statuizione di condanna al risarcimento del danno, tali da far ritenere investita per specifiche ragioni, anche le conseguenze economiche dell’accertata illegittimità del termine essendosi limitata a reiterare, ex art. 346 c.p.c., le eccezioni, istanze anche istruttorie) ed argomentazioni contenute nella memoria difensiva. Pertanto, non risultando essere stato impugnato detto capo della decisione del Tribunale, la Corte di merito non avrebbe potuto valutare l’applicabilità o meno alla presente fattispecie dello ius superveniens. Alla luce di quanto esposto il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico della società ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent. n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre

2016

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