Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17879 del 30/07/2010
Cassazione civile sez. trib., 30/07/2010, (ud. 08/07/2010, dep. 30/07/2010), n.17879
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAPA Enrico – Presidente –
Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –
Dott. MERONE Antonio – Consigliere –
Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –
Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
I.A. e G.A.M., elettivamente domiciliati
in Roma, via Carlo Mirabello 7, presso l’avv. Maurizio Spinella,
rappresentati e difesi dall’avv. Natale Vincenzo, giusta delega a
margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro
tempore e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12,
presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e
difende per legge;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della
Campania (Napoli), Sez. n. 47, n. 132/47/05, del 10 giugno 2005,
depositata il 19 settembre 2005, non notificata;
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio
dell’8 luglio 2010 dal Relatore Cons. Dr. Raffaele Botta;
Lette le conclusioni scritte del P.G. che ha chiesto il rigetto del
ricorso per manifesta infondatezza;
Letto il ricorso e il controricorso.
Fatto
CONSIDERATO IN FATTO
Che il ricorso è fondato su due motivi con il primo dei quali sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione di legge si censura la sentenza impugnata per non aver ritenuto insufficiente la motivazione dell’accertamento per la mancata indicazione dei criteri di calcolo seguiti dall’Ufficio nella elaborazione dei parametri applicati, e con il secondo dei quali si lamenta, sotto il profilo della violazione di legge la mancata dichiarazione di inammissibilità dell’appello dell’Ufficio sia perchè privo dell’autorizzazione prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, sia per tardività; Ritenuto che il ricorso sia manifestamente infondato, quanto al secondo motivo, che deve essere esaminato preliminarmente, a) sulla base del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui: “Nel processo tributario, la disposizione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 52, comma 2, secondo la quale gli uffici periferici del dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze e gli uffici del territorio devono essere previamente autorizzati alla proposizione dell’appello principale, rispettivamente, dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione generale delle entrate e dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione compartimentale del territorio, non è più suscettibile di applicazione una volta divenuta operativa – in forza del D.M. Economia 28 dicembre 2000 – la disciplina recata dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, che ha istituito le agenzie fiscali, attribuendo ad esse la gestione della generalità delle funzioni in precedenza esercitate dai dipartimenti e dagli uffici del Ministero delle finanze, e trasferendo alle medesime i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze, da esercitarsi secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia. A seguito della soppressione di tutti gli uffici ed organi ministeriali ai quali fa riferimento il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2, infatti, da tale norma non possono farsi discendere condizionamenti al diritto delle agenzie di appellare le sentenze ad esse sfavorevoli delle commissioni tributarie provinciali” (Cass. SU n. 604 del 2005);
b) perchè i termini di impugnazione erano sospesi in virtù delle disposizioni di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 16.
Ritenuto che il ricorso sia manifestamente infondato, quanto al primo motivo, sulla base del principio espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui: “La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. S.U. n. 26635 del 2009). Nel caso di specie il motivo di impugnazione in esame, che, peraltro, sembra investire più l’atto impositivo che la sentenza impugnata, è incentrato sulla non conoscenza dei criteri di calcolo utilizzati dall’Ufficio e non sul problema centrale relativo alla applicabilità dell’accertamento parametrico nel caso concreto e alle prove offerte dal contribuente per contrastare l’accertamento. Sicchè questi profili essenziali non appaiono elementi di discussione, con la conseguente infondatezza del ricorso.
Pertanto il ricorso deve essere rigettato. La formazione del principio enunciato in epoca successiva alla proposizione del ricorso giustifica la compensazione delle spese.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 luglio 2010.
Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2010