Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17877 del 03/07/2019

Cassazione civile sez. II, 03/07/2019, (ud. 15/02/2019, dep. 03/07/2019), n.17877

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 8143 – 2015 R.G. proposto da:

D.R.A., – c.f. (OMISSIS) – rappresentata e difesa in virtù

di procura speciale in calce al ricorso dall’avvocato Francesco Di

Ciollo ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via Germanico, n.

172, presso lo studio dell’avvocato Pier Luigi Panici;

– ricorrente –

contro

DI.RU.AS., – c.f. (OMISSIS) – + ALTRI OMESSI – rappresentati

e difesi disgiuntamente e congiuntamente in virtù di procura

speciale in calce al controricorso dall’avvocato Irene Ferrazzo e

dall’avvocato Giuseppe Fevola ed elettivamente domiciliati in Roma,

alla piazza di Villa Carpegna, n. 42, presso lo studio dell’avvocato

Francesca Petrucci;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della corte d’appello di Roma n. 5352 dei

26.6/3.9.2014;

udita la relazione nella camera di consiglio del 15 febbraio 2019 del

consigliere Dott. Luigi Abete.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con atto notificato il 28.3.2005 F.A., + ALTRI OMESSI, comproprietari di porzione del fabbricato colonico in (OMISSIS), citavano a comparire innanzi alla locale sezione distaccata del tribunale di Latina – tra gli altri – D.R.A., comproprietaria di altra porzione dello stesso fabbricato.

Esponevano che a seguito di taluni lavori eseguiti – tra gli altri – dalla convenuta nella porzione di sua proprietà era stata danneggiata la porzione di spettanza di essi attori ed era stata compromessa la stabilità del manufatto.

Chiedevano la condanna – tra gli altri – della convenuta al risarcimento dei danni ed al pagamento delle spese per l’esecuzione dei lavori necessari.

Si costituiva D.R.A..

Instava per il rigetto dell’avversa domanda.

Espletata la c.t.u., assunte le prove orali, con sentenza n. 263/2010 l’adito tribunale dichiarava che i danni subiti dall’edificio erano da ascrivere all’attività edilizia posta in essere – tra gli altri – dalla convenuta e faceva ordine – tra gli altri – alla convenuta di eseguire i lavori meglio indicati nella relazione di c.t.u..

Proponeva appello D.R.A..

Resistevano F.A., + ALTRI OMESSI.

Espletata nuova c.t.u., con sentenza n. 5352 dei 26.6/3.9.2014 la corte d’appello di Roma rigettava il gravame e condannava l’appellante a rimborsare alle controparti le spese di lite e a farsi carico delle spese di c.t.u..

Evidenziava – tra l’altro – la corte che gli esiti della consulenza tecnica espletata in appello, confermativi, nella sostanza, delle risultanze della c.t.u. espletata in primo grado, davano conto dell’incidenza dei lavori eseguiti dall’appellante sull’insorgenza delle lesioni successivamente manifestatesi, lesioni che, a loro volta, erano state la “causa scatenante (determinante) della perdita di sicurezza del fabbricato e della conseguente necessità dei lavori di ripristino delle condizioni di sicurezza” (così sentenza d’appello, pag. 7).

Evidenziava inoltre che l’appellante non aveva in alcun modo dimostrato che, indipendentemente dai lavori da ella eseguiti nel 2004, la situazione del fabbricato, quale accertata dal c.t.u., fosse da ricollegare a fatti naturali ovvero ad altri fattori ambientali di per sè sufficienti a determinare l’evento dannoso.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso D.R.A.; ne ha chiesto sulla scorta di sette motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione.

F.A., + ALTRI OMESSI hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del giudizio di legittimità.

La ricorrente ha depositato memoria.

Del pari hanno depositato memoria i controricorrenti.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 156 c.p.c. la nullità della sentenza o del procedimento; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Deduce che la corte di merito si è avvalsa ai fini della sua decisione degli esiti della c.t.u. espletata in secondo grado, che ha quantificato in Euro 14.750,00 ed in Euro 1.500,00 il valore delle opere da eseguire; che nondimeno la corte di merito ha confermato integralmente la sentenza del tribunale, che si era avvalso, a sua volta, degli esiti della c.t.u. espletata in primo grado, che viceversa aveva quantificato in Euro 24.200,00 il valore delle opere da eseguire.

Deduce quindi che la sentenza d’appello è inficiata da un insanabile contrasto tra motivazione e dispositivo, che ne cagiona la nullità in dipendenza dell’impossibilità di individuare il concreto comando giudiziale.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione o falsa applicazione degli artt. 62,194,198,153,157 c.p.c. e art. 183 c.p.c., comma 6, art. 345 c.p.c. e art. 2697 c.c..

Premette cha ha tempestivamente eccepito la nullità della c.t.u. espletata in grado d’appello.

Indi deduce che il c.t.u. nominato in grado d’appello ha fatto riferimento ad un “carotaggio” da lui non eseguito e non autorizzato dalla corte ed ha acquisito e tenuto conto di atti e documenti non prodotti ritualmente, in prime cure, nei termini di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c., in seconde cure, alle condizioni di cui all’art. 345 c.p.c..

Deduce che la corte distrettuale non si è pronunciata sull’eccezione con cui aveva censurato l’acquisizione da parte del c.t.u. della documentazione prodotta irritualmente, nè si è pronunciata sulle note critiche alla c.t.u..

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione o falsa applicazione degli artt. 62,194,198,153 e 157 c.p.c., art. 183 c.p.c., comma 6, art. 345 c.p.c. e art. 2697 c.c..

Deduce che la corte territoriale ha omesso di pronunciarsi in ordine alle note critiche alla c.t.u. di secondo grado depositate il 29.11.2012 e richiamate nella comparsa conclusionale; che alla luce dei rilievi di cui alle note critiche la corte avrebbe dovuto far luogo alla rinnovazione della c.t.u..

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, la nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’eccezione di difetto di legittimazione attiva degli iniziali attori.

Deduce che l’impugnata sentenza è nulla per omessa pronuncia in ordine all’inammissibilità della domanda per difetto di legittimazione attiva ovvero per difetto del diritto di proprietà in capo agli attori relativamente al vano terraneo (ex stalla) ed alle due stanze al primo piano.

Deduce che la corte di Roma non ha tenuto conto della contemporanea pendenza del giudizio n. 490/2011 r.g. innanzi al tribunale di Latina, avente ad oggetto il riscontro della proprietà delle porzioni immobiliari di cui controparte ha lamentato la lesione e dunque avente carattere pregiudiziale.

Deduce che a tali riguardi non può considerarsi sufficiente il rinvio che la sentenza di secondo grado ha fatto alla c.t.u..

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza o del procedimento; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Deduce che sia la corte romana sia il c.t.u. hanno omesso di pronunciarsi e di motivare in ordine alle note critiche del proprio c.t.p., depositate il 29.11.2012, alla c.t.u. di secondo grado; che la richiesta di convocazione a chiarimenti del c.t.u. nominato in grado d’appello è immotivatamente rimasta priva di riscontro; che il generico riferimento alle note critiche alla c.t.u. non è idoneo ad evitare la lesione del principio del contraddittorio.

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza o del procedimento per omessa pronuncia in ordine all’eccezione di giudicato interno; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 40 e 41 c.p..

Deduce che la corte capitolina ha omesso ogni pronuncia in relazione all’eccezione di giudicato interno da ella sollevata ed avente ad oggetto la mancata proposizione da parte degli appellati di gravame incidentale avverso la prima statuizione, nella parte in cui il tribunale aveva sostanzialmente escluso la sussistenza del rapporto di causalità tra i lavori da ella eseguiti e “le fessure denunciate da controparte” (così ricorso, pag. 41).

Deduce che la corte capitolina, onde evitare il rischio di un illegittimo arricchimento delle controparti, avrebbe dovuto provvedere alla determinazione dell’apporto eziologico di ogni singola concausa e quindi alla doverosa ripartizione di responsabilità, in modo da circoscrivere l’obbligo risarcitorio di ella ricorrente, sì da non includervi le conseguenze dannose riconducibili alla vetustà dell’immobile ed all’ampliamento del 1965.

Con il settimo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la nullità della sentenza per erronea determinazione – anche a motivo del travisamento dei fatti – del valore della controversia ai fini della determinazione delle spese di lite.

Deduce che è erroneo l’assunto della corte di Roma secondo cui il valore della controversia è indeterminabile.

Deduce che il valore della controversia, ai fini della liquidazione delle spese di lite, va determinato viceversa alla stregua del costo dei lavori quantificato dai c.t.u.; che dunque lo scaglione cui far riferimento è quello compreso tra Euro 5.200,01 ed Euro 26.000,00; che conseguentemente l’importo degli onorari medi per i giudizi innanzi alla corte d’appello è di gran lunga inferiore al quantum – Euro 11.576,00 – liquidato dalla corte di Roma.

Non si tiene conto – si premette – della memoria della ricorrente, siccome depositata in data 7.2.2019, in violazione del termine di cui all’art. 380 bis 1 c.p.c. di non oltre dieci giorni prima dell’adunanza – nel caso di specie tenutasi il 15.2.2019 – in camera di consiglio.

Il primo motivo di ricorso è destituito di fondamento.

Non sussiste l’asserita contraddittorietà della motivazione.

Invero con la sentenza n. 263/2010 il tribunale di Latina ebbe a far ordine – tra gli altri – ad D.R.A. “di eseguire i lavori meglio indicati nella consulenza alle lettere a, b, c, d ed e” (così ricorso, pag. 9, ove è testualmente riprodotto (nei termini trascritti) il dispositivo della sentenza di prime cure. Ovviamente il riferimento è alla consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado).

Cosicchè, allorquando, con la statuizione in questa sede impugnata, ha provveduto a rigettare il gravame e a confermare la sentenza appellata, la corte d’appello ha semplicemente ribadito la condanna all’esecuzione dei lavori meglio indicati nei summenzionati passaggi della relazione di c.t.u. depositata in prima istanza.

Il tutto, dunque, a prescindere, senza dubbio alcuno, contrariamente all’assunto della ricorrente, dalla quantificazione monetaria dei lavori operata dall’uno e dall’altro ausiliario.

Ovviamente a fortiori non sussiste il vizio di omissione di motivazione.

E parimenti non vi è margine per la configurazione della pretesa insufficienza motivazionale: un’ipotesi siffatta, pur in linea di principio, non è annoverabile tra le figure di “anomalia motivazionale” suscettibili di acquisire valenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel segno della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte.

Il secondo motivo, il terzo motivo ed il quinto motivo di ricorso sono strettamente connessi; se ne giustifica perciò la disamina contestuale; i medesimi motivi comunque sono destituiti di fondamento.

Si osserva innanzitutto che rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere “aliunde” notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli (cfr. Cass. 7.10.2016, n. 20232; Cass. 8.6.2007, n. 13428).

In questi termini non è, a rigore, irrituale la circostanza per cui l’ausiliario officiato in seconde cure abbia attinto elementi di riscontro dalla documentazione catastale all’uopo reperita e da un “carotaggio” dallo stesso c.t.u. non eseguito direttamente.

Si osserva altresì che la denuncia di pretese violazioni di norme processuali non si giustifica a tutela dell’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, sibbene unicamente onde porre rimedio alla menomazione che al proprio diritto di difesa la parte ha subito; sicchè è imprescindibile che si prospettino le ragioni per le quali il vizio processuale ha comportato la lesione del diritto di difesa ovvero altro pregiudizio in dipendenza della decisione di merito (cfr. Cass. 18.12.2014, n. 26831).

In questi termini del tutto generica ed aspecifica è la censura a tenor della quale il consulente tecnico nominato in secondo grado ed il consulente tecnico di parte appellata avrebbero in data 20.4.2012 provveduto ad integrare l’attività svolta in data 16.4.2012 “all’insaputa del difensore e del consulente dell’appellante” (così ricorso, pag. 20), generica ed aspecifica siccome tout court ancorata al rilievo per cui “tale attività è stata estremamente lesiva del contraddittorio ed ha consentito alla parte appellata di influenzare l’esito della c.t.u. in modo illegittimo” (così ricorso, pag. 20).

Si osserva inoltre che il consulente tecnico d’ufficio, ai sensi dell’art. 194 c.p.c., può acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori, rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e costituenti il presupposto necessario per rispondere ai quesiti formulati, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (cfr. Cass. 21.8.2012, n. 14577).

In questi termini analogamente è del tutto generica ed aspecifica la censura secondo cui “la c.t.u. ha tenuto conto di atti e documenti non ritualmente acquisiti” (così ricorso, pag. 20) in rapporto evidentemente alla necessità che si abbia riscontro della natura non “accessoria” dei fatti e delle circostanze cui i documenti acquisiti inerivano.

Si osserva ancora che la consulenza di parte, ancorchè confermata sotto il vincolo del giuramento, costituisce una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio, con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e conformi al parere del proprio consulente (cfr. Cass. 29.1.2010, n. 2063; cfr. Cass. 11.7.1983, n. 4712, secondo cui il giudice di merito può disattendere senza particolare confutazione la consulenza tecnica di parte, fondando il suo convincimento su considerazioni che ne escludono obiettivamente l’attendibilità; Cass. 18.4.2001, n. 5687).

In questi termini non può non rimarcarsi che la corte di seconde cure ha espressamente palesato il suo contrario avviso rispetto alle note critiche del consulente di parte appellante, allorchè ha appieno recepito le argomentazioni e le conclusioni del consulente tecnico officiato in secondo grado (“nonostante le critiche sollevate dalla appellante – dopo il deposito della nuova consulenza tecnica – si ritiene che le argomentazioni tecniche esposte con chiarezza e coerenza dall’ing. P. rendano (…)”: così sentenza d’appello, pag. 4).

Si osserva ulteriormente che rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate e di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio e l’esercizio di un tale potere (così come il mancato esercizio) non è censurabile in sede di legittimità. Al contempo, che, in tema di consulenza tecnica d’ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova consulenza, giacchè il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri istituzionali del giudice di merito e sul punto neppure è necessaria una espressa pronunzia (cfr. Cass. 3.4.2007, n. 8355; Cass. sez. lav. 24.9.2010, n. 20227; Cass. sez. lav. 6.5.2002, n. 6432).

In questi termini non possono ricevere seguito alcuno le prospettazioni della ricorrente a tenor delle quali la corte distrettuale avrebbe dovuto convocare a chiarimenti il consulente tecnico officiato in seconde cure ovvero far luogo alla rinnovazione della consulenza.

Il quarto motivo di ricorso va respinto.

Non sussistono nè l’omissione di pronuncia nè il difetto di motivazione che il mezzo in disamina veicola.

La corte territoriale infatti ha premesso che non vi era dubbio alcuno che, seppure per una minore porzione, il fabbricato colonico in (OMISSIS), era risultato di proprietà degli originari attori.

Del resto, propriamente, il motivo de quo agitur reca censura del giudizio “di fatto” cui la corte di Roma ha atteso ai fini del riscontro della proprietà, in capo agli originari attori, di porzione del fabbricato per cui è controversia (“tale travisamento dei fatti e omessa valutazione dei titoli di proprietà rende nulla la sentenza appellata nella parte in cui non ha accolto le censure dell’appellante”: così ricorso, pag. 34; “la Corte di Appello di Roma (…) ignorava la chiarificatrice ricostruzione dei fatti compiuta dall’appellante (…)”: così ricorso, pag. 35).

In questi termini, in relazione in via esclusiva alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ed alla luce dell’insegnamento n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte, l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte capitolina risulta, anche in parte qua agitur, in toto ineccepibile ed assolutamente congruo e esaustivo.

In particolare è da escludere che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” rilevanti alla stregua della summenzionata pronuncia delle sezioni unite possa scorgersi nelle motivazioni cui la corte romana ha, in parte qua, ancorato la sua decisione.

In particolare è da ritenere che la corte romana ha di certo disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere decisivo, connotante in parte qua la res litigiosa.

Evidentemente è del tutto irrilevante che la corte capitolina si sia avvalsa degli esiti della c.t.u. (si è già dato conto delle ragioni per cui del tutto ingiustificato è l’assunto della ricorrente, veicolato pur dal motivo in disamina, secondo cui l'”elaborato peritale è affetto da nullità assoluta ed insanabile (…) perchè frutto dell’acquisizione di documenti che non potevano entrare nel giudizio per iniziativa del medesimo c.t.u.”; così ricorso, pag. 36).

E similmente è priva di precipua valenza la circostanza per cui gli originari attori hanno omesso “di individuare catastalmente i fabbricati di cui si asserivano (…) proprietari” (così ricorso, pag. 33).

Si tenga conto che, in fondo, pur quando fa leva sulla copia, all’uopo allegata, dell’atto di citazione introduttivo del giudizio innanzi al tribunale di Latina, sezione distaccata di Terracina, iscritto al n. 490/2011 r.g., la ricorrente censura l’asserita distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa ai fini del vaglio della quaestio circa la “legittimazione attiva” – circa la proprietà – degli appellati (“l’inadeguatezza e la parzialità della c.t.u. (…) è stata espressa in modo chiaro (…)”: così ricorso, pag. 34; “nonostante che da tali dati emergesse chiaramente la condotta fortemente parziale del c. t. u. (…)”: così ricorso, pag. 35).

E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892; Cass. (ord.) 26.9.2018, n. 23153).

Il sesto motivo di ricorso del pari va respinto.

Si ammetta pure che la corte d’appello non abbia pronunciato sull’eccezione di giudicato “interno”.

Tuttavia non può che osservarsi quanto segue.

Da un canto, che la potestas che l’art. 384 c.p.c., u.c. devolve a questa Corte può esser legittimamente esperita – e nel caso de quo senz’altro la si esperisce – pur nell’evenienza in cui l’error che inficia la motivazione di una statuizione di merito il cui dispositivo sia nondimeno conforme a diritto, sia “in procedendo” – sarebbe il caso di specie – e non già “in iudicando” (cfr. Cass. 23.4.2001, n. 5962, secondo cui il potere di correzione della motivazione a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2 è esercitabile anche in presenza di “errores in procedendo”, i quali, ove si risolvano in violazione o falsa applicazione di norme processuali, presentano, dal punto di vista logico, la stessa struttura del vizio di violazione e falsa applicazione di legge al quale in generale fa riferimento l’art. 384 c.p.c., comma 1; cfr. Cass. 14.3.2001, n. 3671; Cass. 28.7.2005, n. 15810; Cass. sez. un. 2.2.2017, n. 2731).

D’altro canto, che “il Giudice di primo grado accoglieva la domanda spiegata da parte attrice ed al rilievo che i danni all’edificio di proprietà della stessa fossero imputabili all’attività edilizia posta in essere dalla Sig.ra D.R.A., la condannava (…)” (così ricorso, pag. 9). Cosicchè gli appellati – controricorrenti in questa sede – appieno vittoriosi in prime cure, pur in merito alla sussistenza del rapporto di causalità, non avevano necessità alcuna di proporre appello incidentale (cfr. Cass. sez. lav. 28.11.2016, n. 24124).

E’ innegabile quindi che non vi è margine alcuno per la configurazione del preteso “giudicato interno”.

Al contempo, in ordine all’ulteriore profilo di censura veicolato dal mezzo in disamina è sufficiente il riferimento all’insegnamento di questo Giudice del diritto.

Ovvero all’insegnamento secondo cui, in materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile; ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo “concausale” di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio “semplificato”, tale da condurre “ipso facto” ad un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del “quantum” risarcitorio (cfr. Cass. 21.7.2011, n. 15991; Cass. 16.2.2001, n. 2335).

Si ribadisce che la ricorrente ha identificato quali concause tout court il carattere vetusto dell’immobile ed un non meglio specificato “ampliamento del 1965” (cfr. ricorso pag. 42).

Il settimo motivo di ricorso parimenti va respinto.

Correttamente la corte di seconde cure ha considerato la controversia di valore indeterminabile.

Invero la ricorrente è stata condannata all’esecuzione dei lavori meglio indicati nella relazione di c.t.u., non già al pagamento di una somma di denaro.

Su tale scorta, ai fini della quantificazione delle spese del giudizio di appello, si assume a parametro di riferimento, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 44, art. 5, comma 6 (pubblicato in G.U. n. 77 del 2.4.2014), applicabile ratione temporis (così come prospetta la stessa ricorrente; del resto la sentenza impugnata è dei 26.6/3.9.2014), lo scaglione compreso tra Euro 26.000,01 ed Euro 52.000,00 (art. 5, comma 6, cit.: “Le cause di valore indeterminabile si considerano di regola e a questi fini di valore non inferiore a Euro 26.000,00 e non superiore a Euro 260.000,00 (…). Qualora la causa di valore indeterminabile risulti di particolare importanza (…)”).

Ebbene, con riferimento allo scaglione summenzionato, la liquidazione della corte di Roma – Euro 11.576,00 – non oltrepassa i “massimi”, complessivamente pari ad Euro 17.707,00 (Euro 3.520,00, Euro 2.430,00, Euro 5.800,00 ed Euro 5.949,00).

Ovviamente, in tema di liquidazione delle spese processuali che la parte soccombente deve rimborsare a quella vittoriosa, la determinazione degli onorari di avvocato e degli onorari e diritti di procuratore costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità (cfr. Cass. 9.10.2015, n. 20289; Cass. 4.7.2011, n. 14542).

In dipendenza del rigetto del ricorso la ricorrente va condannata a rimborsare ai controricorrenti le spese del presente giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis D.P.R. cit..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente, D.R.A., a rimborsare ai controricorrenti, F.A., + ALTRI OMESSI, le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 9.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis cit..

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 15 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2019

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