Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17874 del 09/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 09/09/2016, (ud. 21/06/2016, dep. 09/09/2016), n.17874

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22646/2011 proposto da:

P.V.P., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA PORTUENSE 104, presso la Sig.ra ANTONIA DE ANGELIS,

rappresentata e difesa dall’avvocato ROBERTO MURGIA, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

BANCO DI SARDEGNA S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MOCENIGO 26, presso lo studio dell’avvocato UMBERTO MONACCHIA,

rappresentata e difesa dall’avvocato LUIGI PASSINO, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 239/2011 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 13/04/2011 R.G. N. 192/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/06/2016 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA;

udito l’Avvocato ROBERTO MURGIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Cagliari dell’ 8.7.2005 P.V.P., già dipendente del Banco di Sardegna negli anni dal 1960 al 1990, data del pensionamento, agiva nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento dei danni alla professionalità, alla progressione professionale, biologico derivanti:

– dalla mancata esecuzione delle sentenze rese dal Pretore di Carbonia in data 15.2.1986 e dal Tribunale di Cagliari in data 4 luglio 1986, con le quali veniva accertata la violazione dell’art. 2103 cc., con condanna del Banco di Sardegna alla sua reintegra nelle mansioni di sostituto capo-contabile;

– dal demansionamento subito dal 23 aprile 1979 al 31 dicembre 1990, data di cessazione dal servizio.

Esponeva che la illegittimità della condotta del datore di lavoro era stata accertata con sentenza del 21.10-10.11/1998 del Tribunale di Cagliari, resa in sede di rinvio dopo un doppio giudizio di cassazione e passata in giudicato.

Il suddetto giudizio di accertamento era connesso a due ulteriori vertenze:

-1) la prima per il demansionamento, definita con le due citate sentenze di merito dell’anno 1986, di cui il giudicato dell’anno 1998 aveva poi accertato la mancata esecuzione;

-2) l’altra, per la impugnazione del licenziamento intimato in data 29.9.1982 per superamento del periodo di comporto; tale giudizio era stato definito in primo grado con esito a sè favorevole, giusta sentenza del 27 maggio 1983, in forza della quale ella veniva reintegrata in servizio (in mansioni dequalificanti) e si era definitivamente concluso, invece, con riconoscimento della legittimità del licenziamento, giusta sentenza della Suprema Corte nr. 8328/1991.

Il Tribunale di Cagliari rigettava la domanda.

La Corte d’appello di Cagliari – con sentenza del 13.4.2011 (nr. 239/2011) – rigettava l’appello della lavoratrice.

Preliminarmente riteneva rilevante ai fini di causa anche la condotta tenuta dal datore di lavoro, dopo il licenziamento dell’anno 1982, nella fase tra la reintegra in servizio (resa con pronunzia pretorile del 27 maggio 1983) e la cessazione del rapporto di lavoro, come evidenziato nel precedente giudizio di accertamento della responsabilità del datore di lavoro (sentenza della Suprema Corte nr. 9808/1996, in sede di secondo annullamento con rinvio). Tuttavia la pretesa risarcitoria non poteva essere accolta per carenza di prova e carenza di allegazioni in ordine al danno.

Quanto al danno alla salute, le certificazioni mediche prodotte attestavano una patologia (neoplasia uterina, che aveva poi condotto ad isterectomia) che non aveva correlazione causale con le vicende del rapporto di lavoro. Le patologie di natura psichica certificate erano collegate alla patologia principale, di cui costituivano una conseguenza di tipo reattivo; le certificazioni mediche non contenevano, invece, alcun riferimento alla storia lavorativa della paziente.

A ciò si aggiungeva la risalenza nel tempo delle certificazioni mediche rispetto alla cessazione del rapporto di lavoro, che non consentiva neppure di stabilire la attualità della patologia alla data del ricorso (ovvero la sua guarigione).

I pregiudizi di tipo esistenziale erano stati allegati del tutto genericamente, senza alcuna specificazione del pregiudizio relativo alle abitudini di vita.

I danni di natura patrimoniale non erano stati provati nè sotto il profilo della perdita di chanches nè come mancato conseguimento degli automatismi di carriera previsti dalla contrattazione di settore per il profilo di vice capo ufficio.

La ricorrente assumeva che in assenza del demansionamento avrebbe raggiunto la qualifica di capo ufficio facendo leva sul percorso professionale del signor F., che aveva assunto le funzioni di vice capo ufficio sul suo posto ed in suo luogo. Tale deduzione, in assenza di altre indicazioni utili a comparare le due posizioni professionali (rispettivi titoli di studio, percorsi di carriera, anzianità di qualifica e funzione) non era idonea a provare, neppure in termini di probabilità, il pregiudizio alla carriera.

Neppure poteva essere accolta la domanda subordinata fondata sugli automatismi di carriera previsti dalla contrattazione collettiva, in quanto la parte non aveva allegato la norma del contratto collettivo che attribuiva la promozione automatica alla qualifica di capo ufficio.

Gli artt. 96 e 104 del CCNL 1980 e 1987 prevedevano avanzamenti automatici soltanto fino al grado di vice capo ufficio; quest’ultimo invece, secondo la disciplina dell’art. 95, poteva conseguire le promozioni soltanto in base ad una valutazione di merito.

Per la cassazione della sentenza ricorre P.V.P., articolando tre motivi. Resiste con controricorso il Banco di Sardegna spa,illustrato da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2.

Il motivo si riferisce alla statuizione di rigetto della domanda di risarcimento del danno biologico.

La ricorrente ha esposto che dai certificati medici e dalle cartelle cliniche prodotti nel giudizio di primo grado – come documenti dal numero 14 al numero 26 – emergeva la esistenza di una sindrome nevrotica astenico-ansiosa contratta negli anni 1980-1982, in cui la conflittualità con il datore di lavoro era particolarmente accesa (come da certificato del prof. D. del (OMISSIS)); in conseguenza dello stress ella aveva altresì contratto una malattia dell’apparato riproduttivo (neoplasia uterina).

Il giudice dell’appello aveva espresso un giudizio medico legale senza ricorrere, come richiesto, all’ausilio di un consulente tecnico, concludendo che le patologie non erano in – relazione causale con la condotta illegittima del datore di lavoro.

Tale conclusione era del tutto immotivata laddove la derivazione della patologia psichica e della neoplasia uterina avrebbero dovuto essere accertati con adeguate competenze mediche, non rientrando l’accertamento, diversamente da quanto assunto dalla Corte di merito, nel notorio.

Il motivo è infondato.

Il ricorrente censura la sentenza sotto il profilo della violazione di norme di diritto, per avere il giudice del merito fatto erronea applicazione della clausola elastica del fatto notorio.

Il giudizio di sussunzione così posto alla attenzione di questa Corte non appare affetto dal vizio denunziato.

La Corte territoriale nella motivazione fa riferimento al fatto notorio soltanto per evidenziare che le manifestazioni a carico della sfera neuro-organica o psichica (sindrome nevrotica astenico ansiosa) risultano collegate alla patologia principale – neoplasia uterina – “della quale costituiscono,come è noto, una tipica e frequente sequela di natura reattiva” aggiungendo, nello stesso contesto, che non a caso nelle certificazioni mediche vi era il collegamento della patologia psichica con la patologia principale e, per contro, non vi era alcun riferimento alla vicenda lavorativa.

La motivazione della Corte è dunque fondata non soltanto sull’utilizzo del notorio ma anche sull’esame del contenuto delle certificazioni mediche, che ponevano la patologia nevrotica in correlazione con la neoplasia uterina.

Il fatto notorio è utilizzato nei limiti dell’affermazione che la patologia neoplastica produce come “tipica e frequente sequela di natura reattiva” sindromi di tipo nevrotico astenico-ansioso, quali quella certificata.

Trattasi di nozione – tratta dalla evidenza scientifica – di comune esperienza – (dovendo nella specie considerarsi anche l’intervento di isterectomia totale subito dalla paziente) – come tale correttamente utilizzata dal giudice del merito.

2. Con il secondo motivo la ricorrente ha denunziato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La censura investe la statuizione di rigetto della domanda di risarcimento del danno biologico nel punto in cui la corte di merito evidenzia la mancanza di attualità dei certificati medici.

La parte ha lamentato che tale valutazione era stata compiuta in mancanza di una specifica contestazione di controparte.

Il motivo è inammissibile per difetto di decisività della statuizione impugnata.

La affermazione della sentenza investita dal gravame, sulla risalenza nel tempo delle certificazioni mediche prodotte, appare meramente rafforzativa: essendo stato più radicalmente escluso dalla Corte territoriale il rapporto di causalità tra la condotta il illecita ed il danno biologico, non aveva rilievo alcuno ai fini del decidere verificare la attualità (o la guarigione) della patologia alla data di proposizione della azione giudiziaria.

3. Con il terzo motivo la ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione alla statuizione di rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale per perdita di chanches.

Ha esposto che dalle sentenze del Pretore e del Tribunale di Cagliari dell’anno 1986, divenute definitive, risultava la condanna del datore di lavoro a reintegrare la P. nelle funzioni di sostituto capo-contabile e con il grado di vice capo ufficio.

Dalla sentenza del Tribunale di Cagliari risultava, altresì, che presso la filiale di assegnazione (filiale di (OMISSIS)) l’unico posto di vice – capo ufficio era quello di vice – capo contabile, già assegnatole ed affidato -in sua sostituzione e dopo la sua malattia- al signor F.B., che era stato poi promosso a capo ufficio in data 1.4.1981 ed alla qualifica di quadro in data 30.4.1987.

Era pertanto lecito ritenere che se il Banco di Sardegna la avesse re-immessa nella posizione lavorativa alla quale ella aveva diritto analoga sarebbe stata la sua progressione professionale. Il danno da perdita di chanches poteva essere dimostrato solo in via presuntiva e gli elementi offerti erano idonei alla prova; del resto il datore di lavoro non aveva mai allegato la diversità di titoli e di carriera del F. ed aveva scelto inizialmente proprio lei – e non il F. – per coprire il posto.

Il motivo è infondato.

Per costante giurisprudenza di legittimità l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012 – (applicabile ratione temporis in ragione della data di pubblicazione della sentenza d’appello) – non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’ esame e la valutazione operata dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ad esempio, in termini, Cassazione civile, sez. 3, 04/03/2010, n. 5205 Cass 6 marzo 2006, n. 4766. Sempre nella stessa ottica, altresì, Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500; Cass. 19 dicembre 2006, n. 27168; Cass. 8 settembre 2006, n. 19274; Cass. 25 maggio 2006, n. 12445).

La parte ricorrente si limita ad esporre fatti già puntualmente esaminati nella sentenza impugnata e ritenuti non idonei alla prova.

Il giudizio espresso dal giudice dell’appello è fondato su un ragionamento logico puntale ed adeguato ovvero sulla assenza di allegazioni idonee a porre in concreta comparazione la professionalità della P. e quella del F..

La Corte di merito ha sul punto correttamente osservato che la promozione alla superiore qualifica di capo ufficio avveniva – secondo la disciplina fissata dall’art. 95 CCNL – in base ad una valutazione di merito fondata, nell’ordine, sulle capacità professionali, le note di classifica, le particolari attitudini, i precedenti di lavoro ed i titoli di studio sicchè soltanto la allegazione delle suddette circostanze di fatto poteva consentire un confronto tra le due figure professionali ai fini del ragionamento presuntivo sulla perdita di chanches.

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100 per esborsi ed Euro 4.500 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2016

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