Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17870 del 03/07/2019

Cassazione civile sez. II, 03/07/2019, (ud. 20/12/2018, dep. 03/07/2019), n.17870

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15645-2015 proposto da:

C.O., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAPRANICA

78, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO MAZZETTE, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONINO BONGIORNO

GALLEGRA;

– ricorrente –

contro

C.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 24,

presso lo studio dell’avvocato GUIDO BUFFARINI GUIDI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANITICI CELIA;

– controricorrente –

e contro

C.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 778/2012 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata. il 03/07/2012 ed avverso la sentenza n. 163/2015 della

CORTE DI APPELLO DI GENOVA, depositata il 05/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/12/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità ed in

subordine il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Bongiorno Galegra Antonino, difensore del ricorrente

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Guido Buffarini Guidi, difensore della resistente,

che ha chiesto l’inammissibilità ed in subordine il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Per quanto interessa in questa sede la presente causa lite è stata introdotta da C.M. nei confronti del fratello C.O. in relazione alla duplice successione dei genitori.

In riferimento alla successione del padre l’attrice ha chiesto accertarsi la esistenza di una donazione elargita in favore del coerede, mediante acquisto di un immobile in (OMISSIS), con mezzi forniti dal padre C.A..

Sempre in relazione alla successione paterna ha chiesto che il fratello fosse dichiarato indegno per avere soppresso la copia del testamento che il genitore gli aveva consegnato.

Con riferimento alla successione della madre, poichè in relazione a tale successione fu pubblicato un testamento olografo, ha chiesto in primo luogo di accertarsene la nullità per difetto di autenticità, essendo comunque il testamento nullo in dipendenza dell’inserimento nella scheda delle parole “dim. di C.O.”.

Il convenuto si è costituito e ha contestato le domande, chiedendo in riconvenzionale l’accertamento, ai fini della collazione, di una donazione fatta dal defunto alla sorella e al coniuge di lei, tramite pagamento del prezzo di acquisto dell’immobile in (OMISSIS).

E’ intervenuta volontariamente nel giudizio C.C., figlia di O., rivendicando i propri diritti di erede per rappresentazione del genitore per l’ipotesi che ne fosse dichiarata l’indegnità.

Il tribunale, con sentenza non definitiva, ha rigettato tanto la domanda di indegnità, proposta con riferimento alla successione paterna, quanto la domanda di nullità del testamento della comune madre, mentre ha accolto le reciproche domande di collazione.

Ha disposto la prosecuzione del processo in relazione alla domanda di divisione.

La corte d’appello, investita con impugnazioni principale da C.M. e incidentale da C.O., con una prima sentenza non definitiva, ha accolto la domanda di indegnità, in base al rilievo che il convenuto aveva ammesso di aver ricevuto una busta dal padre con su scritto aprire dopo la morte.

Secondo la corte, le circostanze della consegna lasciavano presumere che la busta contenesse le ultime volontà del genitore.

Nello stesso tempo ha ritenuto non credibile la dichiarazione di Oreste, nella parte in cui costui aveva dichiarato di avere consegnato la busta alla madre. Se ciò fosse stato vero la madre, verificato il contenuto, avrebbe rispettato le ultime volontà del coniuge, procedendo alla pubblicazione del testamento.

Con sentenza definitiva la corte d’appello ha poi riconosciuto la nullità del testamento della madre, che era autentico nel testo e nella sottoscrizione, ma tuttavia ugualmente nullo in conseguenza dell’aggiunta di cui sopra, che il convenuto, con le dichiarazioni rese in sede di interpello aventi valore confessorio, aveva ammesso di avere operato durante il confezionamento della scheda.

La corte inoltre ha riformato la sentenza del primo giudice nella parte in cui questo aveva riconosciuto il carattere di donazione indiretta dell’acquisto dell’appartamento di (OMISSIS).

Ha rimproverato al primo giudice di non avere bene inteso una deposizione testimoniale, ritenendo nel contempo inammissibile la produzione di un nuovo documento operata in grado d’appello dal convenuto con il fine di suffragare la domanda di collazione (matrice di un assegno con annotazione di pugno del de cuius, “versati sul c/c (OMISSIS) per M. e F. acquisto casa”).

In proposito ha aggiunto che il documento era ad ogni modo generico, in quanto portante la data del 3 luglio 1981, mentre l’appartamento è stato acquistato il 28 dicembre 1985.

Ha confermato la sentenza nella parte in cui ha disposto la collazione in danno di C.M..

Per la cassazione delle sentenze, non definitiva e definitiva della Corte d’appello di Genova, C.O. ha proposto ricorso, affidato a dieci motivi.

C.M. ha resistito con controricorso.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 463 c.c.

C.M. non ha interesse a far valere l’indegnità del coerede. Operando la rappresentazione in favore della figlia, intervenuta in giudizio per far valere i propri diritti per l’eventualità che fosse dichiarata l’indegnità del genitore, l’attrice non avrebbe ricavato alcuna utilità dalla pronuncia.

Si sottolinea che il difetto di interesse ad agire è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo.

Il motivo è inammissibile.

L’operatività della rappresentazione era emersa nel giudizio di primo grado, in seguito all’intervento della figlia di C.O., che aveva fatto valere i propri diritti ereditari per l’ipotesi che fosse dichiarata l’indegnità dell’ascendente.

Pur essendo già presente in causa la discendente, il tribunale non ha dichiarato inammissibile la domanda, ma l’ha rigettata nel merito.

La parte vittoriosa, pertanto, avrebbe dovuto sollevare la questione in sede di appello.

Non avendolo fatto sulla stessa questione si è formato il giudicato.

2. Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 463 c.c. e violazione dell’art. 2909 c.c.

La corte di merito ha riconosciuto l’indegnità in conseguenza del mero riscontro del fatto materiale descritto nell’art. 463 c.c., n. 5 mentre la norma richiede un comportamento doloso e volontario dell’agente.

Il ricorrente evidenzia inoltre che il giudice di primo grado aveva escluso la sussistenza del dolo e la relativa statuizione non ha costituito oggetto di motivo di appello.

Il motivo è infondato.

E’ indegno, ex art. 463 c.c., n. 5, chi ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata.

L’indegnità consegue a un comportamento volontario che abbia impedito il realizzarsi delle ultime volontà del testatore, contenute nella scheda celata: è ovvio che una soppressione colposa non produce indegnità.

La dottrina esclude l’applicazione della norma quando la soppressione sia bensì voluta, ma per fini degni di considerazione sociale, come quello di nascondere una situazione incresciosa. Si sostiene ancora che non incorre nell’indegnità l’erede favorito col testamento che, agendo contro i suoi interessi, lo nasconde o lo sopprime, dividendo con gli altri l’eredità. E’ stata poi esclusa l’applicazione della norma se colui contro il quale si rivolge l’accusa d’indegnità sia contemporaneamente il successore legittimo e l’erede designato nel testamento (Cass. n. 9274/2008).

Nella sentenza non si legge alcuna affermazione intesa a sostenere che una soppressione colposa o involontaria o innocua o fatta per motivi di particolare rilevanza produca ugualmente indegnità.

Pertanto è chiaro che, sotto la veste della violazione di legge, il ricorrente censura in realtà l’apprezzamento compiuto dalla corte di merito, nella parte in cui essa, da un lato, ha riconosciuto la natura testamentaria dello scritto in considerazione delle circostanze in cui era avvenuta la consegna della busta, dall’altro, non ha recepito le ragioni che avrebbero dovuto giustificarne la mancata esibizione al momento della morte.

A tale impostazione è facile replicare che la questione proposta con il motivo in esame, fondata sulla omessa considerazione del requisito soggettivo della fattispecie, avrebbe avuto un senso se il ricorrente, riconosciuto il carattere testamentario dello scritto consegnatogli dal padre, avesse eccepito la perdita incolpevole o fatta per motivi degni di considerazione.

In assenza di una simile deduzione le considerazioni proposte con il motivo sono prive di attinenza rispetto alla decisione, che ha implicitamente, ma univocamente, affermato la volontarietà della soppressione.

L’ulteriore profilo di censura (formazione del giudicato sull’assenza di dolo), in disparte il difetto di specificità, muove da una premessa teorica palesemente errata, e cioè che, ai fini della delimitazione della cognizione del giudice d’appello, possano scindersi gli elementi della fattispecie in guisa che quelli eventualmente non impugnati non potrebbero essere nuovamente considerati dal giudice del gravame.

Naturalmente il principio è diverso.

La locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, con la conseguenza che la censura motivata anche in ordine ad uno solo di tali elementi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perchè, impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione (Cass. n. 16853/2018).

L’appello proposto da C.M. riapriva la cognizione sulla domanda di indegnità pure in assenza di una specifica ragione di censura riferibile all’elemento soggettivo della fattispecie (Cass. n. 24783/2018).

3. Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 2697 c.c. e errata applicazione dell’art. 2729 c.c.

Era onere dell’attrice provare che il plico consegnato dal defunto contenesse disposizioni di ultima volontà, mentre la corte ha posto, in via immediata, sul convenuto l’onere di provare il contrario.

Il motivo è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di rilevare, in merito ai limiti dell’onere probatorio nel giudizio promosso per far dichiarare l’indegnità a succedere di colui che ha sottratto il testamento, che l’attore ha solo un onere di dimostrare il fatto della sottrazione ed il verosimile carattere testamentario del documento sottratto, mentre incombe sul convenuto la prova sull’intrinseca natura del documento e sul suo contenuto, specie se egli ne sia il detentore (Cass. n. 4736/1957).

La decisione è in linea con tale criterio.

La corte, con apprezzamento insindacabile in questa sede, ha ritenuto che il carattere testamentario si potesse desumere dal fatto, riconosciuto dal medesimo convenuto, che il genitore già anziano aveva consegnato una busta chiusa al figlio con su scritto di aprire dopo la morte.

Conseguentemente ha posto a carico del convenuto l’onere di provare il diverso contenuto del documento.

Si può convenire che l’ulteriore ragionamento presuntivo proposto dalla corte (se fosse stato vero che il figlio aveva consegnato la busta alla madre questa avrebbe certamente curato la pubblicazione del testamento) costituisca petizione di principio, perchè assume come presunzione del carattere testamentario un fatto che implica come già raggiunta la prova di quel carattere, nondimeno il vizio non inficia la decisione, che trova adeguato e autonomo supporto logico nella considerazione delle circostanze in cui è avvenuta la consegna della busta.

Spettava pertanto al convenuto provare il diverso contenuto del documento.

4. Il quarto motivo denuncia nullità della sentenza per mancanza di motivazione.

Il motivo è inammissibile.

E’ chiaro che la motivazione esiste e rende perfettamente percepibili le ragioni del decisum.

Del resto il motivo ripropone, sotto diverso e improprio profilo, le censure oggetto dei motivi precedenti.

5. Il quinto motivo denuncia violazione dell’art. 602 c.c.

La corte ha riconosciuto che le parole non autografe inserite nel testamento “dim di O.”, erano state aggiunte durante la confezione del testamento, in base a un’errata interpretazione delle dichiarazioni rese dal ricorrente.

Si sostiene che l’aggiunta fu fatta dopo la confezione del testamento, come si poteva desumere dal fatto che l’aggiunta fu inserita a stampatello fra una riga e l’altra, essendo d’altra parte pacifico che le parole inserite non modificano la volontà testamentaria.

Il motivo è infondato.

“Nel testamento olografo l’omessa o incompleta indicazione della data ne comporta l’annullabilità; l’apposizione di questa ad opera di terzi, invece, se effettuata durante il confezionamento del documento, lo rende nullo perchè, in tal caso, viene meno l’autografia stessa dell’atto, senza che rilevi l’importanza dell’alterazione. Peraltro, l’intervento del terzo, se avvenuto in epoca successiva alla redazione, non impedisce al negozio mortis causa di conservare il suo valore tutte le volte in cui sia comunque possibile accertare la originaria e genuina volontà del de cuius (Cass. n. 27414/2018; (Cass. n. 20703/2013: conf. 12458/2004).

La corte ha riconosciuto che nel rendere l’interpello all’udienza del 21 marzo 2007 C.O. aveva dichiarato, con efficacia confessoria, che l’aggiunta fu fatta durante il confezionamento del testamento.

E’ chiaro, pertanto, che sotto la veste della violazione di legge, il ricorrente censura esclusivamente l’interpretazione delle proprie dichiarazioni da parte della corte di merito.

Ma al riguardo la censura si traduce in una petizione di principio, in assenza di qualsiasi indicazione “sui profili sotto i quali la dichiarazione sarebbe stata male interpretata” (cfr. Cass. n. 19982/2011).

Per completezza di esame si ritiene di aggiungere che l’indagine volta a stabilire se una dichiarazione costituisca o meno confessione si risolve in un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, ove lo stesso sia fondato su una motivazione immune da vizi logici (Cass. n. 12803/2000). E’ incensurabile in cassazione anche l’apprezzamento della scindibilità delle dichiarazioni (Cass. n. 576/1980).

6. Il sesto motivo propone la medesima questione sotto il profilo della violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c.

Era onere dell’attrice provare che l’aggiunta, inserita fuori dal corpo del testo, fu fatta durante la redazione del testamento.

Il motivo è infondato, per quanto già detto sull’efficacia confessoria riconosciuta dalla corte alle dichiarazioni del convenuto.

Con il motivo in esame il ricorrente deduce altresì la violazione degli art. 116 e 117 c.p.c.

Il giudice avrebbe fatto un cattivo uso del potere di desumere argomenti di prova dalle dichiarazioni delle parti, facendo derivare dalle risposte la verità di fatti non dichiarati.

Per questa parte il motivo è inammissibile, perchè non coglie la ratio decidendi.

La corte non ha desunto argomenti di prova delle dichiarazioni rese, ma ha riconosciuto che il fatto fosse stato oggetto di confessione.

La sentenza, quindi, andava censurata sotto questo profilo, per violazione dell’art. 229 c.p.c., in quanto la sede in cui le dichiarazioni furono rese escludeva che la corte potesse attribuire loro efficacia di confessione. Fermo restando che una confessione giudiziale spontanea è configurabile anche in sede di interrogatorio non formale, qualora risulti dal verbale che la dichiarazione della parte non sia stata provocata da una domanda del giudice ma sia stata resa autonomamente ed il verbale rechi la sottoscrizione della parte (Cass. n. 11403/2006; n. 122/1983; n. 3035/1990).

7. Analogamente infondato è il settimo motivo, che ripropone la medesima questione sotto l’improprio profilo della nullità della sentenza per mancanza di motivazione, che invece non solo è perfettamente comprensibile, ma è anche giuridicamente corretta.

8. L’ottavo motivo denuncia errata applicazione dell’art. 737 c.c.

Una volta riconosciuta l’indegnità ne derivava che la donazione ricevuta dall’indegno, escluso dalla successione, non era soggetto a collazione.

Il motivo è infondato.

E’ stato già chiarito che, già nel corso del giudizio di primo grado, è intervenuta la discendente del soggetto destinatario della domanda di indegnità, la quale aveva rivendicato i propri diritti sulla base della rappresentazione, ammissibile anche in favore dei discendenti dell’indegno.

Ex art. 740 c.c. il discendente che succede per rappresentazione deve conferire ciò che è stato donato all’ascendente, anche nel caso in cui abbia rinunziato all’eredità di questo.

La ratio della previsione è universalmente riposta nella considerazione che i coeredi non debbono subire pregiudizio dal fatto che in luogo del donatario partecipino alla successione i suoi figli o nipoti.

Ciò posto, poichè la discendente aveva fin dal primo grado fatto valere i propri diritti di erede in luogo dell’ascendente per l’ipotesi che ne fosse dichiarata l’indegnità, le liberalità ricevute dall’ascendente rimanevano comunque rilevanti. La dichiarazione di indegnità non comportava la non operatività della collazione, ma spostava solo l’obbligo del conferimento a carico del discendente del donatario.

Pertanto la violazione ipotizzata con il motivo in esame poteva al limite configurarsi se, dall’accertamento della liberalità, la corte avesse fatto seguire una statuizione che ponesse l’obbligo del conferimento a carico del donatario, mentre la corte ha emesso una pronuncia in linea di principio, rinviando ogni ulteriore conseguenza del compiuto accertamento, anche in ordine alla collazione, al prosieguo del giudizio.

9. Il nono motivo denuncia violazione dell’art. 345 c.p.c.

La sentenza è censurata nella parte in cui la corte ha negato l’ammissibilità della produzione della matrice dell’assegno recante la indicazione di pugno del de cuius, nonostante la indispensabilità del documento ai fini della prova della donazione ricevuta dalla sorella.

In particolare il motivo propone le seguenti censure:

a) la sentenza, sul punto, è carente di motivazione;

b) trattandosi di produzione effettuata prima che entrasse in vigore la L. n. 69 del 2009, non si richiedeva il requisito di indispensabilità, richiesto per le prove costituende, non anche per documenti;

c) il documento era indispensabile;

d) la valutazione di genericità operata dalla corte, fondata sul confronto fra la data del documento e la data dell’acquisto, non tiene conto delle modalità del pagamento risultanti dal rogito, nel quale si dava come già pagato in precedenza la gran parte del prezzo.

Il motivo è fondato nei limiti di seguito indicati.

In primo luogo si precisa che il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello riguarda anche le prove precostituite, quali i documenti (Cass., S.U., n. 8203/2005; n. 12731/2011; n. 11510/2014).

Nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, quella di per sè idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (Cass. n. 10790/2017).

La corte non ha fatto corretta applicazione di tale principio, avendo ritenuto l’inammissibilità della produzione non solo in modo perentorio e immotivato, ma in base a una considerazione che allude a un requisito (la non coincidenza temporale fra elargizione e acquisto) che non è richiesto ai fini della configurazione della liberalità indiretta nei termini dedotti.

Infatti la fattispecie nota come intestazione di beni in nome altrui per spirito di liberalità non richiede una contemporaneità temporale fra elargizione e acquisto, essendo elemento necessario e sufficiente che la dazione sia stata fatta in funzione dell’acquisto.

10. L’ultimo motivo censura la sentenza nella parte riguardante la regolamentazione delle spese.

Esso pone le seguenti censure:

a) la corte d’appello ha posto a carico di C.O. le spese della consulenza espletata in grado d’appello, nonostante il mezzo fosse stato richiesto dalla controparte e nonostante l’esito negativo del supplemento, che ha confermato l’autenticità della scheda, salvo che per l’aggiunta, in relazione alla quale non c’era contestazione;

b) la corte di merito ha posto a carico del ricorrente anche le spese dell’interveniente, rispetto alla quale non c’era soccombenza;

c) le spese del grado d’appello dovevano essere compensate, posto che l’attrice era soccombente sulla domanda volta a far valere la non autenticità integrale del testamento.

Il motivo è assorbito.

11. In conclusione, sono rigettati i primi otto motivi, è accolto il nono, è assorbito il decimo.

La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Genova che provvederà a verificare l’ammissibilità della produzione e liquiderà le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

rigetta i primi otto motivi; accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il nono; dichiara assorbito il decimo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Genova anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione seconda civile, il 20 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2019

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