Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17864 del 11/08/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 17864 Anno 2014
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: LORITO MATILDE

SENTENZA

sul ricorso 5155-2009 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente 2014
contro

2029

MILANO NICOLETTA C.F. MLNNLT72R66A488N, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo
studio

dell’avvocato

VACIRCA

SERGIO,

che

la

Data pubblicazione: 11/08/2014

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI
CLAUDIO, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1658/2007 della CORTE D’APPELLO
di L’AQUILA, depositata il 19/02/2008 R.G.N. 893/2006;

udienza del 05/06/2014 dal Consigliere Dott. MATILDE
LORITO;
udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del giorno 8/6/05 il Giudice del lavoro del
Tribunale di Teramo accoglieva la domanda proposta da Milano
Nicoletta nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta
ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al
contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 23/2/98 al
30/5/98 per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di
7ors‘”

condannando la società alla riammissione in servizio della
lavoratrice ed al risarcimento del danno con decorrenza dalla
notifica del ricorso.
La s.p.a. Poste Italiane proponeva appello avverso la detta
sentenza chiedendone la riforma con reiezione delle avverse
domande. Spiegava altresì appello incidentale la lavoratrice
chiedendo riformarsi l’impugnata sentenza in punto di
decorrenza del risarcimento del danno, instando per la
fissazione dello stesso, alla data di comunicazione del
tentativo obbligatorio di conciliazione.
La Corte d’Appello di L’Aquila, con sentenza depositata il
19/2/08, respingeva l’appello principale essenzialmente sul
rilievo della omessa dimostrazione del rispetto della clausola
di contingentamento sancita dall’art.8 conl 26/11/94, da parte
della società ed, in accoglimento dell’appello incidentale,
fissava la decorrenza del risarcimento del danno spettante
alla lavoratrice, alla data del 7/11/02.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto
ricorso affidato a tre motivi corredati da quesiti di diritto.
La Milano ha resistito con controricorso. Entrambe le parti
hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente censura, sotto i profili
della violazione di legge e del vizio di motivazione,
l’impugnata sentenza, nella parte in cui ha respinto
l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso
tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione
1

riorganizzazione degli assetti occupazionali_ n

di interesse alla funzionalità di fatto del rapporto, per un
apprezzabile lasso di tempo anteriore alla proposizione della
domanda e la conseguente presunzione di estinzione del
rapporto stesso.
Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha più volte affermato che “nel giudizio
instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un

presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una
risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che
sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo
la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del
comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative – una chiara e certa comune volontà delle parti
medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto
lavorativo” (Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n.
5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932 nonché di recente, Cass.28-1-14
n.1780).
La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza de] contratl – n
a termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere
sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso”
(vedi Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887),
mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale
risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali
possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di
volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro”
(v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 cui adde Cass. 1-2-2010 n. 2279,
Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art.
1372 e 1321

c.c.,

va ribadito anche

in questa sede, così

confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato
in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e
delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla
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unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul

risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente
semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza,
seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al riguardo,
infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che,
valorizzando esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di
una presupposta valutazione sociale “tipica” (v. Cass. 6-72007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209), prescinde

consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione
negoziale, anche se tacita (v. da ultimo Cass. 28-1-2014 n.
1780).
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, attenendosi a
tali principi, ha rilevato che nella fattispecie la società
appellante ha eccepito soltanto l’elemento temporale, ossia il
periodo di tempo trascorso tra la fine del rapporto a termine
e la messa in mora o il promovimento dell’azione giudiziaria,
che, “tuttavia, da solo non basta”, non potendo assumere
alcuna significativa importanza aggiungendo che “le scelte
della lavoratrice sono state condizionate dalla speranza (o
timore) di essere (o non essere) richiamata a lavorare presso
le Poste Italiane”, considerato anche il tenore della
circolare della società diretta a tutti i direttori
filiale, che impediva la stipula di nuovi contratti con
soggetti aventi un contenzioso con la società.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra
richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste
alla censura della ricorrente, che peraltro in questa sede
richiama gli ulteriori elementi della breve durata del
contratto a termine e della percezione del t.f.r., comunque
entrambi privi di decisività (il primo del tutto irrilevante e
il secondo per nulla univoco).
Con il secondo mezzo di impugnazione, la ricorrente critica la
sentenza impugnata perché nell’affermare l’illegittimità del
contratto a termine per violazione della quota numerica
prevista dal ccnl, ha ritenuto che l’onere di fornire la prova
3

del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo

in

proposito

incombeva

sulla

società

anziché

sulla

lavoratrice, la quale aveva dedotto l’illegittimità del
contratto. Sostiene

inoltre che la Corte dl merliu,

considerata insufficiente la documentazione prodotta
dall’azienda a sostegno della dedotta insussistenza della
violazione della clausola di contingentamento, avrebbe dovuto
esercitare i suoi poteri istruttori officiosi, ordinando una

concludere per la violazione del limite numerico.
Il motivo non merita accoglimento.
Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui
ribadito, “nel regime di cui alla legge 28 febbraio 1987, n.
56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare
ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al
contratto di lavoro è subordinata dall’art. 23 alla
determinazione delle percentuali di lavoratori che possono
essere assunti con contratto a termine sul totale dei
dipendenti; pertanto, non è sufficiente l’indicazione del
numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a
garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità
dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base
all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del
numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da
potersi verificare

il rapporto percentuale tra lavorutur-

stabili e a termine. L’onere della prova dell’osservanza di
detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base alle
regole di cui all’art. 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230,
secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva
esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di
un termine al contratto di lavoro.” (v. Cass. 19-1-2010 n. 839
e numerose successive).
Inammissibile risulta, poi, la censura relativa al mancato
esercizio di poteri istruttori d’ufficio ed in specie al
mancato espletamento di una CTU contabile,
giudici di merito.

da parte dei

consulenza contabile d’ufficio al riguardo, prima di

Questa Corte, in numerosi arresti, ha infatti affermato il
principio alla cui stregua “il mancato esercizio da parte del
giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c., preordinato
al superamento di una meccanica applicazione della regola di
giudizio fondata sull’onere della prova, non e censurabile con
ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo
stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso,

2009 n. 6023, Cass. 2.6-6-2006 n. 14731). In ogni caso, poi,

i

detti poteri, ” – pur diretti alla ricerca della verità, in
considerazione

della

particolare

natura

dei

diritti

controversi – non possono sopperire alle carenze probatorie
delle parti,

né tradursi in poteri d’indagine e di

acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento
penale” (cfr. Cass.

8-8-2002 n. 12002, Cass.

21-5-2009

11847, Cass. 22-7-2009 n. 17102, Cass. 15-3-2010 n.

n.

6205).

Orbene la ricorrente neppure indica se, quando ed in quali
termini abbia sollecitato la nomina di un CTU.
Peraltro non va trascurato che la consulenza tecnica d’ufficio
“è mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria)
sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al
prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel
suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina
dell’ausiliario giudiziario e la motivazione dell’eventuale
diniego può anche essere implicitamente desumibile dal
argomentazioni svolte e dalla

contesto generale delle

valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato
effettuata dal suddetto giudice” (v. fra le altre Cass. 5-72007 n. 15219, Cass. 21-4-2010 n. 9461).
Nella fattispecie la Corte di merito, in sostanza, ha rilevato
che la documentazione prodotta dalla società (unico elemento
offerto) consisteva soltanto in un prospetto riepilogativo che
non consentiva la verifica, con la dovuta precisione, del
rispetto del tetto in questione, riguardo al riferimento
temporale e alla sfera territoriale contemplati, così
5

indicando anche i relativi mezzi istruttori” (v. Cass. 12-3-

legittimamente valutando unitariamente il quadro probatorio
emerso.
Con il terzo motivo la società ricorrente, in ordine alle
richieste economiche, deduce che nella fattispecie la
lavoratrice non avrebbe fornito la prova dell’effettivo danno
subito, non avendo allegato conteggi né specificato le norme
alla cui stregua si sarebbero dovute quantificare le reclamate

Lamenta, inoltre, che la Corte territoriale non avrebbe tenuto
conto del principio della “corrispettività delle prestazioni”
invalso nella giurisprudenza di legittimità, dalla cui
applicazione discende che il diritto alle retribuzioni insorge
esclusivamente in seguito alla effettiva ripresa del servizio.
Formula, quindi, il seguente quesito
caso

di

“Dica la Corte se, in

domanda di risarcimento danni da “scioglimento del

rapporto di lavoro fondato su clausola risolutiva contrattuale
nulla” rimane a carico dello stesso lavoratore, in qualità di
attore, l’onere di allegare e di provare il danno da farsi
equivalere alle retribuzioni perdute a causa della mancata
esecuzione delle prestazioni lavorative, ma presuppone che
queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore le
abbia illegittimamente rifiutate’.
Tale motivo risulta generico e astratto, così come, peraltro,
il relativo quesito conclusivo formulato ex art.366 bis
applicabile ratione temporis cfr. fra le altre Cass. 13-6-13
n.18735, Cass. 15-2-13 n.3819, Cass. 18-1-13 n.1211, Cass. 212-2012 n.2499).
Infatti, esso è generico, cosicché, dalla risposta che al
medesimo si dia, non potrebbe derivare l’accoglimento ovvero
il rigetto della censura; non appare conferente con le ragioni
poste a base della decisione, quali già diffusamente
ricordate, con particolare riguardo alla riscontrata messa in
mora della parte datoriale; non consente quindi di enunciare
una

regula iuris

decisum.

pertinente alle ragioni poste a base del

spettanze.

Così risultato inammissibile l’ultimo motivo, riguardante le
conseguenze economiche della nullità del termine, neppure
potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius
superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5 0 , 6 ° e 70
della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte
affermato, in via di principio, costituisce condizione

ius superveniens

che abbia introdotto, con efficacia

retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il
fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto
alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione
della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è
limitato dagli specifici motivi di ricorso

(cfr.

Cass. 8

maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di
ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto
dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente,
sia altresì ammissibile secondo la

disciplina sua propria ‘

fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione
della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in
favore della Milano liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in
euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi
professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 5 giugno 2014.

necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo

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