Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1785 del 24/01/2018


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Cassazione civile, sez. un., 24/01/2018, (ud. 09/05/2017, dep.24/01/2018),  n. 1785

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Azienda U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno (d’ora in avanti AUSL n. 6) e la Gestione Stralcio della ex U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno hanno proposto ricorso per cassazione contro C.T. e B.F., nonchè nei confronti della Regione Toscana, avverso la sentenza dell’8 aprile 2015, con la quale la Corte di Appello di Firenze ha riformato in grado di appello la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Livorno nel giugno del 2008.

2. La controversia di cui è processo ha tratto origine dal ricorso presentato nel luglio del 2000 dalla C. – medico dipendente della U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno e già della cessata (nel 1995) U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno, con inquadramento sin dal gennaio del 1989 come dirigente medico presso l’Unità Operativa di Ostetricia e Ginecologia – davanti al Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, contro l’U.S.L. n. (OMISSIS), in persona del commissario liquidatore, e per essa la Regione Toscana, nonchè contro l’AUSL n. (OMISSIS) di Livorno.

Nel ricorso la C. prospettava che l’allora primario di reparto, professor B.F., aveva iniziato ad arrecarle molestie sessuali per le quali era stato rinviato a giudizio nell’aprile del 1996, per i delitti di cui agli artt. 519 e 521 c.p., in relazione all’art. 56 stesso codice e art. 323 c.p., in relazione all’art. 81 stesso codice, con successiva pronuncia del Tribunale di Livorno, di applicazione, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., della pena di anni uno e mesi quattro di reclusione – e, vedendole respinte, aveva dato corso ad una cosciente e sistematica opera di distruzione della sua professionalità, venendo supportato dalla dirigenza dell’allora U.S.L. n. (OMISSIS), tramite ripetute conferme dei suoi atti.

In particolare, nel periodo dal luglio 1993 al luglio 1999, allorquando era stata reintegrata in servizio, detta opera si era concretata nella sottoposizione a quattro procedimenti disciplinari, conclusisi senza sanzione, a quattro provvedimenti di allontanamento dal reparto, ad un provvedimento di apertura di verifica delle sue capacità professionali e ad un provvedimento di affiancamento di un collega più anziano per la supervisione della correttezza del suo operato e servizio.

3. Sulla base di tale prospettazione la C. chiedeva:

a) da un lato, accertarsi la responsabilità contrattuale dell’AUSL n. 6 ai sensi dell’art. 2087 c.c. e, per il periodo successivo al 30 giugno 1998 (avendo per il periodo anteriore promosso un giudizio davanti al Tar Toscana, in ragione del criterio di riparto di giurisdizione collegato a quella data), farsi luogo alla sua condanna al risarcimento dei danni sofferti, a titolo di c.d. danno morale, di danno da lesione della propria dignità personale, di danno all’immagine professionale e di danno da mancata percezione dell’indennità di turnazione;

b) dall’altro lato, accertarsi, per l’intero periodo dal 1993 alla data di proposizione del ricorso, la responsabilità sia dell’U.S.L. n. (OMISSIS) che dell’AUSL n. (OMISSIS), a titolo extracontrattuale, per danno morale, lesione delle dignità professionale, dequalificazione e lesione dell’immagine professionale, con condanna dell’U.S.L., del Commissario Liquidatore, e della Regione Toscana, sia in proprio che in qualità di successore dell’U.S.L., al relativo risarcimento.

4. Nel relativo giudizio l’U.S.L. n. (OMISSIS), costituendosi in persona del liquidatore, e l’AUSL n. (OMISSIS), oltre a contestare il fondamento delle avverso domande, chiamavano in garanzia il B..

Costui, costituendosi a sua volta e adducendo di avere cessato di prestare servizio presso l’Unita Operativa il 26 aprile 1996, contestava sia la domanda principale sia quella di manleva, eccependo il difetto di giurisdizione su quest’ultima, per essere sussistente la giurisdizione della Corte di Conti, ed il difetto di giurisdizione sulla domanda della C., per essere essa riconducibile alla giurisdizione del giudice amministrativo, poichè la C. aveva proposto cinque ricorsi davanti al Tar Toscana, impugnando gli atti dell’AUSL n. (OMISSIS) sui quali si fondava la pretesa risarcitoria.

5. Lo stesso B., in data 31 luglio 2003, proponeva ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione.

Il Giudice del Lavoro adito, nelle more della decisione del regolamento, non ravvisava ragioni per sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 367 c.p.c., ma, con ordinanza del 12 ottobre 2005, reputava l’inerenza alla propria competenza speciale soltanto della domanda di responsabilità contrattuale e ne tratteneva la cognizione, mentre, previa separazione, rimetteva gli atti al Presidente del Tribunale quanto alla domanda di responsabilità extracontrattuale, ritenendo che la sua trattazione dovesse avvenire secondo il rito ordinario.

Il Presidente del Tribunale assegnava la controversia in parte qua a magistrato addetto ai procedimenti ordinari e, a seguito della sua iscrizione a ruolo con un numero diverso da quello originario, il relativo giudizio veniva questa volta sospeso in attesa della definizione del regolamento preventivo.

6. La controversia rimasta davanti al giudice del lavoro veniva decisa con sentenza n. 84 del 21 aprile 2006, poi confermata in appello e passata in cosa giudicata. Con tale sentenza veniva accolta la domanda risarcitoria nei confronti dell’AUSL n. (OMISSIS) riguardo ai soli danni alla dignità ed all’immagine professionale ed all’indennità di turnazione, mentre veniva dichiarato il difetto di giurisdizione dell’a.g.o. quanto alla domanda di rivalsa dell’AUSL contro il B..

7. Successivamente alla lettura del dispositivo della citata sentenza livornese, avvenuta l’8 febbraio 2006, le Sezioni Unite di questa Corte, decidendo sul regolamento preventivo di giurisdizione con ordinanza n. 7986 del 6 aprile 2006, così statuivano:

aa) quanto alla domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno contrattuale prodotto dopo il 30 giugno 1998 dichiaravano la giurisdizione ordinaria ai sensi del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 1 e 2, nonchè del successivo art. 69, comma 7;

bb) quanto alla domanda relativa al danno extracontrattuale, dichiaravano la giurisdizione ordinaria “con riferimento a tutti i periodi, trattandosi di domanda fondata sul diritto civile comune ossia estranea al rapporto di pubblico impiego”;

cc) inoltre, dichiaravano “priva di ogni fondamento la tesi, sostenuta dalla controricorrente, secondo cui la controversia apparteneva alla giurisdizione della Corte dei Conti, trattandosi di azione di rivalsa esercitata dalla pubblica amministrazione contro un dipendente per danno risarcito ad un privato”, osservando, in particolare, che “nella specie l’amministrazione sanitaria non esercita(va) alcuna azione di rivalsa contro il dipendente ma gli chiede(va) solo di essere garantita contro la pretesa del privato”.

8. A seguito di riassunzione operata dalla C., il giudizio di cognizione ordinaria rimasto pendente dinanzi al Tribunale di Livorno in sede ordinaria veniva deciso con sentenza n. 834 del 26 giugno 2008, la quale rigettava le domande della C..

9. Viceversa, con la sentenza qui impugnata la Corte d’Appello di Firenze, in riforma della sentenza del primo giudice, dopo avere respinto una serie di eccezioni: 1a) ha condannato la Gestione Liquidatoria della cessata U.S.L. n. (OMISSIS) di Livorno e la Regione Toscana al pagamento a favore della C., a titolo risarcitorio, della somma di Euro 243.960,27 oltre interessi legali dalla pubblicazione al saldo; 1b) ha condannato l’AUSL n. (OMISSIS) di Livorno a pagamento di Euro 165.456,00 oltre interessi con la stessa decorrenza; 1c) ha condannato il B. a tenere indenne in rivalsa la detta Gestione totalmente e l’AUSL n. (OMISSIS) nella misura di Euro 72.589,45 sempre con interessi dalla pubblicazione; 1d) nel resto ha confermato la sentenza di primo grado.

10. Al ricorso per cassazione della Gestione Liquidatoria e dell’AUSL n. (OMISSIS), che si fonda su sei motivi, hanno resistito: a1) la C., con controricorso nel quale ha svolto ricorso incidentale affidato ad un unico motivo; b1) il B., con controricorso nel quale ha svolto ricorso incidentale affidato a nove motivi, dei quali i primi due pongono questioni inerenti alla giurisdizione.

11. Le ricorrenti principali hanno notificato congiuntamente un controricorso per resistere al ricorso incidentale della C. e sempre congiuntamente altro ricorso per resistere al ricorso incidentale del B.. La C., a sua volta ha resistito con controricorso al ricorso incidentale del B.. Il B. ha resistito con controricorso al ricorso della C..

12. Tutte le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale l’impugnata sentenza della corte d’appello è censurata per avere confermato l’ordinanza con la quale il giudice del lavoro in primo grado aveva modificato il rito per la trattazione della (ritenuta) domanda extracontrattuale. Secondo la ricorrente sarebbe invece occorsa una pronuncia di mutamento di rito da parte del giudice d’appello il quale, qualificata la causa come causa di responsabilità contrattuale, avrebbe dovuto dichiarare la giurisdizione amministrativa essendo gli episodi asseritamente lesivi tutti precedenti al 30 giugno 1998 (data di spartiacque del riparto di giurisdizione, secondo la disciplina transitoria dettata del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 7).

1.1. Il motivo non è accoglibile, benchè la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta perchè il giudice d’appello si è pronunciato in manifesta violazione dell’esistenza di un giudicato interno formatosi per effetto della decisione del primo giudice.

Infatti la qualificazione come extracontrattuale della responsabilità per le vicende anteriori al 30 giugno 1998 era stata ritenuta dal Tribunale di Firenze in funzione di giudice del lavoro nell’ordinanza di cambiamento del rito processuale quanto alla relativa domanda, ed il Tribunale di Firenze in sede ordinaria, a seguito del mutamento del rito, ha trattato espressamente la causa sulla base della qualificazione data dal giudice del lavoro senza porla in discussione.

In presenza dell’adozione esplicita da parte della sentenza di primo grado di una qualificazione della domanda come imperniata su una responsabilità extracontrattuale, il decisum, là dove venne reso sulla base di essa, sebbene con un rigetto della domanda, sarebbe stato ridiscutibile dalla parte rimasta vittoriosa in senso pratico nell’esito finale della lite, soltanto con la proposizione di un appello incidentale condizionato in seno all’appello principale della controparte. Appello incidentale condizionato diretto a far valere la soccombenza c.d. virtuale sulla questione di qualificazione (si veda, in argomento, Sez. un. n. 11799 del 2017).

Viceversa, le attuali ricorrenti, resistendo all’appello principale, si limitarono a prospettare la questione in via di eccezione, cioè per il tramite dell’istituto della c.d. riproposizione, di cui all’art. 346 c.p.c..

Ne segue che la corte territoriale avrebbe dovuto rilevare che la riproposizione come eccezione della questione di qualificazione era mezzo inidoneo a consentirne il riesame e considerare che, in mancanza di appello incidentale condizionato, su quella questione si era formata la cosa giudicata interna a norma dell’art. 329 c.p.c., comma 2, indipendentemente dal fatto che la questione di qualificazione della domanda è esaminabile d’ufficio dal giudice e non solo su rilievo di parte. Sicchè, è per tale ragione che l’eccezione (rectius: la questione) si sarebbe dovuta disattendere nel senso della sua inammissibilità per essersi formata cosa giudicata interna, piuttosto che con la motivazione resa dalla corte fiorentina.

Quest’ultima deve perciò esser corretta su questo punto (essendo condivisibile il principio di diritto, già affermato da Cass. n. 15810 del 2006 e, quindi, da altre decisioni delle Sezioni Semplici), tenuto conto che deve ritenersi configurabile il potere della Corte di Cassazione di correzione della motivazione della sentenza impugnata anche in relazione ad un error in procedendo, fermi restando anche in tal caso come nella specie – i limiti della non necessità di indagini di fatto (ulteriori rispetto a quelle che la Corte di Cassazione può compiere sul fascicolo, come di norma, nell’esame di detto “error”) e del rispetto del principio dispositivo (dovendosi trattare di fatti ed eccezioni rilevati dalle parti o rilevabili d’ufficio).

1.2. Si deve aggiungere altresì che la questione di giurisdizione sollevata in via consequenziale nel motivo di ricorso, se non stata fosse decisiva la disposta correzione della motivazione, sarebbe risultata comunque ormai preclusa dall’ordinanza emessa da queste Sezioni unite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, già menzionata nella parte espositiva della presente sentenza. In particolare, un ipotetico appello incidentale condizionato si sarebbe dovuto rigettare comunque per tale ragione.

2. Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 28 Cost. e art. 2049 c.c.. E’ censurata l’estensione alle aziende ricorrenti della responsabilità per i comportamenti illeciti tenuti dal proprio dipendente B.. In realtà la critica investe la sentenza impugnata solo là dove si è occupata della condotta del B. di natura sessuale e non dell’altra di abuso di ufficio.

2.1. In una prima parte la censura è imperniata sull’assunto della qualificazione contrattuale della responsabilità delle qui ricorrenti, che si sostiene avrebbe dovuto essere discussa ai sensi dell’art. 2087 c.c., cioè in termini di c.d. condotte protettive e non ai sensi dell’art. 2049 c.c.. Tuttavia, non solo si omette di specificare dove e come i giudici della sentenza impugnata fossero stati investiti di una siffatta prospettazione, ma si fa riferimento ad una serie di circostanze fattuali e ad un atto (il ricorso al t.a.r.) sui quali essa si fonda senza rispettare l’onere di indicazione specifica di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6. Inoltre, la censura denuncia l’omessa considerazione di fatti al cui esame la corte territoriale non avrebbe dovuto procedere a giusta ragione, tenuto conto di quanto osservato a proposito del primo motivo a proposito della mancata proposizione dell’appello incidentale condizionato diretto a censurare la qualificazione extracontrattuale della responsabilità.

2.2. In una seconda parte dell’illustrazione del motivo, che inizia con il punto 2. della pagina 11 del ricorso, si dichiara di porsi nella logica della responsabilità delle ricorrenti ai sensi dell’art. 2049 c.c. e art. 28 Cost. e si imputa alla corte territoriale di avere erroneamente inteso il nesso di occasionalità necessaria, che deve essere escluso quando il dipendente “non abbia perseguito finalità coerenti con le mansioni che gli furono affidate, ma finalità proprie, alle quali il committente non sia neppure immediatamente interessato o compartecipe”. Essendo pacifica, nel caso di specie, l’inesistenza di un qualche interesse anche mediato, dell’Usl odierna ricorrente, nelle molestie sessuali inflitte, in ipotesi, dal Prof. B. alla Dott.ssa C., se ne deduce che il nesso di c.d. occasionalità necessaria non avrebbe potuto essere ravvisato.

2.2.1. La censura è inammissibile, in quanto non presenta una struttura idonea a consentire l’esame della proposta quaestio iuris in tema di occasionalità necessaria in relazione all’ipotesi di responsabilità di cui all’art. 2049 c.c..

Infatti, i ricorrenti hanno omesso di individuare la motivazione della sentenza impugnata in cui si anniderebbe l’error iuris in punto di occasionalità necessaria tra il contesto e la condotta illecita esplicata dal primario e le mansioni ed i poteri affidatigli dalla p.a., “grazie ai quali il B. aveva ottenuto di potersi appartare con l’attrice in luogo soggetto per l’accesso altrui al suo consenso, per poi insidiare la sottoposta”. Si deve, infatti considerare che l’unico passo motivazionale della sentenza impugnata evocato dall’illustrazione del motivo e, quindi, da intendersi oggetto di critica è quello in cui essa afferma la sussistenza dell’occasionalità necessaria, “a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, peraltro senza minimamente soffermarsi sul contenuto delle condotte concrete”. Ebbene, tale affermazione sottende la conclusione di un ragionamento che la corte fiorentina ha svolto precedentemente e del quale nell’illustrazione del motivo si omette del tutto l’individuazione, con conseguente difetto di specificità (Cass., Sez. Un. n. 7074 del 2017) e chiarezza (Cass., Sez. Un. n. 8077 del 2012) del motivo.

Si deve rilevare che prima del passo riportato, la corte fiorentina ha effettivamente esposto considerazioni che si sono articolate dalle ultime otto righe della pagina 9 sino alle prime undici della pagina 12. Si ha, quindi, conferma che il passo motivazione riportato dal motivo è stato preceduto da un articolato ragionamento, del quale le ricorrenti avrebbero dovuto farsi carico evocandolo e criticandolo specificamente.

In realtà il motivo di ricorso accumula rilievi in diritto a considerazioni che attengono all’accertamento ed alla valutazione dei fatti: il che, per un verso, priva le doglianze in diritto di sufficiente specificità e, per altro verso, sembra non tener conto della natura stessa del giudizio di legittimità, quasi fosse un terzo grado di merito.

Si deve anzi rilevare che, benchè verbalmente riferita alla violazione dell’art. 2049 c.c., la dedotta censura non consente di individuare un error iuris in punto di applicazione del concetto di occasionalità necessaria ma si sostanzia in una serie di considerazioni che, al più, varrebbero a mettere in dubbio la adeguatezza della motivazione con cui, in punto di fatto, la corte di merito ha ravvisato l’esistenza di un tal nesso di necessaria occasionalità tra i comportamenti posti in essere dal dipendente e la funzione da lui esercitata nell’ambito dell’ufficio. Ma, in questi termini, la doglianza, piuttosto che connotarsi come censura di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2049 c.c., almeno sotto il profilo del c.d. vizio di sussunzione, finisce per rivelarsi come censura relativa alla ricostruzione della quaestio facti e così apprezzata fuoriesce anche dall’ambito applicativo del novellato art. 360 c.p.c., n. 5. Ed inoltre non considera il profilo, appunto inerente le valutazioni relative alla ricostruzione del fatto, dell’esistenza eventuale di comportamenti degli organi delle ricorrenti di omissione di interventi pur nella consapevolezza dell’utilizzo da parte del B. del contesto lavorativo per i fatti delittuosi a sfondo sessuale.

3. Con il terzo motivo si sostiene – deducendo violazione dell’art. 445 c.p.p., comma 1-bis – che le molestie sessuali lamentate dalla C. ed imputate al B. non avrebbero potuto ritenersi provate sulla base della sola sentenza di patteggiamento emessa nei confronti di quest’ultimo.

3.1. Orbene, la sentenza impugnata si è effettivamente soffermata a discutere della questione, ma erroneamente, perchè la possibilità di discutere del valore della sentenza di patteggiamento non le era stata ritualmente devoluta.

Infatti, l’avviso espresso dal Tribunale in ordine alla ascrivibilità al B. delle condotte oggetto di sentenza di patteggiamento avrebbe potuto essere riesaminato solo se le ricorrenti, vittoriose quanto all’esito finale della lite, ma soccombenti in ordine a quella ascrivibilità, avessero proposto un appello incidentale condizionato.

Invero, la lettura della sentenza di primo grado, presente nel fascicolo di ufficio, evidenzia che il Tribunale – dopo avere ricordato le imputazioni subite dal B. e la conclusione del procedimento penale con la sentenza di patteggiamento del 21 marzo 1997 – si era espressa, a pagina 9, in questi termini: “al riguardo, occorre premettere che, anche a prescindere dall’esistenza del principio secondo cui il giudice può utilizzare, per la formazione del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un diverso processo, una volta che la relativa documentazione sia stata prodotta, la sentenza penale di applicazione della pena ai sensi della 444 c.p.p. (cosiddetto patteggiamento) costituisce indiscutibilmente elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pur non essendo oggetto di una statuizione assistita dal giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile (vedi Cass. civ., Sez. 1, 22/12/2004, n. 23771. Ritenuta pertanto la valenza probatoria nell’odierno giudizio del riconoscimento della responsabilità del B. in relazione ai reati contestatigli….”.

Stante il tenore della sentenza di primo grado, le qui ricorrenti, vittoriose in senso pratico, ma soccombenti in senso virtuale sull’affermazione di esistenza della prova della responsabilità penale in forza della ritenuta efficacia probatoria della sentenza di patteggiamento, avrebbero avuto l’onere di proporre appello incidentale condizionato, questa essendo condizione necessaria perchè il giudice d’appello potesse riesaminare la questione. Invece, esse si limitarono alla c.d. mera riproposizione, mezzo del tutto inidoneo.

La questione posta con il motivo in esame evidenzia allora e nuovamente una situazione nella quale la motivazione della sentenza impugnata dev’essere corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

4. Con il quarto motivo si fa valere, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 2043 e dell’art. 2727 c.c. e si intende discutere la responsabilità affermata dalla sentenza impugnata per le voci di danno richieste dalla C. in relazione ad atti e comportamenti adottati dall’azienda sanitaria, la maggior parte a firma del Dottor B..

4.1. Il motivo non risulta nei vari punti con i quali si commentano gli atti ed i documenti evocati, articolato in modo idoneo ad evidenziare il vizio di violazione dell’art. 2727 c.c..

La deduzione della violazione dell’art. 2727 cod. civ. è fatta manifestamente con riferimento al modo in cui la sentenza impugnata ha utilizzato c.d. presunzioni semplici e, quindi, a quelle cui allude l’art. 2729 c.c., ancorchè tale norma non venga formalmente evocata.

Ora, la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare (come altrove venne sostenuto: Cass. n. 17457 del 2007; successivamente, Cass. n. 17535 del 2008; di recente: Cass. n. 19485 del 2017) sotto i seguenti aspetti:

aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius:fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;

bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.

Con riferimento a tale secondo profilo, si rileva che, com’è noto, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B (non è condivisibile, invece, l’idea che vorrebbe sotteso alla “gravità” che l’inferenza presuntiva sia “certa”).

La precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti.

La concordanza esprime – almeno secondo l’opinione preferibile – un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta. Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.

4.1.1. In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi.

4.1.2. Di contro la critica al ragionamento presuntivo svolto da giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali).

In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite, (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria.

4.1.3. Ebbene, la lunga illustrazione del motivo non prospetta la falsa applicazione dell’art. 2729, comma nei termini su indicati, ma si risolve talora solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione agli oggetti dei vari documenti dell’elenco iniziale sopra ricordato.

Ne segue che il motivo non presenta le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1 e nemmeno, pur riconvertito alla stregua di Cass., Sez. Un., n. 17931 del 2013, quelle di un motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

5. Il quinto motivo deduce “violazione degli artt. 2043 e 1227 c.c.”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

L’esordio del motivo dichiara che in esso si vuole argomentare “che in questa causa manca la prova e prima ancora l’allegazione, dei danni il cui risarcimento è stato chiesto ex adverso, come esattamente aveva rilevato il Tribunale”, così rivelando di voler porre una censura di mancanza di prova e non in iure.

In effetti la censura, dopo aver riepilogato in via del tutto generale lo stato della giurisprudenza in proposito, si addentra in considerazioni attinenti al governo che la corte di merito ha fatto delle risultanze di causa, risolvendosi nell’assunto secondo cui la parte avversaria non avrebbe allegato e provato alcuno dei danni richiesti. In tal modo si finisce però per richiedere un riesame delle risultanze probatorie in questa sede non consentito.

Le critiche rivolte a questo proposito alla motivazione dell’impugnata sentenza neppure possono, d’altronde, essere qui prese in considerazione, non solo e non tanto perchè l’intestazione del motivo di ricorso fa riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 (e non n. 5), quanto perchè non individuano un omesso esame di fatti decisivi e quindi non corrispondono al modello legale del citato art. 360, n. 5.

Tanto si osserva non senza doversi pure rilevare che in più punti della lunga esposizione del motivo si fa riferimento alla motivazione o non correlandosi alla sua effettività, o in modo assolutamente generico o senza individuare la parte di essa che determinerebbe il vizio denunciato (Cass., Sez. Un. n. 7074 del 2017), mentre in altri non si rispetta l’art. 366 c.p.c., n. 6.

6. Con un ultimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 1226 c.c. e, poichè ci si limita ad una mera affermazione (“Trattandosi di danno non patrimoniale, la liquidazione è giocoforza avvenuta in via equitativa, da parte della Corte territoriale; sennonchè, ciò non l’avrebbe esentata dal manifestare i criteri della suddetta liquidazione, così da renderla verificabile. Ciò non è avvenuto, donde questo ulteriore motivo di ricorso”), è inammissibile per la sua assoluta genericità argomentativa e per l’assenza di individuazione della motivazione della sentenza impugnata che determinerebbe il vizio.

7. Il ricorso principale è, conclusivamente, rigettato.

8. Con l’unico motivo del suo ricorso incidentale la C. deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, “omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le arti e abbia carattere decisivo”.

Il motivo concerne la negazione fatta dalla sentenza impugnata del riconoscimento alla C. di un danno quanto all’immagine pubblica al di fuori dell’ambiente di lavoro.

Il motivo non individua la motivazione della sentenza impugnata sul punto, ma, dopo una prima affermazione, che risulta incomprensibile, dato che vi si parla di considerazione pubblica nell’ambito ospedaliero, fa un generico riferimento a non meglio identificati giornali ed a quelli che definisce i loro “titoloni”, ma omette di fornire riguardo a tali risultanze l’indicazione specifica di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6. Si limita, poi, a riprodurre un passo dell’atto di appello evocativo della pubblicazione di un articolo di giornale.

La prospettazione è del tutto generica e, se si confronta con la pur breve motivazione della sentenza impugnata, non appare nemmeno ad essa pertinente. La sentenza ha, infatti, affermato a pag. 35: “Non risulta invece la prova di danni all’immagine al di fuori dell’ambiente di lavoro; gli unici articoli di giornale prodotti concernono soltanto condanne penali per errori medici del primario e di colleghi oltre che la notizia della sentenza ex art. 444 c.p.p. a carico di B.”. Quindi ha ritenuto le produzioni documentali non pertinenti ed occorreva, nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dimostrare il contrario.

A quanto osservato v’è da aggiungere che la prospettazione non denuncia in alcun l’omesso esame di fatti, dato che tali non sono certamente le deduzioni argomentative della conclusionale.

8.1. Il ricorso incidentale è, pertanto, rigettato.

9. Con il primo motivo del suo ricorso incidentale il B. censura la sentenza impugnata là dove ha ritenuto inammissibile la sua eccezione di sussistenza della giurisdizione della Corte dei Conti sulla domanda di manleva esercitata dalle ricorrenti principali.

9.1. La decisione impugnata è corretta attesa l’efficacia di statuizione sulla giurisdizione dell’a.g.o. certamente da riconoscesi alla pronuncia di queste Sezioni Unite, la quale, come emerge dalla motivazione della sentenza impugnata e come questa Corte può verificare trattandosi di propria decisione, aveva – al contrario di quanto afferma il B. – statuito anche sull’esclusione della giurisdizione contabile, in particolare osservando che: “è priva di ogni fondamento la tesi, sostenuta dalla controricorrente, secondo cui la controversia apparterebbe alla giurisdizione della Corte dei Conti, trattandosi di azione di rivalsa esercitata dalla pubblica amministrazione contro un dipendente per danno risarcito ad un privato: nella specie l’amministrazione sanitaria non esercita alcuna azione di rivalsa contro il dipendente ma gli chiede solo di essere garantita contro la pretesa del privato”.

Tale statuizione, ancorchè fatta a seguito di una questione posta con il controricorso avverso il ricorso del B., che aveva chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo, ha individuato, con l’efficacia definitiva propria delle statuizioni rese dalle Sezioni Unite in sede di regolamento, la giurisdizione su tutta la controversia in quella ordinaria e ciò anche quanto alla domanda di garanzia.

Del resto, le Sezioni Unite, anche a prescindere dalla sollecitazione rivolta dalla C., avrebbero ugualmente dovuto statuire anche sulla domanda di rivalsa.

Il motivo è, pertanto, rigettato.

10. Con il secondo motivo il B.: a) sostiene anzitutto la sussistenza della giurisdizione amministrativa con riferimento all’azione risarcitoria in relazione ai fatti anteriori al 30 giugno 1998; b) quindi, con una seconda lapidaria prospettazione, adombra che si fosse formato, per effetto delle decisioni del giudice amministrativo, un giudicato sulla giurisdizione di quel giudice.

10.1. La censura nuovamente si risolve in una inammissibile pretesa di porre in discussione la giurisdizione del giudice ordinario nonostante su di essa queste Sezioni Unite abbiano statuito con l’ord. n. 7986 del 2006.

Per ciò solo è manifestamente priva di fondamento.

Tanto si rileva non senza doversi rimarcare che, avendo il giudice di primo grado espressamente e doverosamente preso atto (nell’esordio della sua motivazione) che la giurisdizione era stata sancita da quell’ordinanza, ogni possibilità di discutere al riguardo supponeva da parte del B. (chiamato in causa in garanzia e, quindi, abilitato a contestare il modo di essere del rapporto giuridico principale fra la C. e le aziende sanitarie) la proposizione di un appello incidentale condizionato (destinato comunque a cattiva sorte, stante l’efficacia della citata ordinanza), dato il rigetto della domanda principale, dei cui effetti beneficiava quale chiamato in garanzia.

Risulta allora così anche pienamente comprensibile perchè la sentenza impugnata nulla abbia detto sulla questione di cui alla censura.

10.2. Un’ulteriore censura viene argomentata, questa volta con riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, là dove essa ha escluso si configurasse una c.d. pregiudiziale amministrativa: tale censura è inammissibile, perchè non si fa carico di criticare la motivazione della sentenza impugnata (Cass. Sez. Un. n. 7074 del 2017). Infatti, pure avendola evocata all’inizio della illustrazione dell’intero motivo, là dove essa si è espressamente richiamata all’insegnamento di Cass. sez. un. n. 500 del 1999, lo svolgimento della censura ignora completamente questo riferimento alla sentenza n. 500 del 1999, giusto o sbagliato che sia stato. Ci si limita, infatti, ad evocare decisioni del giudice amministrativo e di un giudice ordinario di merito senza fare alcun riferimento alla suddetta sentenza e senza spiegare come e perchè sarebbero pertinenti rispetto ai principi da essa affermati.

D’altro canto, la valutazione della pregiudiziale avrebbe supposto una precisa individuazione dei fatti riguardo alla quale si sarebbe configurata, che, quindi, avrebbero dovuto essere individuati in modo puntuale e nella loro correlazione con i provvedimenti delle amministrazioni sanitarie. Invece a questa Corte non è stata offerta alcuna precisazione al riguardo, essendovi stata, nell’illustrazione della precedente censura, l’individuazione di giudizi impugnatori davanti al t.a.r. e fra l’altro senza la localizzazione dei relativi riferimenti.

11. Con il terzo motivo si denuncia “l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio” e si insiste nel sostenere l’estraneità del B. ai fatti di molestia sessuale addebitatigli.

Il motivo risulta inammissibile già in base alla sua intestazione, in quanto deduce il vecchio paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e non quello introdotto dalla riforma del 2012. Inoltre, là dove afferma che su alcuni punti l’impugnata sentenza sarebbe priva di motivazione, si astiene dall’indicare, con riferimenti all’amplissima parte della motivazione riprodotta, quali sarebbero questi punti.

11.1. Tanto implica che il motivo sia strutturalmente inidoneo ad assumere la funzione di critica alla sentenza impugnata e ciò a(di là della sua caratterizzazione come critica non ispirata a quanto è consentito dal paradigma del n. 5 vigente.

Là dove poi il ricorrente si duole che il primo giudice non avrebbe accertato le condotte di reato limitandosi a fare riferimento alla sentenza di patteggiamento, è sufficiente richiamare quanto già detto esaminando il ricorso principale.

Ed infatti il motivo sotto tale profilo indugia su una questione sulla quale la statuizione del giudice di primo grado avrebbe dovuto essere impugnata anche dal B. con appello incidentale condizionato, tanto che, come s’è detto, la corte territoriale avrebbe dovuto omettere di farsi carico delle contestazioni proposte al riguardo con la c.d. mera riproposizione.

12. Con il quarto motivo viene di nuovo prospettata “un’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, con riferimento all’illiceità delle condotte contestate diverse da quelle esaminate dalla sentenza ex art. 444 c.p.p., in mancanza del previo annullamento degli atti amministrativi presupposti dinanzi al Giudice amministrativo.

12.1. Anche per tale motivo vale quanto sopra osservato in ordine al mutato paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè in ordine alla mancata specifica individuazione del preteso fatto di cui si sarebbe omesso l’esame.

Ne discende che tali censure sarebbero per ciò solo inammissibili.

12.2. Si evoca altresì nuovamente il problema della pregiudiziale e, dunque, una quaestio iuris, ma anche in questo caso senza che si faccia constare, in modo rispettoso dell’art. 366 c.p.c., n. 6, quali erano i comportamenti per cui era stata proposta l’azione risarcitoria dalla C., riguardo ai quali avrebbe assunto rilievo pregiudicante l’impugnazione di provvedimenti amministrativi. Infatti, si fa generico riferimento alle sentenze del t.a.r. Toscana che dichiararono improcedibili giudizi instaurati dalla C. e accolsero parzialmente uno di essi. Di modo che l’apprezzamento della questione di c.d. pregiudizialità dovrebbe farsi senza una precisa e chiara individuazione degli oggetti rispetto ai quali procedere al relativo apprezzamento.

12.3. In ogni caso, quando pure fosse superabile l’esposto rilievo, l’inammissibilità della seconda censura del secondo motivo renderebbe comunque ulteriormente inammissibile la doglianza.

13. Considerazioni analoghe valgono per il quinto ed il sesto motivo, che nuovamente denunciano vizi di motivazione dell’impugnata sentenza (in punto di accertamento e di quantificazione del danno) in termini meramente assertori e generici e senza tener conto della vigente formulazione del più volte citato art. 360, n. 5.

I motivi, di contenuto assertivo, sono, pertanto, inammissibili.

14. Con un settimo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c., ma, poichè l’attività illustrativa si riduce all’affermazione che “nel caso di specie, trattandosi di danni non patrimoniali, la liquidazione è stata fatta in via equitativa dalla Corte d’Appello, che però avrebbe dovuto esplicitare i criteri di liquidazione, al fine di rendere verificabili e comprensibili gli importi”, nonchè a quella ulteriore “ma così non è stato con la conseguenza che la sentenza è viziata anche sotto questo ulteriore profilo”, anche in questo caso valgono i rilievi di inammissibilità appena svolti a proposito dei precedenti motivi.

15. L’ottavo motivo è articolato in più censure (sei submotivi), tra loro non ben coordinate e che nuovamente sovrappongono profili di diritto e considerazioni di merito non prospettabili in questa sede.

L’illustrazione sostiene i primo luogo che la pronuncia sarebbe viziata nella parte in cui afferma quanto poi viene fatto constare con la riproduzione, dall’ottavo rigo della pagina 54 sino al sesto della pagina 56, di una parte della motivazione della sentenza.

Segue l’affermazione che “l’assunto, come palesemente risulta dalle deduzioni sin qui svolte in riferimento agli (altri) motivi, appare infondato. Quanto si qui esposto risulta assorbente ed idoneo a definire il giudizio sotto il profilo della chiamata in causa del prof. B.”.

Successivamente, contraddicendo tale assunto, si prosegue, però, fino alla pagina 62 con cinque paragrafi, che, pur senza che lo si dica, dovrebbero argomentare gli indicati submotivi.

15.1. Con una prima censura che appare correlata al secondo submotivo (e non all’intestato primo submotivo) si lamenta che la corte territoriale, pur dando atto che in primo grado, in sede di precisazione delle conclusioni, la difesa dell’USSL-AUSL si era limitata a chiedere il “rigetto delle domande attoree” senza nulla dire sulla domanda di garanzia contro il B., abbia escluso che queste domanda fosse stata abbandonata. L’erroneità della motivazione viene sostenuta invocando Cass. n. 16840 del 2013 e Cass. n. 2093 del 2013.

15.2. La motivazione oggetto di critica – enunciata dalla Corte territoriale, dopo avere rilevato che nel verbale di udienza di precisazione delle conclusioni effettivamente la difesa dell’AUS e dell’USL aveva semplicemente chiesto il rigetto delle domande attoree e che tuttavia la domanda di manleva verso il B. era stata insistita nei successivi scritti ai sensi dell’art. 190 c.p.c. – ha avuto il seguente tenore: “Ora, secondo costante giurisprudenza di legittimità, affinchè una domanda possa ritenersi abbandonata dalla parte non è sufficiente che essa non venga riproposta nella precisazione delle conclusioni, costituendo tale omissione una mera presunzione di abbandono, dovendosi, invece, necessariamente accertare se, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla domanda pretermessa (in termini recentemente Cass. n. 15860/2014. Nella fattispecie la difesa USL-AUSL aveva appositamente chiamato in giudizio B.F. per manleva e non aveva mai, nel corso del primo grado, espresso dubbi sul mantenimento della propria volontà di essere garantita. L’istruttoria era stata documentale e nulla di diverso sulla posizione di B.F. nella vicenda risulta emergere dai documenti acquisiti dopo gli atti introduttivi. Si è già detto infine che la chiamante ha nuovamente insistito nella manleva. Dal complesso della condotta processuale di USL-AUSL, inserita nel contesto descritto, si trae univocamente la dimostrazione che la detta omissione all’udienza di p.c. è stata una mera svista, non manifestante alcuna implicita volontà di abbandono della domanda di garanzia”.

Si tratta di una motivazione sostanzialmente corretta, là dove invoca il principio di diritto di cui a Cass. n. 15860 del 2014, il quale, peraltro, trova riscontro in un non recente precedente delle Sezioni Unite: Cass., Sez. Un. n. 6033 del 1984, secondo cui “L’omessa riproposizione, in Sede di precisazione delle conclusioni, di una domanda in precedenza formulata, non è di per sè sufficiente a farne presumere la rinuncia o l’abbandono, dovendosi ciò escludere qualora la complessiva condotta della parte evidenzi l’intento di mantenere ferma la domanda medesima, nonostante detta materiale omissione”.

Questo precedente è stato enunciato in un’epoca in cui il regime processuale del processo di cognizione ordinario non era imperniato come invece, quello introdotto dalla L. n. 353 del 1990, che è applicabile al processo – sulla previsione del maturare di una serie di preclusioni e nel quale l’udienza di precisazione delle conclusioni, di cui all’allora art. 184 c.p.c., consentiva di precisare e modificare le conclusioni. In quel regime, un atteggiamento di mancata indicazione in sede di precisazione delle conclusioni di una conclusione in precedenza formulata, poteva assumere di per sè il significato di sintomo tendenziale di abbandono, cioè di riconoscimento tacito della infondatezza della domanda oggetto della conclusione non riproposta, tenuto conto proprio dell’ampia possibilità di ius variandi. Tuttavia, in ossequio alla buona fede processuale, rimaneva salva la verifica da farsi in relazione alla complessiva condotta della parte anteriormente a quel momento.

Nel vigore dell’attuale art. 189 c.p.c., che dopo la riforma della L. n. 353 del 1990 e successive modifiche, regola l’udienza di precisazione delle conclusioni, poichè la norma dice che le conclusioni debbono essere formulate nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o ai sensi dell’art. 183 c.p.c., il contenuto di conclusioni precisate in essa in modo più limitato di quelle di cui a dette sedi, con la mancata riformulazione di una domanda che lì era presente, potrebbe apparentemente considerarsi come significativo di un tacito abbandono di essa, perchè la norma avalla la possibilità di limitare le conclusioni pregresse. Ma potrebbe anche suggerire l’idea opposta, perchè potrebbe ex adverso opporsi che l’udienza di precisazione delle conclusioni esiga una specifica attività di riduzione dei petita.

Anche nel sistema vigente l’attribuzione effettiva di un significato di abbandono alla mancata riproposizione, proprio per questa incertezza evidenzia allora che è corretto il criterio di esegesi della mancata riproposizione che esige la sua necessaria considerazione al lume di altri elementi della condotta processuale della parte.

Il punto è che tanto nel vecchio regime quanto nel nuovo occorre aver chiaro che la condotta processuale della parte, rilevante per l’interpretazione delle conclusioni in cui sia stata omessa quella relativa ad una domanda, può e deve essere solo quella antecedente alla precisazione delle conclusioni e non anche quella successiva, espressa nelle conclusionali. E ciò per il caso che si debba ritenere mantenuta la domanda (infatti, se nella conclusionale si sostenesse che si è inteso abbandonare la domanda, poichè l’esito dell’abbandono sarebbe il suo rigetto, equivalendo essa a riconoscimento della sua infondatezza, nemmeno vi sarebbe problema di esegesi). La ragione è che la situazione inerente all’oggetto su cui le conclusioni si debbono intendere precisate interessa, a garanzia del contraddittorio, l’altra parte ed essa non può che vedere regolata la propria condotta da quello che può percepire, secondo un criterio di affidamento processuale, fino al momento in cui sono state precisate le conclusioni. Ne segue che, al contrario di quanto ha ulteriormente opinato nella sua motivazione la sentenza impugnata, il riferimento alla conclusionale risulta errato.

Avuto riguardo al caso di specie, tuttavia, si deve considerare che, allorquando la parte convenuta con la domanda principale abbia chiamato in garanzia un terzo per essere manlevata delle conseguenze della sua soccombenza sulla domanda principale, la circostanza che in sede di precisazione delle conclusioni essa si sia limitata a chiedere il rigetto di quest’ultima deve essere letta considerando che implica necessariamente la consapevolezza che il giudice potrebbe non accoglierla e che, dunque, la garanzia potrebbe venire in rilievo.

Sicchè, l’assenza di conclusioni sulla domanda di garanzia non può di per sè apparire significativa di un suo abbandono, ma anzi implica che quella domanda, per quell’eventualità, la si sia voluta mantenere. Siffatta interpretazione della conclusione di solo rigetto della domanda principale potrebbe essere messa in crisi solo se si vertesse in una situazione in cui il terzo chiamato, costituendosi, avesse contestato la stessa esistenza del rapporto di garanzia e il convenuto in via riconvenzionale, avesse chiesto l’accertamento dell’esistenza di tale rapporto con efficacia di giudicato e non solo in funzione della garanzia quanto alla soccombenza sul rapporto principale. In questo caso, poichè è lo stesso convenuto che alla chiamata in causa ha aggiunto detta richiesta e, quindi, una reconventio reconventionis, parrebbe ragionevole tendenzialmente escludere, di fronte ad una conclusione di solo rigetto della domanda principale, che la pretesa di garanzia si sia intesa mantenere.

Il secondo submotivo è, dunque, in definitiva rigettato, previa parziale correzione della motivazione quanto al riferimento alla conclusionale.

15.3. Sempre nel medesimo motivo il ricorrente incidentale sostiene che riguardo agli atti e ai fatti oggetto della responsabilità delle strutture sanitarie fino al momento della sua cessazione dal servizio del B., egli sarebbe stato estraneo alla loro adozione e al loro compimento.

L’assunto, al di là del suo carattere assertorio e della pretesa di dimostralo semplicemente facendo un generico riferimento a documenti riguardo ai quali non si ottempera all’art. 366 c.p.c., n. 6, si risolve nella sollecitazione alla Corte a controllare, tra l’altro senza un preciso riferimento alla motivazione della sentenza, la ricostruzione della quaestio facti. Le dedotte censure si collocano del tutto al di fuori dei contenuti assegnati da Cass. Sez. Un. nn. 8053 e 8054 del 2011 dell’art. 360, nuovo n. 5.

15.4. Considerazioni simili meritano i rilievi svolti nei paragrafi indicati con numerazione da 8.2 a 8.6 del ricorso e particolarmente sia per l’affermazione del ricorrente secondo cui la domanda della C. sarebbe risultata sfornita di prova quanto all’an ed al quantum, sia per quanto dedotto in ordine al collegamento tra i fatti di cui al patteggiamento e le vicende del rapporto di lavoro e circa la prova della responsabilità del B.: deduzioni che risultano assolutamente generiche ed assertive e come tali appaiono inammissibili, oltre a non essere formulate secondo i limiti indicati dalle Sezioni Unite per dell’art. 360, nuovo n. 5.

16. Il nono motivo afferisce al regime delle spese di lite, ma, in realtà si risolve nel semplice auspicio di quanto dovrebbe scaturire dall’applicazione dell’art. 336 c.p.c., comma 1, per il caso di cassazione della sentenza in accoglimento di alcuno dei motivi precedenti.

19. Il ricorso incidentale del B. è, conclusivamente, rigettato.

20. Tutti i ricorsi sono dunque rigettati.

21. Riguardo alle spese giudiziali, sia nel rapporto fra le ricorrenti principali e la C. sia nel rapporto fra il ricorrente incidentale B. e la C., esse seguono la soccombenza di detti soggetti a favore della C., ma nei limiti dei tre quarti del loro complessivo ammontare, così compensato il quarto residuo, stante la soccombenza della C. sul suo ricorso incidentale. Le spese si liquidano ai sensi del D.M. n. 55 del 2014. Nel rapporto processuale fra le ricorrenti principale ed il B. la soccombenza è riferibile a quest’ultimo, data la sua posizione di garante ed a maggior ragione per il rigetto del suo ricorso incidentale quanto all’ottavo motivo, con cui si tendeva a rigettare le conseguenze della manleva. Ritiene, tuttavia, il Collegio di far luogo in tale rapporto processuale alla compensazione per giusti motivi, attesa la complessità delle problematiche che nell’annosa controversie hanno riguardato il rapporto di manleva in relazione all’altrettale complessità della pretesa della C. rispetto alle garantite.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte sia delle ricorrenti principali, sia di ognuno delle parti ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta tutti i ricorsi. Condanna le ricorrenti principali e il ricorrente incidentale B. alla rifusione alla C., previa compensazione di un quarto, dei tre quarti delle spese del giudizio di cassazione, liquidate a carico delle ricorrenti principali in euro settemiladuecento, oltre duecento per esborsi, le spese generali al 15% e gli accessori come per legge, ed a carico del ricorrente incidentale B. nello stesso importo. Compensa le spese nel rapporto processuale fra le ricorrenti principali ed il B.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte sia delle ricorrenti principali, sia di entrambi i ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 9 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2018

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