Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17818 del 26/08/2020

Cassazione civile sez. III, 26/08/2020, (ud. 09/07/2020, dep. 26/08/2020), n.17818

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 298 del ruolo generale dell’anno 2019

proposto da:

P.T., (C.F.: (OMISSIS)), C.A.G. (C.F.:

(OMISSIS)), B.A., (C.F.: (OMISSIS)), CA.Ma., (C.F.:

(OMISSIS)), A.S., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentati e

difesi, giusta procura a margine del ricorso, dagli avvocati

Giovanni Domenico Pezzati, (C.F.: PZZGNN44T21F867K), e Claudio

Fassari, (C.F.: FSSCLD63M19H501A);

– ricorrenti –

nei confronti di:

BANCA NAZIONALE del LAVORO S.p.A., (C.F.: (OMISSIS)), in persona dei

rappresentanti per procura Massimo Castelnuovo, e Nicola Nuccorini,

quale rappresentante e mandataria di BNP PARIBAS, succursale

italiana (C.F.: (OMISSIS)), rappresentati e difesi, giusta procura

in calce al controricorso, dagli avvocati Fernando Pes, (C.F.:

PSEFNN62E271452K) e Francesca Pes (C.F.: PSEFNC60L48I452W);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Cagliari

n. 419/2018, pubblicata in data 2 ottobre 2018;

udita la relazione sulla causa svolta alla Camera di consiglio del 9

luglio 2020 dal Consigliere Dott. Augusto Tatangelo.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La BNL S.p.A. ha chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo per l’importo di Euro 526.452,36, oltre accessori, in virtù di un rapporto bancario, nei confronti della società Cooperativa Eurocoop (successivamente posta in liquidazione coatta amministrava), nonchè dei fideiussori P.T., C.A.G., B.A., Ca.Ma., A.S..

L’opposizione dei garanti è stata rigettata dal Tribunale di Sassari.

La Corte di Appello di Cagliari ha confermato la decisione di primo grado.

Ricorrono P.T., C.A.G., B.A., Ca.Ma., A.S., sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso la BNL S.p.A, quale rappresentante di BNP Paribas, succursale italiana.

Il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione della disciplina della fideiussione e del contratto autonomo di garanzia, dell’interpretazione del contratto – con particolare riguardo al disposto di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c. – delle clausole vessatorie ex art. 1341 c.c. e della disciplina a tutela dei consumatori – in particolare di quelle di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 33,34 e 36, Codice Consumo, e del disposto di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., ovverossia dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e travisamento delle prove”.

Viene contestata la decisione impugnata nella parte in cui la corte di appello:

a) ha confermato la qualificazione del rapporto, già operata dal giudice di primo grado, come contratto autonomo di garanzia e non come fideiussione;

b) ha respinto l’eccezione di decadenza dalla garanzia formulata ai sensi dell’art. 1957 c.c., avendo ritenuto la suddetta disposizione derogata per espressa volontà delle parti, in base a specifica clausola contrattuale;

c) ha escluso comunque la violazione, da parte della banca, dei principi di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto, in particolare affermando che la banca aveva chiesto l’adempimento alla debitrice principale ed agli stessi garanti e si era poi tempestivamente insinuata al passivo della liquidazione coatta amministrativa della debitrice principale, prima di agire in giudizio contro i garanti, pur non essendovi tenuta.

Il motivo è inammissibile, ancor prima che infondato.

Come eccepito dalla controricorrente, le censure difettano di specificità, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, sia per il modo generico ed approssimativo con il quale sono articolate, con la sovrapposizione di contestazioni di diversa natura, sia perchè non vi è la puntuale indicazione della fase processuale e delle modalità di produzione dei documenti su cui esse sono fondate, sia infine perchè non è adeguatamente richiamato lo specifico contenuto rilevante di detti documenti.

Quanto sin qui osservato ha carattere assorbente.

Per quanto è dato evincere dall’esposizione contenuta nel ricorso, peraltro, il motivo di ricorso in esame non potrebbe in nessun caso -trovare accoglimento, per le ragioni che seguono (che vengono illustrate a scopo di completezza espositiva).

1.1 I ricorrenti insistono, in primo luogo, sull’eccezione di decadenza dalla garanzia, per violazione dell’art. 1957 c.c., deducendo la nullità della clausola 6 del contratto stipulato, che prevede la deroga a tale disposizione, sull’assunto che si tratterebbe di clausola vessatoria in un contratto concluso con consumatori, come tale nulla ai sensi dell’art. 33, commi 1 e 2, lett. ra t), del codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206).

La questione è nuova e, come tale, inammissibile nella presente sede.

Non è in alcun modo precisato se, in che termini ed in quali atti del giudizio di merito essa sarebbe stata già sollevata (anzi, sembrerebbe pacifico che non sia stata affatto sollevata nel corso del giudizio di merito), e si tratta di questione che richiede necessariamente accertamenti di fatto, sia in relazione alla qualità di consumatori dei garanti, sia in relazione al carattere effettivamente vessatorio della clausola stessa (che si presume soltanto, in base all’art. 33, comma 2, del codice del consumo, ma va comunque sempre accertato in concreto).

Secondo i ricorrenti, la nullità potrebbe e dovrebbe essere rilevata anche di ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.

Secondo l’indirizzo di questa Corte, peraltro, benchè la nullità possa essere rilevata di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, occorre che siano acquisiti agli atti del giudizio tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l’esistenza (cfr., da ultimo: Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 20438 del 29/07/2019, Rv. 654889-01), il che nella specie è senza dubbio da escludere, in quanto, ai fini della valutazione della dedotta nullità – diversamente da quanto sostengono i ricorrenti – sarebbero necessari accertamenti di fatto, evidentemente non compatibili con il giudizio di legittimità.

Essendo la censura inammissibile, anche per la sua novità, ogni altra questione sul punto resta assorbita.

1.2 E’ inoltre riproposto l’assunto (già disatteso dai giudici di merito) per cui la clausola 8 del contratto di garanzia (in base alla quale, in caso di invalidità delle obbligazioni garantite, la garanzia è estesa alla restituzione delle somme comunque erogate) sarebbe nulla in quanto vessatoria ai sensi del codice del consumo, con la conseguenza che di essa non potrebbe tenersi conto nell’interpretazione della volontà negoziale, ai fini della qualificazione del contratto di garanzia come autonomo e non fideiussorio.

Da ciò viene fatta discendere la possibilità di proporre le eccezioni relative al rapporto principale: in proposito sono poi articolate argomentazioni relative alla pretesa violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte della banca, indistintamente riferite sia al rapporto principale che a quello di garanzia e fondate anche sulla generica denunzia di vizi di carattere processuale della decisione impugnata, dei quali non vi è alcun riscontro nella rubrica del motivo di ricorso.

Nella sostanza, i ricorrenti sostengono che la banca non avrebbe mai avvisato nè la debitrice principale nè essi garanti del mancato pagamento dei debiti di cui alle fatture oggetto delle anticipazioni garantite, dal momento della loro scadenza, e non avrebbe avvisato i garanti o chiesto il pagamento alla debitrice principale fino al momento della proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, in violazione dei principi di correttezza e buona fede, così recando pregiudizio alle loro ragioni.

E’ opportuno osservare in proposito che la corte di appello non ha affatto preso posizione sulla questione della validità della clausola n. 8 del contratto di garanzia, ritenendo che, anche a prescindere dal suo eventuale carattere vessatorio (e dalla sua validità), se ne dovesse tenere comunque conto ai fini della qualificazione del contratto.

Inoltre ha escluso la violazione del dovere di correttezza nell’esecuzione del rapporto contrattuale da parte della banca.

In proposito ha considerato che quest’ultima aveva inviato il 4 dicembre 2010 una lettera alla debitrice principale e ai garanti, e aveva poi chiesto l’ammissione al passivo della liquidazione coatta amministrativa della debitrice principale, prima di chiedere il decreto ingiuntivo. Tenuto conto del fatto che in base alle clausole contrattuali il rapporto di garanzia era da qualificarsi come autonomo e non vi erano obblighi di preventiva escussione del debitore principale nè obblighi informativi, i giudici di appello hanno quindi ritenuto che la condotta della banca non avesse affatto alterato l’equilibrio contrattuale.

Secondo i ricorrenti, invece, non si dovrebbe tener conto della lettera del 4 dicembre 2010, anche se essa era stata prodotta tempestivamente, perchè il relativo fatto (cioè la richiesta di pagamento) sarebbe stato allegato tardivamente (solo con la comparsa conclusionale di appello); inoltre, non dovrebbe attribuirsi alcun rilievo all’istanza di ammissione al passivo della debitrice principale, in quanto avvenuta quando essa era ormai in stato di decozione.

Si tratta di una pluralità di censure espresse in modo confuso, non adeguatamente specifico e con evidente sovrapposizione nella denunzia di vizi di natura diversa, ma in ogni caso inammissibili.

In primo luogo, è da ritenersi corretta la qualificazione del contratto di garanzia come autonomo, quale conseguenza, in diritto, di un accertamento di fatto compiuto dalla corte di appello in ordine alla precisa ricostruzione della volontà negoziale desumibile dall’intero contenuto dell’atto, accertamento sostenuto da adeguata motivazione, non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico e come tale non sindacabile in sede di legittimità (e comunque non censurata in modo adeguatamente specifico mediante l’indicazione di precise disposizioni normative di ermeneutica negoziale violate).

Tale qualificazione non è fondata esclusivamente sulla clausola n. 8 del contratto, ma sull’intero contenuto dello stesso, il che esclude che possa avere rilievo la eventuale invalidità della suddetta clausola n. 8. Nè del resto nel ricorso sono indicate in modo specifico le ragioni per cui, in mancanza della clausola n. 8, il contratto avrebbe dovuto avere necessariamente una diversa qualificazione.

Escluso che la garanzia possa qualificarsi come fideiussoria e confermato che essa era effettivamente da qualificare come autonoma, restano di conseguenza assorbite tutte le contestazioni relative alla pretesa violazione dell’obbligo di correttezza e buona fede della banca nell’attuazione del rapporto con la debitrice principale.

Anche sotto il profilo del rapporto con i garanti, peraltro, le suddette censure risultano inammissibili, in quanto ancora una volta esse si risolvono nella contestazione di accertamenti di merito operati dalla corte di appello sulla base della valutazione dei fatti storici principali emergenti dall’istruttoria svolta, e sostenuti da adeguata motivazione (non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non sindacabile nella presente sede) e nella richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove.

In particolare, è palesemente inammissibile la censura relativa alle considerazioni che la corte territoriale ha svolto con riguardo alla richiesta di pagamento operata nel dicembre 2010 dalla banca. Secondo i ricorrenti, sebbene il relativo documento fosse in atti sin dalla fase monitoria, di esso non si sarebbe potuto tener conto perchè il fatto non era stato oggetto di tempestiva allegazione da parte della stessa banca, ma era stato dedotto esclusivamente nella comparsa conclusionale in fase di appello.

Anche sotto questo profilo, vi è una chiara violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto non è espressamente richiamato nè il contenuto del documento, nè tanto meno il contenuto degli atti processuali della banca in cui – secondo i ricorrenti – sarebbe stata omessa l’allegazione del fatto.

2. Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui agli artt. art. 1283,2697 c.c., travisamento delle prove ed illogicità della motivazione”.

Viene contestata la decisione impugnata nella parte in cui la corte di appello: a) ha escluso l’illecita capitalizzazione degli interessi nella determinazione dell’importo preteso dalla banca; b) ha condannato gli opponenti alle spese del giudizio di appello, attestando la debenza del doppio contributo unificato (questa seconda censura viene però solo enunciata nella rubrica: essa non viene in alcun modo sviluppata nel motivo di ricorso; si tratta in sostanza di una richiesta di diversa regolamentazione delle spese di lite, in conseguenza dell’auspicato accoglimento del ricorso).

Il motivo è inammissibile.

La corte di appello, sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica di ufficio, ha accertato che l’importo richiesto dalla banca corrispondeva alle somme anticipate e non restituite dalla debitrice principale maggiorate esclusivamente degli interessi convenzionali dalla scadenza dell’obbligazione restitutoria, senza alcuna capitalizzazione.

Ha precisato che, anche se gli estratti conto prodotti dalla banca non consentivano, da soli, di individuare le fatture pagate e quelle rimaste insolute, il consulente tecnico di ufficio aveva potuto desumerlo dal contenuto di altri documenti prodotti da entrambe le parti e quindi aveva potuto rispondere con certezza al quesito relativo alla dedotta capitalizzazione degli interessi, escludendo che tale capitalizzazione fosse stata operata dalla banca.

Anche in questo caso, dunque, le censure si risolvono nella contestazione di accertamenti di fatto operati dalla corte di appello sulla base della valutazione dei fatti storici principali emergenti dall’istruttoria svolta, e sostenuti da adeguata motivazione (non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non sindacabile nella presente sede) e nella richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove.

Inoltre, la censura di violazione dell’artt. 2697 c.c., non risulta effettuata con la necessaria specificità, in conformità ai canoni a tal fine individuati dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, Rv. 640829-01, in motivazione).

3. Il ricorso è dichiarato inammissibile.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso;

– condanna i ricorrenti a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della società controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 6.200,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 9 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2020

 

 

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