Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17810 del 26/08/2020

Cassazione civile sez. III, 26/08/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 26/08/2020), n.17810

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 32138 del ruolo generale dell’anno

2018 proposto da:

S.E., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e difesa, giusta

procura allegata al ricorso, dagli avvocati Roberto Riccoboni,

(C.F.: RCCRRT35S01G224B), Giovanni De Davide, (C.F.:

DDGVNN70H23L840H), e Massimo Romanello (C.F.: RMNMSM56P22F205Y);

– ricorrente –

nei confronti di:

M.Z.A., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso, giusta

procura notarile allegata al controricorso, dagli avvocati Luca

Minoli, (C.F.: MNLLMS61A29F839O) e Sergio Fulco, (C.F.:

FLCSRG73B21F205C);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Bologna n.

1936/2018, pubblicata in data 30 agosto 2018 (e notificata in pari

data);

udita la relazione sulla causa svolta alla Camera di consiglio del 7

luglio 2020 dal Consigliere Dott. Augusto Tatangelo.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.Z.A. ha agito in giudizio nei confronti di S.E. per ottenere il rilascio di un immobile sito in (OMISSIS), alla stessa concesso in comodato.

La domanda è stata accolta dal Tribunale di Bologna.

La Corte di Appello di Bologna ha confermato la decisione di primo grado.

Ricorre la S., sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso il M..

Il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 1321 c.c., art. 1325 c.c., n. 1, art. 1326 c.c. e art. 1350 c.c., n. 2 e art. 301 c.p.c.”.

Con il secondo motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 100 c.p.c.”.

I primi due motivi del ricorso sono logicamente connessi e possono quindi essere esaminati congiuntamente.

Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

La corte di appello ha affermato sussistere, sia la legittimazione che l’interesse ad agire del M., avendo ritenuto che la sentenza della corte inglese prodotta dalla S. non contenesse statuizioni costitutive dell’effetto del trasferimento del diritto di usufrutto, vantato dal M. sull’immobile oggetto del comodato, alla società straniera Pikeville, ma si limitasse a prevedere l’obbligo del M. di operare detto trasferimento (in favore della società Pikeville o di altro soggetto da questa indicato) e non essendo del resto stata fornita prova dell’avvenuta attuazione del trasferimento.

Ha ritenuto inoltre che la perdurante titolarità “formale” del diritto di usufrutto in capo al M. fosse confermata dalla circostanza che gli amministratori della Pikeville avevano dato istruzioni a quest’ultimo di agire in giudizio nei confronti della comodataria per recuperare l’immobile nell’interesse della società.

Con il primo motivo, la ricorrente sostiene che la sentenza inglese prodotta in giudizio (della quale non contesta l’efficacia non costitutiva del trasferimento del diritto di usufrutto, come statuito dai giudici di merito) attesterebbe in realtà l’esistenza di un accordo tra le parti interessate (Pikeville da un lato, quale nuda proprietaria, e M. dall’altro, quale usufruttuario) diretto al trasferimento del suddetto diritto di usufrutto, accordo evidentemente raggiunto precedentemente (o al più contemporaneamente) all’emissione del provvedimento giudiziario e a suo dire idoneo di per sè a determinare detto trasferimento.

Con il secondo motivo, sostiene che la Corte di Appello avrebbe errato a ritenere che la circostanza che gli amministratori della società Pikeville avevano dato istruzioni a M. in ordine alle iniziative da assumere nei confronti della comodataria costituiva una conferma della perdurante titolarità del diritto in capo al medesimo M., in quanto, al contrario, la Pikeville poteva avere interesse ed essere legittimata a impartire tali istruzioni solo in quanto soggetto titolare del diritto di piena proprietà sull’immobile.

1.1 Con riguardo al valore da attribuire alla sentenza dell’Alta Corte di Giustizia – Tribunale delle Imprese di Londra in data 12 aprile 2017, la censura è inammissibile per difetto di specificità, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, ancor prima che infondata.

Secondo la ricorrente, poichè nella predetta sentenza si dà atto della sussistenza di un accordo delle parti in ordine al trasferimento dell’usufrutto sull’immobile, ne deriverebbe che il trasferimento stesso dovrebbe ritenersi attuato sulla base di tale accordo, risultante da atto scritto.

Orbene, in primo luogo, nel ricorso risultano trascritte esclusivamente poche righe del provvedimento giudiziario in questione, in base alle quali non è assolutamente possibile comprendere il suo effettivo contenuto e la ratio decidendi e, dunque, non è possibile valutare la fondatezza dell’assunto della ricorrente secondo cui da esso emergerebbe la sussistenza di un accordo delle parti in ordine alla volontà di un immediato trasferimento del diritto di usufrutto anzichè solo di un impegno a porne in essere il successivo trasferimento.

D’altra parte, è evidente che – a differenza di quanto sostiene la stessa ricorrente – la incontestata natura della sentenza di cui si discute, non costitutiva del trasferimento del diritto di usufrutto, ma contenente una mera statuizione attestante l’obbligo del M. di porre in essere tale trasferimento (peraltro in favore della società Pikeville o di altro soggetto da questa indicato), risulta logicamente incompatibile con l’esistenza di un precedente accordo tra le parti di per sè idoneo a trasferire quel diritto alla Pikeville: basti considerare che se Pikeville fosse stata già piena proprietaria dell’immobile non sarebbe stato certo possibile, sul piano logico e giuridico, imporre al M. l’obbligo di trasferire il diritto di usufrutto in suo favore (o addirittura in favore di un diverso soggetto da essa indicato).

1.2 Sulla base di quanto fin qui esposto, emerge con evidenza anche l’infondatezza delle argomentazioni contenute nel secondo motivo del ricorso.

Essendo il M. ancora titolare del diritto di usufrutto sull’immobile, benchè obbligato a trasferirlo alla Pikeville (già nuda proprietaria) o ad altro soggetto da questa indicato, non solo risulta innegabile l’interesse di quest’ultima di ottenerne la liberazione dalla comodataria, ma si spiega altresì la ragione per cui, non potendo provvedervi direttamente (in quanto non ancora titolare del diritto di usufrutto), abbia avuto la necessità di incaricare il M. stesso di farlo, in quanto soggetto ancora formalmente legittimato, naturalmente nel suo interesse sostanziale (o, quanto meno, anche nel suo interesse sostanziale).

Come correttamente rilevato dalla corte di appello, dunque, l’esistenza di tali istruzioni costituisce effettivamente una ulteriore conferma del fatto che la società Pikeville non aveva ancora acquisito la titolarità formale del diritto di usufrutto sull’immobile detenuto in comodato dalla S., titolarità ancora spettante al M. (pur obbligato al suo trasferimento). 2. Con il terzo motivo si denunzia “Violazione o falsa applicazione delle norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento all’art. 447 bis c.p.c., all’art. 421 c.p.c., come richiamato dall’art. 447 bis c.p.c., all’art. 2712 c.c., nonchè all’art. 23 del codice dell’amministrazione digitale (cad)”.

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Le censure riguardano la prova della disdetta del contratto di comodato da parte del M., che questi afferma di avere effettuato con due lettere raccomandate spedite dalla propria residenza estera, negli Emirati Arabi Uniti, a due diversi domicili della comodataria (quello effettivo in Bologna, dove la missiva le era stata consegnata, nonchè quello indicato nel contratto di comodato, in Reggio Emilia, dove la consegna non aveva potuto avere luogo), lettere che peraltro quest’ultima nega di avere mai ricevuto.

Emerge dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso che il M. aveva prodotto tre documenti a sostegno del proprio assunto per cui le raccomandate in questione erano state regolarmente inviate a mezzo del servizio postale degli Emirati Arabi Uniti, che entrambe contenevano la disdetta del contratto di comodato e che quella inviata presso l’indirizzo di Bologna era pervenuta nella sfera di conoscibilità della S., essendo stata regolarmente consegnata al destinatario (si tratta dei documenti 3, 4 e 5 allegati al ricorso di primo grado). Emerge altresì che, di fronte alla contestazione operata dalla S. ai sensi dell’art. 2712 c.c., con riguardo alla conformità della riproduzione delle risultanze del sito internet del servizio postale degli Emirati Arabi Uniti di tracciamento delle raccomandate, il giudice di primo grado aveva proceduto ad effettuare personalmente una verifica (che aveva avuto esito positivo), visitando personalmente il suddetto sito internet e dandone atto nel verbale di udienza.

La corte di appello ha ritenuto, in diritto, legittima la suddetta verifica effettuata dal giudice del tribunale, ai sensi degli artt. 213 e 421 c.p.c. e ha quindi confermato, in fatto, la decisione di primo grado sulla regolarità e tempestività della disdetta del comodato.

La ricorrente contesta la decisione in diritto, sostenendo in primo luogo che i documenti prodotti dall’attore non avrebbero avuto alcun valore e che, comunque, nè ai sensi dell’art. 213 c.p.c., nè ai sensi dell’art. 421 c.p.c., il giudice avrebbe potuto effettuare di ufficio e personalmente la verifica dell’esito dell’invio raccomandato accedendo al sito internet del servizio postale degli Emirati Arabi Uniti, senza neanche avvalersi di un consulente tecnico.

Nel ricorso, peraltro, non è in alcun modo richiamato lo specifico contenuto dei documenti del cui valore probatorio si discute, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

Tenendo conto dell’indirizzo di questa Corte, secondo cui “la produzione in giudizio di un telegramma, o di una lettera raccomandata, anche in mancanza dell’avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione, attestata dall’ufficio postale attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione dell’arrivo dell’atto al destinatario e della sua conoscenza ai sensi dell’art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della suddetta spedizione e sull’ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico” (Cass., Sez. 6 – L, Ordinanza n. 511 del 11/01/2019, Rv. 652130 – 01; Sez. L -, Sentenza n. 24015 del 12/10/2017, Rv. 646099 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 13488 del 20/06/2011, Rv. 618337 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 12954 del 04/06/2007, Rv. 597708 – 01), in mancanza dello specifico richiamo dell’effettivo contenuto dei documenti prodotti non è possibile accedere al merito delle censure avanzate dalla ricorrente.

D’altra parte, in diritto, le risultanze del sito internet del gestore del servizio postale in ordine all’esito della spedizione di una lettera raccomandata semplice (senza avviso di ricevimento) costituiscono certamente quanto meno un ulteriore elemento di prova indiziaria sull’esito della spedizione della raccomandata (elemento ulteriore, che rafforza la presunzione della consegna dell’atto regolarmente spedito in raccomandazione al destinatario e della sua conoscenza ai sensi dell’art. 1335 c.c., di cui si è già dato conto). La valutazione a fini probatori di tale ulteriore elemento di prova rientra nell’ambito della discrezionalità del giudice del merito e non è sindacabile in sede di legittimità.

Sotto quest’ultimo profilo, poi, la riproduzione cartacea delle risultanze del sito internet può certamente essere oggetto di contestazione, in relazione alla sua effettiva conformità alle risultanze stesse, ai sensi dell’art. 2712 c.c. (nonchè delle stesse norme del codice dell’amministrazione digitale, invocato dalla ricorrente) ma, in presenza di tale contestazione, è sempre consentito al giudice di accertare detta conformità con qualunque altro mezzo di prova (cfr., ex multis: Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 5141 del 21/02/2019, Rv. 653024 – 01; Sez. 5, Ordinanza n. 12737 del 23/05/2018, Rv. 648402 – 01; Sez. L, Sentenza n. 3122 del 17/02/2015, Rv. 634590 – 01; Sez. L, Sentenza n. 2117 del 28/01/2011, Rv. 616047 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 4395 del 04/03/2004, Rv. 570779 – 01; cfr. anche, con riguardo alle riproduzione di documenti informatici, Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11606 del 14/05/2018, Rv. 648375 – 01), ivi inclusa una richiesta di informazioni al gestore del servizio, ai sensi dell’art. 213 c.p.c., ovvero, come avvenuto nella specie, la verifica diretta del sito, e ciò anche di ufficio, ai sensi dell’art. 447 bis c.p.c., comma 3 (che consente al giudice, nelle controversie in materia di locazione, comodato e affitto, di disporre di ufficio, in qualsiasi momento, l’ispezione della cosa e l’ammissione di ogni mezzo di prova). La relativa valutazione rientra poi, evidentemente, nell’insindacabile potere dello stesso giudice del merito di apprezzare le emergenze istruttorie.

In definitiva, dunque, le censure di cui al motivo di ricorso in esame, oltre ad essere infondate in diritto e prive di adeguato e specifico richiamo al contenuto dei documenti su cui si fondano, si risolvono nella contestazione di un accertamento di fatto in ordine all’esito della spedizione della raccomandata contenente la disdetta del comodato, accertamento operato dai giudici di merito e sostenuto da adeguata motivazione, non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non sindacabile nella presente sede, nonchè nella richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove, non consentita nel giudizio di legittimità.

3. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso;

– condanna la ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 8.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2020

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