Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17800 del 26/08/2020

Cassazione civile sez. III, 26/08/2020, (ud. 02/07/2020, dep. 26/08/2020), n.17800

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GIAME GUIZZI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25654-2018 proposto da:

DITTA A.L., domiciliata ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli

avv.ti VINCENZO FATA e SEVERINO NAPPI;

– ricorrente –

contro

KUWAIT PETROLEUM ITALIA SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

GIULIO CESARE 14, presso lo studio dell’avvocato MARIO PANEBIANCO,

che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 202/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 05/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

02/07/2020 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI;

udito l’Avvocato;

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che:

Kuwait Petroleum Italia s.p.a. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli la ditta A.L. chiedendo, previa declaratoria di cessazione del contratto di cessione gratuita di “punto vendita di carburanti”, l’immediata riconsegna dei beni oggetto del contratto. Il convenuto rimase contumace. Il Tribunale adito accolse la domanda. Avverso detta sentenza propose appello la ditta A.L.. Con sentenza di data 5 febbraio 2018 la Corte d’appello di Napoli rigettò l’appello.

Osservò la corte territoriale che il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado era stato notificato a norma dell’art. 140 c.p.c. presso l’indirizzo di residenza dell’appellante alla via (OMISSIS), risultante dalla certificazione anagrafica acquisita dalla società richiedente la notifica, e non alla (OMISSIS) del medesimo Comune, dove aveva sede la ditta individuale, stante l’insufficienza dell’indirizzo per la mancanza del numero civico, neppure indicato nelle annotazioni del Registro delle Imprese. Aggiunse che la clausola di cui al punto 2.4 dell’art. 2 del contratto (che riservava alla società concedente “il diritto di recedere dal contratto” qualora “il punto vendita venisse incluso dalla KUPIT nei programmi di chiusura e smantellamento finalizzati a razionalizzare la rete di distribuzione carburanti, ai sensi del D.Lgs. 11 febbraio 1998, n. 32 e/o da successive disposizioni in materia e in esecuzione di un proprio piano di chiusura”), specificatamente sottoscritta ai sensi dell’art. 1341 c.c., non era nulla, in quanto espressione della facoltà concessa ad entrambe le parti di recedere liberamente, nè era in contrasto con il punto 7 dell’accordo collettivo interprofessionale del 29 luglio 1997 stipulato dalle associazioni di categoria, in applicazione del D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 1, comprendente un elenco di clausole risolutive espresse ricollegabili ad inadempimenti anticipatamente tipizzati. Osservò ancora che la nullità della clausola non poteva conseguire neanche al D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 1, comma 6, (e del L. n. 57 del 2001, art. 19, comma 4), che prescriveva l’obbligo di motivazione con riferimento alla disdetta intimata alla prima scadenza contrattuale e non anche alla disdetta intimata dopo il primo rinnovo (nel caso di specie lo stesso appellante aveva affermato che la gestione dell’impianto risaliva al 1999), sicchè l’esigenza di tutela non si configurava, e che, non essendo prevista analoga prescrizione per la diversa ipotesi del recesso del comodante liberamente pattuito fra le parti, era irrilevante che l’appellata non avesse documentato il piano di chiusura ne avesse provato l’effettivo inserimento dell’impianto nel detto piano. Aggiunse che, se la volontà di recedere era esprimibile solo assumendo come motivo l’inserimento dell’impianto in un piano imprenditoriale di dismissione, il recesso aveva indicato il detto presupposto, quale motivo convenzionale tipizzato dal negozio, e che “la verità dell’intento della società” era documentata dalla rappresentazione fotografica dei luoghi, che dimostrava la chiusura dell’impianto e l’avvio del suo smantellamento.

Ha proposto ricorso per cassazione la ditta A.L. sulla base di quattro motivi e resiste con controricorso la parte intimata.

E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che:

con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 139,140 e 354 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente, con riferimento alla notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, che non si era trattato di un caso di irreperibilità ma del mancato assolvimento da parte del richiedente la notifica dell’obbligo di indicare correttamente l’indirizzo del destinatario (si legge nella relata di notifica “anzi non ho potuto notificare in quanto l’indirizzo è insufficiente. Si necessita indicazione del numero civico”), per il quale sarebbe stato sufficiente anche indicare “impianto Kuwait”, mentre di nessuna utilità sarebbe stata l’indicazione del numero civico non essendo gli impianti di carburante dotati di numerazione civica.

Il motivo è infondato. La notifica con il rito dell’irreperibilità ai sensi dell’art. 140 c.p.c. è stata eseguita nella casa di abitazione del comune di residenza in base alle risultanze anagrafiche, secondo quanto previsto dall’art. 139. Quest’ultima norma pone un criterio di successione preferenziale solo per quanto riguarda la scelta del comune (residenza, dimora o domicilio), mentre, una volta individuato questo, è consentita la notifica in alternativa presso la casa di abitazione, la sede dell’impresa o l’ufficio dove il destinatario della notifica esercita l’industria o il commercio (Cass. n. 7041 del 2020). Del tutto legittimamente quindi la notifica è stata eseguita presso la casa di abitazione risultante dalla residenza anagrafica e non presso il punto vendita di carburanti.

Con il secondo motivo si denuncia omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva la parte ricorrente che l’Autore non aveva avuto conoscenza della notifica perchè separato di fatto dalla moglie e convivente con la nuova compagna dalla quale, pochi giorni prima della notifica (14 gennaio 2016), aveva avuto un figlio (1 gennaio 2010), come da documentazione prodotta unitamente a quella dell’omologa di separazione (12 luglio 2016), e che quando era stata effettuata la notifica la residenza anagrafica non corrispondeva più a quella effettiva. Aggiunge che l’appellante aveva chiesto di essere ammesso a provare mediante testimoni la circostanza del cambio di residenza e che il giudice di appello aveva omesso di considerare l’istanza istruttoria.

Il motivo è inammissibile. La censura, in quanto relativa ad una nullità del procedimento, è da qualificare non quale denuncia di vizio motivazionale, benchè in tali sensi sia la rubrica, ma come motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Trattandosi di violazione processuale, questa Corte ha il dovere/potere di accertare il fatto processuale, anche accedendo agli atti del fascicolo di merito, purchè sia assolto l’onere previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6. Tale onere non risulta assolto, avendo la parte ricorrente genericamente richiamato prove testimoniali, delle quali non risulta indicato nè lo specifico contenuto del capitolo di prova, nè la sede processuale della deduzione. Prive di decisività sono poi la circostanza della nascita del figlio, in quanto non incompatibile con la coincidenza di residenza effettiva e residenza anagrafica, nè l’omologazione della separazione personale, in quanto successiva alla notifica.

Ad ogni buon conto va rammentato che la notificazione eseguita, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nel luogo di residenza del destinatario risultante dai registri anagrafici, è nulla soltanto nell’ipotesi in cui questi si sia trasferito altrove e il notificante ne abbia conosciuto, ovvero con l’ordinaria diligenza avrebbe potuto conoscerne, l’effettiva residenza, dimora o domicilio, dove è tenuto a effettuare la notifica stessa, in osservanza dell’art. 139 c.p.c. (Cass. n. 30952 del 2017; n. 4274 del 2019). Il ricorrente non ha allegato la conoscibilità mediante l’ordinaria diligenza della residenza effettiva, ma la mera divergenza da quella anagrafica.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1341 e 1354 c.c., D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 1, comma 10, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente, premesso che il D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 1 rinvia per la disciplina dei contratti di cessione dell’uso gratuito dell’impianto di distribuzione di carburante ad accordi interprofessionali (nel caso di specie si trattava dell’accordo del 29 luglio 1997), che dalla lettura dell’art. 2.4 del contratto di comodato si evincono una serie di motivi che in modo tassativo autorizzano il recesso del comodante, mentre non corretto è il richiamo all’art. 1341. Aggiunge che la clausola era inoltre inefficace perchè in base al D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 3, comma 2, i piani di smantellamento dovevano esaurirsi in due anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo, e che pertanto, trattandosi di condizione impossibile ai sensi dell’art. 1353, doveva ritenersi non apposta.

Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 1, comma 6 e art. 3, comma 2,, nonchè dell’art. 2 dell’accordo interprofessionale del 29 luglio 1997, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello, partendo dall’errato presupposto che il contratto non fosse al primo rinnovo (al contrario, era al primo rinnovo perchè decorrente dal 26 aprile 2013 al 25 ottobre 2019) ha escluso l’obbligo motivazionale, qualificando l’atto recesso e non disdetta, e che il recesso non poteva avvenire al di fuori dei casi tassativamente indicati, dovendo inoltre il giudice controllare la condizione giustificativa del recesso.

Aggiunge che il diritto di recesso presuppone la condizione dello smantellamento dell’impianto ai sensi del D.Lgs. n. 32 del 1998, condizione non ricorrente nel caso di specie, e che comunque il piano di chiusura e di smantellamento avrebbe dovuto essere presentato entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del D.Lgs. citato.

Osserva inoltre che l’accordo interprofessionale prevede che al gestore sia concessa la gestione di un altro punto di vendita di carburanti con la medesima concessione.

I motivi terzo e quarto, da valutare unitariamente in quanto connessi, sono infondati. Va premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di contratto di comodato di impianto di distribuzione di carburante, la clausola che ricolleghi la risoluzione del contratto all’esercizio dell’insindacabile facoltà del comodante di trasferire o rimuovere l’impianto, finendo per attribuire al comodante un diritto assoluto di recesso, incorre nella sanzione di nullità prevista dal D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 1, comma 10, per violazione della durata minima di cui al comma 6 di tale disposizione (Cass. n. 24532 del 2018). Ove l’esercizio della facoltà sia consentito durante il corso dei primi sei anni del rapporto contrattuale, quale periodo minimo obbligatorio di durata del contratto ai sensi del D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 1, comma 6, si avrebbe pertanto la nullità prevista dal medesimo art. 1, comma 10.

Il giudizio di fatto del giudice di merito è stato però nel senso che si era verificato il primo rinnovo di rapporto contrattuale. Tale accertamento è stato impugnato dal ricorrente sul piano del mero giudizio di fatto, contrapponendovi l’argomento che si sarebbe trattato di primo rinnovo decorrendo il rapporto dal 26 aprile 2013, mentre il giudice di appello aveva rilevato che lo stesso appellante aveva affermato che la gestione dell’impianto risaliva al 1999.

La censura, posta in tali termini, senza alcuna formulazione di rituale vizio motivazionale, resta sul piano del giudizio di fatto, non sindacabile nella presente sede di legittimità.

Resta pertanto da valutare la clausola alla stregua dell’accordo interprofessionale, cui l’art. 1 menzionato rinvia per la disciplina dell’affidamento della gestione degli impianti, con la forza imperativa attribuita dal comma 10 (“ogni pattuizione contraria al presente articolo è nulla di diritto. Le clausole previste dal presente articolo sono di diritto inserite nel contratto di gestione, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti”). Sulla base dell’accertamento del giudice di merito, il punto 2.4 dell’art. 2 del contratto riserva alla società concedente “il diritto di recedere dal contratto” qualora “il punto vendita venisse incluso dalla KUPIT nei programmi di chiusura e smantellamento finalizzati a razionalizzare la rete di distribuzione carburanti, ai sensi del D.Lgs. 11 febbraio 1998, n. 32 e/o da successive disposizioni in materia e in esecuzione di un proprio piano di chiusura”. Cass. n. 24532 del 2018 riconduce le ipotesi, contemplate dall’art. 7 dell’accordo interprofessionale del 29 luglio 1997 stipulato dalle associazioni di categoria sotto la voce “clausole risolutive ex art. 1456 c.c.”, a fattispecie di inadempimento in senso tecnico, coerentemente all’istituto della clausola risolutiva espressa, ma non esclude in linea di principio una diversa qualificazione quale quella di condizione risolutiva ex art. 1353 c.c., purchè l’evento cui la condizione si riferisce sia sufficientemente determinato, e non rimesso alla mera volontà di una parte. Ed invero la lettera i) contempla quale clausola risolutiva “la chiusura dell’impianto, fatto salvo il diritto del gestore di seguire la concessione secondo la normativa vigente”. Tale tipologia di clausola non pare presupporre un inadempimento del gestore, sia perchè la chiusura dell’impianto avviene ad iniziativa non del gestore medesimo, sia perchè questi conserva un diritto di seguire la concessione, diritto la cui attribuzione non sarebbe compatibile con una condotta inadempiente.

La clausola del contratto in esame non si colloca pertanto nell’area della clausola risolutiva espressa, ma in quella della condizione risolutiva. La circostanza dell’inclusione del punto vendita “nei programmi di chiusura e smantellamento finalizzati a razionalizzare la rete di distribuzione carburanti, ai sensi del D.Lgs. n. 11 febbraio 1998, n. 32 e/o da successive disposizioni in materia e in esecuzione di un proprio piano di chiusura” per un verso integra il requisito della sufficiente determinatezza, per l’altro esclude la ricorrenza della condizione meramente potestativa.

Il ricorrente oppone l’impossibilità della condizione per essere decorso il termine previsto dal D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 3, comma 2, per la chiusura e smantellamento degli impianti non a norma (“il titolare di una o più autorizzazioni di impianti incompatibili con la normativa urbanistica o con le disposizioni a tutela dell’ambiente, del traffico urbano ed extraurbano, della sicurezza stradale e dei beni di interesse storico e architettonico e, comunque, in contrasto con le disposizioni emanate dalle regioni e dai comuni, ha la facoltà di presentare al comune competente, alla regione e al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente D.Lgs., un proprio programma di chiusura e smantellamento degli impianti, ovvero di adeguamento alla vigente normativa, articolato per fasi temporali, da effettuare entro i successivi diciotto mesi nei comuni capoluogo di provincia e due anni negli altri comuni, trasmettendone copia al Ministero dell’ambiente.

I titolari di impianti non a norma sono comunque tenuti a presentare il predetto programma entro e non oltre trenta giorni dalla comunicazione di cui all’art. 1, comma 5. I comuni verificano l’adeguatezza dei programmi di conformazione alla normativa vigente e l’attuazione dei medesimi. In assenza del programma, ovvero in caso di inadeguatezza o mancato rispetto del medesimo, e comunque, accertata la non conformità alle vigenti norme, allo scadere dei termini previsti le autorizzazioni dei predetti impianti sono revocate. I comuni adottano i provvedimenti conseguenti, anche ai fini del ripristino delle aree.”). L’argomento di censura presuppone l’accertamento di fatto, non svolto dal giudice di merito, della non conformità dell’impianto alla normativa. Lo scrutinio del motivo presuppone pertanto un sindacato di merito precluso nella presente sede di legittimità, nè il ricorrente ha proposto una rituale denuncia di vizio motivazionale in ordine alla circostanza. Peraltro, ove si fosse trattato di impianto non a norma, comunque si sarebbe dovuto intendere revocata l’autorizzazione in base alla disposizione appena citata, con la conseguente chiusura e smantellamento dell’impianto.

Il giudice di merito, pur avendo sottolineato l’irrilevanza della dimostrazione del presupposto del venir meno dell’efficacia del contratto, con riferimento alla necessità dell’indicazione della motivazione solo in relazione alla prima disdetta, ha comunque accertato “la verità dell’intento della società” e dunque la verificazione della condizione, sulla base di documentazione fotografica attestante la chiusura dell’impianto e l’avvio del suo smantellamento. Trattasi di giudizio di fatto, non impugnato mediante rituale denuncia di vizio motivazionale, avendo il ricorrente opposto il profilo dell’impossibilità della condizione (su cui si veda quanto appena osservato) ed affermato comunque che la condizione non si sarebbe verificata (ma in tali termini trattasi di mera confutazione del giudizio di fatto non consentita nella presente sede di legittimità); ha inoltre affermato che il giudice avrebbe dovuto verificare il carattere giustificato del recesso, censura non comprensibile alla stregua del giudizio di fatto appena richiamato.

Resta pertanto la condizione risolutiva, sufficientemente determinata e non meramente potestativa. Quanto al diritto del gestore di seguire la concessione, previsto dall’art. 7 lett. i) dell’accordo interprofessionale, da intendere inserito di diritto nella clausola ai sensi del D.Lgs. n. 32 del 1998, art. 1, comma 10, il ricorrente non ha specificatamente indicato, come avrebbe dovuto fare ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, se abbia esercitato il diritto nel presente giudizio, in forma di domanda o eccezione riconvenzionale, e si è limitato soltanto a richiamare l’astratta esistenza del diritto.

Infine non si comprende, alla stregua del contenuto della clausola per come accertato dal giudice di merito, a cosa si riferisca il ricorrente quando afferma che dalla lettura dell’art. 2.4 del contratto di comodato si evincerebbe una serie di motivi che in modo tassativo autorizzano il recesso del comodante, non avendo egli peraltro provveduto a trascrivere la previsione contrattuale a cui si riferisce.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 – quater, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2020

 

 

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