Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17790 del 03/07/2019

Cassazione civile sez. I, 03/07/2019, (ud. 27/03/2019, dep. 03/07/2019), n.17790

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19237/2015 proposto da:

V.A., domiciliato in Roma, P.zza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa

dall’avvocato Palma Antonio, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

N.B., V.R., elettivamente domiciliati in Roma, Via

Belsiana n. 71, presso lo studio dell’avvocato Dell’erba, Giuseppe,

rappresentati e difesi dall’avvocato Caprioli Giovanni e

dall’avvocato Nisi Salvatore, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 227/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata l’08/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/03/2019 dal Cons. Dott. FEDERICO GUIDO.

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

Con atto di citazione notificato il giorno 14.09.2000 V.A., figlia naturale, riconosciuta di V.B., deceduto il giorno (OMISSIS), conveniva dinanzi al Tribunale di Lecce – sezione distaccata di Casarano, N.B. per ottenere la restituzione delle somme a suoòdire indebitamente transitate sul conto di quest’ultimo da quello del padre V.B..

Parte attrice deduceva:

– di essere erede insieme a V.R., figlia legittima, di V.B. e di aver proceduto con quest’ultima alla divisione del patrimonio paterno;

– di aver accertato che il padre, a partire dal mese di maggio del 1995 aveva emesso diciannove assegni bancari tratti sul proprio conto corrente, aperto presso la Banca Popolare Pugliese, diciassette dei quali con la dicitura “in favore di me medesimo”, che erano stati presentati da N.B., marito di V.R., per l’incasso;

– deduceva che N.B., avvalendosi dei rapporti domestici con V.B. e delle condizioni psicofisiche di quest’ultimo, aveva sottratto la somma di complessive Lire 486.000.000, corrispondente all’importo degli assegni suddetti.

L’attrice concludeva, pertanto, per la condanna del N. alla restituzione di suddetta somma o di altra ritenuta di giustizia.

Si costituiva in giudizio N.B., eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti di V.R.; concludeva, nel merito, per il rigetto della domanda.

V.R. si costituiva, facendo proprio le ragioni del convenuto.

Il Tribunale di Lecce – sezione distaccata di Casarano, con sentenza 28 novembre 2011 n. 360, rigettava la domanda di parte attrice, ritenendo non. provata l’incapacità di intendere e di volere di V.B..

La Corte d’Appello di Lecce, con sentenza del 8 aprile 2015 n. 227, rigettava integralmente l’appello proposto da V.A., confermando le statuizioni del giudice di prime cure.

Il collegio, analizzando congiuntamente le doglianze dell’appellante, riteneva che la domanda di parte attrice avesse ad oggetto l’annullamento delle operazioni bancarie poste in essere da V.B. unicamente ai sensi degli artt. 1425 e 428 c.c., artt. 1435 o 1439 c.c. e che tale domanda fosse non solo sfornita di prova, ma contraddetta dalle risultanze probatorie acquisite al processo, da cui risultava che all’epoca dei fatti V.B. non era incapace di intendere di volere.

Inoltre, nonostante il collegio ritenesse che l’atto introduttivo non conteneva la domanda di ripetizione di indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c., precisava ad abundantiam che “la prova della mancanza di una causa debendi incombe sul creditore istante e per altro verso che, vertendosi in tema di rapporti bancari (.,.), l’esistenza del rapporto sottostante è presunto fino a prova contraria”. Infine, il collegio riteneva che parte attrice non avesse impugnato le singole operazioni “quanto alla loro validità” nè prospettato la qualificazione delle singole operazioni come donazioni lesive “dei diritti dell’attrice (…)”.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, V.A..

Resistono con controricorso N.B. e V.R..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1324 e 1325 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la corte territoriale omesso di rilevare il difetto di causa di tutte le operazioni bancarie eseguite sia sul conto corrente di V.B. che su quello di N.B., nonchè la violazione dell’art. 111 Cost..

A parte profili di inammissibilità della censura per novità della questione prospettata, deve rilevarsi sotto altro profilo che il motivo non coglie la ratio decidendi della pronuncia impugnata.

La Corte d’appello di Lecce ha infatti fondato il rigetto della domanda sulla assoluta genericità della stessa, nonchè sulla carenza di prova in ordine a tutte le ipotesi di annullamento delle operazioni bancarie per vizi della volontà di V.B., pur rilevando la mancanza di una specifica domanda a tal fine proposta. La Corte ha ritenuto che non fosse stata raggiunta la prova dello status di minoranza psicofisica del V., sia a seguito della consulenza medica redatta nel corso del procedimento penale espletato a carico del N. per il reato di cui all’art. 646 c.p., art. 61 c.p., n. 11, conclusosi con richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 649 c.p.p., sia sulla base della prova testimoniale assunta.

La Corte ha conseguentemente ritenuto che la declaratoria di annullamento delle operazioni bancarie, poste in essere dal V. e di cui avrebbe beneficiato il N., non avesse trovato riscontro alcuno.

E’ invece inammissibile per genericità la censura di violazione dell’art. 111 Cost., avuto riguardo alla valutazione delle prove e del comportamento processuale delle parti, che costituisce materia riservata al giudice di merito.

Per dedurre l’errata valutazione delle prove è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che, come nel caso di specie, il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c. (Cass. Ss.Uu. 16598/2016).

Con il secondo e quarto motivo di ricorso si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte territoriale omesso di esaminare la documentazione acquisita agli atti del processo.

Ambedue i motivi di ricorso, che consistono sostanzialmente nella medesima censura di omesso esame delle acquisizioni istruttorie da parte del giudice di merito, sono inammissibili.

Neppure essi attingono la ratio decidendi della pronuncia impugnata, fondata, come già rilevato, sulla capacità di intendere e di volere e sulla (conseguente) imputabilità a V.B. delle operazioni per cui è causa.

A fronte di tale accertamento, fondato su motivazione logica, coerente ed adeguata, i motivi tendono a sollecitare il sindacato di questa corte sulla ricostruzione della vicenda da parte del giudice di merito, preclusa nel presente giudizio di legittimità.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

pertanto l’omesso esame di elementi istruttori e della documentazione genericamente indicata non integra il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 27415/2018).

Con il terzo motivo si deduce la violazione. dell’art. 2697 c.c. e del principio della c.d. “vicinanza della prova”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte territoriale ritenuto che l’onere probatorio in relazione alla mancanza della causa degli assegni bancari fosse a carico dell’attrice.

Il motivo è inammissibile, in quanto non censura tutte le autonome rationes decidendi della pronuncia.

La Corte ha infatti rilevato che la mancanza di cause giustificative delle operazioni risultava estranea all’atto introduttivo del giudizio, aggiungendo solo ad abundantiam che l’odierna ricorrente non aveva superato la presunzione derivante dal rapporto cartolare, essendo gli accrediti fondati su assegni bancari.

In ogni caso, la dedotta violazione di legge non sussiste. La violazione dell’art. 2697 c.c., è configurabile solo se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di ripartizione, basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, (Cass. Ss.Uu. 16598/2016).

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che, accertata la capacità di intendere e di volere di V.B. all’epoca dei fatti, gli odierni ricorrenti non avessero provato la mancanza di causa degli assegni emessi da quest’ultimo, e non avessero dunque superato la presunzione iuris tantum dell’esistenza del rapporto sottostante, che è riconducibile all’assegno bancario (Cass. 19929 del 29 settembre 2011).

Il ricorso va dunque respinto e le spese, regolate secondo soccombenza, si liquidano come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione delle spese del presente giudizio, che liquida in 7.200,00 Euro, di cui 200,00 Euro per esborsi, oltre a rimborso forfettario per spese generali, in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2019

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