Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17777 del 29/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 29/07/2010, (ud. 10/03/2010, dep. 29/07/2010), n.17777

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

P.W., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NICOLA

RICCIOTTI 11, presso lo studio dell’avvocato CASTRICHELLA DARIO,

rappresentato e difeso dall’avvocato CASTELLI CARMELA, giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CATANIA, in persona del Commissario Straordinario,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 76, presso lo

studio dell’avvocato DONNANGELO ANTONIO, rappresentato e difeso

dall’avvocato GULLOTTA FRANCESCO, giusta procura speciale a margine

del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 277/2007 della CORTE D’APPELLO di CATANIA del

12/04/07, depositata il 17/05/2007;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/03/2010 dal Consigliere Relatore Dott. FILIPPO CURCURUTO;

udito l’Avvocato W.P. (delega avvocato Castelli Carmela),

difensore di se stesso (ora cassazionista) che si riporta agli

scritti chiedendo l’accoglimento del ricorso;

e’ presente il P.G. in persona del Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che

aderisce alla relazione scritta.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. Ritenuto che:

2. La Corte d’Appello di Catania, confermando, pur con diversa motivazione, la decisione del primo giudice, ha rigettato la domanda di P.W. contro il Comune di Catania, diretta ad impugnare, quale licenziamento nullo, la revoca della sua nomina alla qualifica dirigenziale, disposta dal Comune con delibera del 14 dicembre 1999, a seguito di annullamento giurisdizionale del concorso nel quale il P., gia’ dipendente del Comune quale funzionario legale, inquadrato nell’(OMISSIS) categoria, poi livello (OMISSIS), era risultato vincitore.

3. La Corte ha ritenuto infondata la tesi del P. secondo la quale, avendo le parti stipulato, il (OMISSIS), un contratto di lavoro dirigenziale, il Comune non avrebbe potuto disporre in via autoritativa la revoca della nomina ma avrebbe dovuto esercitare il potere di recesso secondo le norme privatistiche.

4. La Corte ha osservato in proposito che la delibera in esame non configurava recesso dal rapporto ma presa d’atto del vizio contrattuale sopravvenuto, consistente nella mancanza in capo al P. della qualita’ di vincitore della procedura concorsuale, e che essa era legittima non potendo esigersi che l’amministrazione mantenesse in vita un contratto ormai privo di un requisito di validita’.

5. La Corte ha anche notato, per escludere che la delibera configurasse recesso, che il Comune non aveva manifestato alcuna intenzione di interrompere il rapporto di lavoro non dirigenziale con il P..

6. Quale ulteriore argomento a favore della legittimita’ della delibera, la Corte ha messo in rilievo la presenza, nel contratto (OMISSIS), di una clausola risolutiva, con riferimento all’eventuale annullamento della procedura concorsuale costituente presupposto del contratto, argomentando circa la validita’ di tale clausola e circa l’impossibilita’, in presenza di essa, di ipotizzare una condotta colposa o la violazione di regole di buona fede da parte dell’amministrazione.

7. Infine, in considerazione della natura del rapporto, la Corte ha escluso la rilevanza delle violazioni della L. n. 241 del 1990.

8. P.W. chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso per due motivi, al quale il Comune di Catania resiste con controricorso.

9. Il primo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1998 e dell’art. 14 contratto nazionale di lavoro dirigenti enti locali/omessa insufficiente contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio.

10. A conclusione del motivo si chiede, quindi, a questa Corte di pronunziarsi sul seguente quesito di diritto: “essere o meno, applicabile al rapporto di lavoro di dirigente di ente pubblico la disciplina pubblicistica di cui alla L. n. 241 del 1990 per la risoluzione del rapporto”.

11. Il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico – giuridica della questione, cosi’ da consentire al giudice di legittimita’ di enunciare una “regula iuris” suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che e’ inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione sia del tutto inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia, (v. per tutte, Cass. 71972009, che nella specie, ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso che si concludeva domandando alla Corte di stabilire “se ai fini della violazione delle norme sul giudicato e del relativo principio “ne bis in idem” e’ necessario che tra i due giudizi posti in comparazione sussista identita’ non soltanto soggettiva ma anche soggettiva”, la cui risposta affermativa si traduceva nell’ovvia affermazione, in se’ priva di dignita’ di principio di diritto, che il giudicato esterno si forma soltanto in caso di coincidenza di due domande). In altri termini il quesito di diritto prescritto dall’art. 366 bis cod. proc. civ. a corredo del ricorso per cassazione non puo’ mai risolversi nella generica richiesta rivolta alla Corte di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, e deve investire la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto.(Cass. 4044/2009). Parimenti inammissibile e’ a norma dell’art. 366 “bis” cod. proc. civ., il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilita’ alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo (Cass. Sez. Un. 6420/2008).

12. Ferme le considerazioni che precedono, in base alle quali il motivo in esame dovrebbe esser considerato inammissibile, deve comunque aggiungersi che la costante giurisprudenza di questa Corte esclude l’applicabilita’ delle disposizioni di cui alla L. n. 241 del 1990 agli atti di gestione dei rapporti di lavoro privatizzati (v, ad es., Cass. 24 ottobre 2008, n. 25761, secondo la quale in tema di lavoro pubblico privatizzato e, in particolare, di inquadramento dei segretari comunali, i provvedimenti di conferimento e di revoca dell’inquadramento, ai sensi del D.P.R. n. 465 del 1997, sono atti di autonomia privata espressione della potesta’ organizzativa e gestionale dei rapporti di lavoro gia’ costituiti, propria del pubblico impiego contrattualizzato, in quanto tali assoggettati ai principi fondamentali del diritto privato e, in primo luogo, alla regola della normale irrilevanza dei motivi, dovendosi escludere la necessita’ dell’osservanza del procedimento prescritto dalla L. n. 241 del 1990 e l’applicazione dei vizi dell’atto amministrativo. Ne consegue che, ove l’amministrazione ritenga, “re melius perpensa”, di ritirare l’illegittima iscrizione nella fascia superiore, il relativo atto non costituisce esercizio di un potere amministrativo di autotutela, inconcepibile rispetto ad atti di diritto privato, ma atto avente mera natura conformativa rispetto all’ordinamento dei pubblici dipendenti contrattualizzati, nel quale vige – ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 29 e successive modifiche, poi sostituito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 – il divieto di assegnazione di mansioni superiori al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, con nullita’ degli atti di conferimento illegittimi;

Cass. 22 febbraio 2006, n. 3880, secondo la quale l’intera materia degli incarichi dirigenziali nelle amministrazioni statali e’ retta dal diritto privato e l’atto di conferimento e’ espressione del potere di organizzazione che, nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui al D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 2, comma 1 e successive modifiche, e’ conferito all’amministrazione dal diritto comune. Ne consegue che se gli atti di conferimento e revoca degli incarichi sono ascrivibili al diritto privato, non possono che essere assoggettati ai principi fondamentali dell’autonomia privata e, in primo luogo, alla regola della normale irrilevanza dei motivi e non sono soggetti alle disposizioni della L. 7 agosto 1990, n. 241 sui procedimenti amministrativi, ne’ ai vizi propri degli atti amministrativi; Cass. 16 maggio 2003, n. 7704, secondo la quale le norme della L. n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo riguardano i procedimenti strumentali alla emanazione da parte della P.A. di provvedimenti autoritativi destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei destinatari dei medesimi, caratterizzati dalla situazione di preminenza dell’organo che li adotta, e non sono percio’ applicabili agli atti concernenti il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, i quali sono adottati nell’esercizio dei poteri propri del datore di lavoro privato, connotati dal potere di supremazia gerarchica, ma privi dell’efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo. Pertanto, all’atto di destituzione dall’impiego adottato all’esito del procedimento disciplinare ed a seguito di sentenza penale di condanna per un reato commesso in servizio, non e’ applicabile l’obbligo della motivazione stabilito dalla L. n. 241 del 1990, essendo sufficiente che nel medesimo sia indicato l’illecito disciplinare che ha giustificato la risoluzione del rapporto di lavoro, costituendo inoltre l’atto di conformazione al lodo arbitrale di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 59, comma 7 un atto dovuto che non richiede alcuna motivazione).

13. Cosi’ stando le cose, il primo motivo del ricorso, ove fossero superabili i profili di inammissibilita’ sopra evidenziati, sarebbe comunque manifestamente infondato.

14. Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione e mancata applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 1, e degli artt. 2119 e 1419 c.c. – omessa, insufficiente contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio. Nel corso del motivo si chiede a questa Corte di pronunziarsi sul seguente quesito di diritto:

“legittimita’, o meno, della clausola risolutiva espressa apposta a contratto di lavoro a tempo indeterminato”.

15. Il motivo contiene poi ulteriori considerazioni attinenti alla clausola risolutiva, addebitando alla sentenza di non averne tenuto conto. In riferimento a questa parte del motivo non e’ formulato alcun quesito.

16. Cio’ premesso, il quesito sopra riportato si presta palesemente alle stesse considerazioni svolte nel n. 10 che precede.

17. Quanto alla seconda parte del motivo, che sembra censurare anche l’interpretazione della clausola da parte del giudice di merito, la mancanza del quesito o del suo omologo, per quanto attiene ai profili del vizio motivazionale (v. Cass. Sez. un. 1 ottobre 2007, n. 20603), consente anche in questo caso un giudizio di inammissibilita’.

18. Cosi’ stando le cose, il ricorso deve esser dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente alle spese del giudizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alle spese in Euro 30,00 per esborsi ed Euro 3000,00 per onorari, oltre ad IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2010

 

 

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