Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17773 del 30/08/2011

Cassazione civile sez. III, 30/08/2011, (ud. 16/03/2011, dep. 30/08/2011), n.17773

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE ARTI 6, presso lo studio dell’avvocato

CHIOLA LORETO ANTONELLO, rappresentato e difeso dall’avvocato MURA

BRUNO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.S.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato CAMPUS MIRIAM con studio in

09128 CAGLIARI, VIA PERGOLESI 72 giusta delega a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 348/2005 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, 1^

SEZIONE CIVILE, emessa l18/7/2005, depositata il 05/10/2005, R.G.N.

226/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2011 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato BRUNO MURA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per il rigetto del ricorso con

condanna e spese.

Fatto

IN FATTO

1. P.S.A. convenne in giudizio, dinanzi al pretore di Cagliari, il chirurgo estetico M.G. chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti ad un intervento di lifting temporale bilaterale.

1.1. Il giudice di primo grado, alla luce delle risultanze di una duplice CTU, accolse la domanda.

2. L’impugnazione proposta dal convenuto fu rigettata dalla corte di appello di Cagliari, che osservò, da un canto, come, nella specie, mancasse qualunque elemento di prova sul fatto che il sanitario avesse effettivamente rappresentato alla paziente un quadro completo delle possibile conseguenze post-operatorie dell’intervento (minimizzandone, anzi, la reale portata), dall’altro, che, dalle risultanze della relazione peritale disposta in primo grado (“ampia, basata su dati di fatto oggettivi ed esente da vizi logici”, come si esprime testualmente il giudice di appello a f. 9 della sentenza oggi impugnata) emergesse la incongruità dei risultati raggiunti con l’intervento rispetto ai parametri normali, onde l’insoddisfazione dell’appellata non poteva ritenersi soltanto una sensazione soggettiva, trovando viceversa fondato riscontro nella realtà oggettiva del processo, con specifico riguardo agli esiti cicatriziali al capo, più estesi del normale e caratterizzati da indubbia rilevanza estetica, correttamente apprezzata come danno biologico.

2.1 Tali conseguenze dell’intervento, eseguito – nel peculiare campo della chirurgia estetica – in violazione del dovere di informazione da parte del sanitario, non potevano, pertanto – conclude la corte territoriale -, non ritenersi idonee ad integrare gli estremi dell’alterazione anatomo-patologico dell’organismo dell’appellata.

3. La sentenza è stata impugnata dall’appellante con ricorso per cassazione sorretto da 2 motivi.

Resiste con controricorso P.S..

Diritto

IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Il motivo è privo di pregio.

La complessa ed articolata doglianza – volta a denunciare pretesi quanto inesistenti vizi motivazionali della sentenza impugnata – il cui fondamento sostanziale ruota attorno ad un preteso difetto di nesso etiologico tra l’intervento di lifting compiuto dal M. e le sue conseguenze lesive, si dipana, dì fatto, seguendo i medesimi percorsi argomentativi già pedissequamente svolti in sede di appello, ed è irredimibilmente destinato ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dalla corte territoriale nella parte in cui, con motivazione ampia, logica ed esaustiva, che questa corte interamente condivide, ha ritenuto prive di rilievo probatorio le circostanze e gli ulteriori mezzi di prova dedotti dall’odierno ricorrente a sostegno della propria declamata incolpevolezza, senza, peraltro (come erroneamente sostenuto al foglio 20 del ricorso), fondare il proprio convincimento circa la responsabilità del M. sulla sola relazione causale “intervento/violazione dell’obbligo di informazione acconsentita”, come emerge dalla lettura, in parte qua, della pronuncia oggi impugnata (supra, in narrativa, sub 2, 2.1).

Il motivo, pur lamentando, formalmente, un decisivo difetto di motivazione, si risolve, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5,non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove ed. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizìa trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 184, 153, 112, 115 e 116 c.p.c. e all’ordinanza del Giudice in data 29 gennaio 1999; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Il motivo è infondato.

Le ulteriori censure mosse alla sentenza di appello (a tacere della patente inammissibilità della “impugnazione” proposta, in questa sede, con riguardo al provvedimento ordinatorio reso dal giudice di merito nel gennaio del 1999) nella parte in cui, con essa, si è riconosciuto e predicato la assoluta irrilevanza di tutte le circostanze addotte dalla difesa del M. in sede di merito, specie con riferimento all’omessa prova della legittima acquisizione di un sufficientemente informato consenso all’intervento e al successivo intervento “riparatore” cui si dovette sottoporre la P., sono inammissibili in rito nella parte in cui si denuncia la pretesa falsità di alcuni documenti prodotti dalla resistente (attesa l’evidente inidoneità e intempestività, sotto il profilo giuridico e temporale, del mezzo di impugnazione prescelto), ed infondate nel merito nella misura in cui, al pari delle doglianze svolte con il primo motivo, tendono, nella sostanza, ad una rivisitazione del merito della controversia in una dimensione impugnatoria del tutto estranea, ormai, al giudizio di legittimità, come si è avuto già modo di specificare in sede di analisi della prima doglianza rappresentata a questa corte.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue, giusta il principio della soccombenza, come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 2200, di cui Euro 200 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2011

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