Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17746 del 07/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 07/09/2016, (ud. 23/06/2016, dep. 07/09/2016), n.17746

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18113/2014 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), società con socio unico, in persona

del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LUIGI G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO

MARESCA, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

P.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 74,

presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI, che la

rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso e

ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS), società con socio unico, in persona

del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

LUIGI G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO

MARESCA, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del

ricorso ex art. 360 c.p.c.;

– controricorrente al ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 6081/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

18/06/2013, depositata il 12/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/06/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSANA MANCINO.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c., a seguito di relazione a norma dell’art. 380-bis c.p.c., condivisa dal Collegio, lette le memorie depositate dalle parti, ex art. 380 bis c.p.c., comma 2. 2. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 12 luglio 2013, confermava la decisione del primo giudice che aveva dichiarato l’inefficacia del termine apposto al contratto di lavoro, intercorso tra l’attuale intimata e Poste italiane s.p.a. e relativo al periodo dal 13 giugno al 31 agosto 2002, c, accertata la giuridica prosecuzione del rapporto dopo la scadenza, condannava la società al pagamento dell’indennità di cui della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 – commisurata in 3,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – oltre interessi e rivalutazione monetaria. 3. Il termine era stato apposto per “esigenze tecniche organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli Accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002”. 4. Per la cassazione di tale decisione propone ricorso Poste Italiane, affidato a sei motivi. 5. Resiste, con controricorso, la lavoratrice e ha proposto ricorso incidentale affidato a due motivi, cui ha resistito la società. 6. Il primo motivo del ricorso principale – con il quale viene dedotta violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere il giudice del gravame rigettato l’eccezione di scioglimento del rapporto per tacito mutuo consenso dei contraenti, senza tener conto del comportamento inerte delle parti sintomatico del disinteresse al ripristino – è manifestamente infondato. 7. Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v., Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonchè più di recente, Cass. 18-112010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre, Cass. 1- 2-2010 n. 2279). 8. L’indirizzo prevalente ormai consolidato è, dunque, basato sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. 9. La valutazione del comportamento tenuto dalle parti, e di eventuali circostanze significative di una consensuale tacita volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto. 10. Nel caso in esame, la Corte di appello ha respinto l’eccezione di scioglimento del vincolo contrattuale sul rilievo che fosse mancata ogni allegazione e prova di condotte concludenti utili a rappresentare la disaffezione della lavoratrice, essendo rimasta detta eccezione meramente fondata sul decorso del tempo (che non è di per sè espressione di una tacita rinuncia a coltivare il diritto a far accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto). 11. Le predette considerazioni di merito, corrette sul piano giuridico e congruamente motivate, sono come tali incensurabili sul piano logico. 12. Con il secondo e terzo motivo del ricorso principale si lamenta, rispettivamente, violazione degli artt. 112 e 414 c.p.c., per avere la Corte pronunciato su causale diversa da quella dedotta dalle parti; e violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, commi 1 e 2, art. 4, comma 2, art. 12 preleggi, art. 1362 c.c. e segg. e art. 1325 c.c., per avere il giudice del gravame ritenuto generica la motivazione, a fondamento dell’assunzione, perchè violativa dell’obbligo di specificazione delle esigenze imposto del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2. 13. Il secondo mezzo non coglie nel segno, per avere la Corte territoriale correttamente individuato, fin dall’esposizione, in sentenza, dello svolgimento del processo, la causale sottoscritta dalle parti ed argomentato, nella complessiva illustrazione della ratio decidendi, con riferimento ad essa. 14. Sul terzo mezzo vale ricordare che, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, in toto o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. 15. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (v. Cass. Sez. U, n. 16602 del 08/08/2005; successive conformi, ex multis: Cass. n. 21431 de/12/10/2007; Cass. Sez. U, n. 10374 de/08/05/2007). 16. Nel caso in esame, la nullità dell’apposizione del termine al contratto de qua è stata fondata sia sulla ritenuta genericità della clausola appositiva del termine sia sulla mancata prova, da parte di Poste Italiane, in ordine alla ricorrenza delle ragioni che avevano motivato l’assunzione a tempo determinato e tale seconda ratio decidendi, per quanto appresso si dirà, non risulta incisa dai motivi di ricorso e, dunque, vale da sola a sorreggere l’impugnata sentenza. 17. Il quarto mezzo è incentrato sulla violazione e falsa applicazione degli Accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001, 11 gennaio, 13 febbraio, 17 aprile 30 luglio e 18 settembre 2002 (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la Corte di merito ritenuto inadempiuto, da parte della società, l’onere probatorio su di essa gravante, laddove tutti gli accordi, succedutisi nel tempo, dimostravano la sussistenza di un processo di ristrutturazione con ricollocazione delle risorse sul territorio nazionale attraverso un processo di mobilità volontaria nel settore sportelleria e recapito, da cui erano derivati squilibri nella distribuzione sul territorio del personale, con temporanee carenze di organico, situazione questa che legittimava le assunzioni a termine. 18. Con il quinto mezzo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte di appello ritenuto non meritevole di accoglimento la richiesta della prova orale e omesso anche di far ricorso ai poteri ufficiosi in materia di ammissione della prova. 19. Entrambi i motivi, congiuntamente esaminati perchè logicamente connessi, sono infondati. 20. Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’onere di provare le ragioni obiettive poste a giustificazione della clausola appositiva del termine grava sul datore di lavoro e deve essere assolto sulla base delle istanze istruttorie dallo stesso formulate (vedi per tutte: Cass. 10 febbraio 2010, n. 2279; Cass. 11 dicembre 2012, n. 22716). 21. Va ricordato che il D.Lgs. n. 368 del 2001, nel testo originario vigente all’epoca del contratto ora in questione, all’art. 1, comma 1, prevede che “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” e, al comma 2, che “l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”. 22. Del citato D.Lgs. n. 368, art. 11, comma 1, ha poi disposto l’abrogazione, dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, della L. n. 230 del 1962, L. n. 79 del 1983, art. 8 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 e di tutte le disposizioni di legge incompatibili. 23. Il quadro normativo che emerge è, dunque, caratterizzato dall’abbandono del sistema rigido previsto dalla L. n. 230 del 1962, art. 11, comma 1, che prevedeva la tipizzazione delle fattispecie legittimanti, sistema peraltro già oggetto di ripensamento come si evince dalle disposizioni di cui alla L. n. 79 del 1983 e alla L. n. 56 del 1987, art. 23 – e dall’introduzione di un sistema articolato per clausole generali, in cui l’apposizione del termine è consentita a fronte di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. 24. L’onere di specificazione della causale nell’atto scritto costituisce una delimitazione della facoltà, riconosciuta al datore di lavoro, di far ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato per soddisfare esigenze aziendali (di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o aziendale), prescindere da fattispecie predeterminate, con l’evidente scopo di evitare l’uso indiscriminato dell’istituto, imponendo riconoscibilità e verificabilità della motivazione addotta fin dal momento della stipula del contratto. 25. La consolidata giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279; id. 27 aprile 2010, n. 10033; id. 12 luglio 2010, n. 16303; id. 25 maggio 2012, n. 8286), privilegiando la scelta del legislatore europeo di ampliare la considerazione delle fattispecie legittimanti l’apposizione del termine, ha concesso tuttavia un’importante apertura, ritenendo possibile che la specificazione delle ragioni giustificatrici risulti dall’atto scritto non solo per indicazione diretta, ma anche per relationem, ove le parti abbiano richiamato nel contratto di lavoro testi scritti che prendono in esame l’organizzazione aziendale e ne analizzano le complesse tematiche operative. 26. E’ quanto, nella sostanza, la ricorrente sostiene essere avvenuto nel caso di specie: l’atto scritto di assunzione, dopo alcuni generici riferimenti ai processi di riorganizzazione aziendale, puntualizza le “esigenze tecniche, organizzative e produttive” attraverso il richiamo alla attuazione delle previsioni di cui agli accordi indicati in contratto. 27. Da tali accordi, costituenti un momento di esame comune delle parti sindacali delle esigenze organizzative, secondo Poste Italiane si desumerebbe la causale sufficientemente specifica di apposizione del termine. 28. Ebbene, il Giudice del merito, con valutazione correttamente motivata e priva di vizi logico-giuridici, ha invece escluso la sussistenza di tali presupposti, sulla base dell’esame di ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi i predetti accordi collettivi effettuando altresì, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte (vedi le citate sentenze 2279 del 2010 e n. 6974 del 2013) l’analisi delle pattuizioni collettive richiamate per relationem. 29. In particolare, la Corte di appello, ha ritenuto non assolto, dalla società, l’onere probatorio, per essersi limitata a dimostrare l’esistenza, in generale, di un processo di mobilità interna, senza tuttavia fornire la prova dell’incidenza di tale situazione anche sull’ufficio in cui la lavoratrice ha lavorato. 30. Costituisce, inoltre, jus receptum che il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali denunciabile in sede di legittimità – peraltro, nel rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione, come definito, da ultimo da Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726 – deve riguardare specifiche circostanze oggetto della prova o del contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, sulle quali il giudice di legittimità può esercitare il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse (arg. ex Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486). 31. Nella specie la ricorrente contesta invece una valutazione “di genericità” di un capitolo della prova testimoniale richiesta (il n. 33), valutazione che nella sentenza risulta giustificata da congrua e logica motivazione (è stato ritenuto inammissibile in quanto “…i capitoli dedotti a prova continuando a muoversi su un terreno di assoluta genericità, riguardano il processo di riorganizzazione e gli accordi stipulati nel tempo, ma prescindono del tutto dal singolo caso concreto…”), sicchè la contestazione finisce per risolversi nella inammissibile prospettazione di un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti. 32. Quanto alla censura relativa alla mancata attivazione dei poteri di ufficio in materia di prova da parte dei giudici, si rileva che la società non specifica se, in proposito, abbia tempestivamente invocato tale esercizio, con la necessaria indicazione dell’oggetto possibile degli stessi e, peraltro, il motivo finisce con l’esprimere un inammissibile dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa, anzichè evidenziare la scorrettezza giuridica e la incoerenza logica delle argomentazioni svolte. 33. Con il sesto motivo, infine, viene dedotta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1362 c.c. e segg. e dell’art. 1419 c.c., per avere l’impugnata sentenza pronunciato la conversione del rapporto lavorativo de quo in rapporto a tempo indeterminato. 34. Il motivo è infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte di legittimità (cfr., in particolare, Cass. 21.5.08 n. 12985 e numerose altre successive), secondo cui D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. 35. Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificatrici del termine e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto) e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato da Corte cost. n. 210/92 e n. 283/05, all’illegittimità del termine e alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. 36. Passando al ricorso incidentale, viene dedotta, in riferimento alle conseguenze risarcitorie dell’illegittimità del termine, violazione degli artt. 111 e 24 Cost., della clausola 4 e 8 n. 1 della Direttiva 1999/70/CE, della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, e si formula istanza di sospensione del giudizio per pregiudiziale comunitaria. 37. Il motivo è infondato e, per i motivi che seguono, non si ravvisano i presupposti per la richiesta sospensione del giudizio. 38. Va rilevato che, in ordine alla portata del comma 5 dell’art. 32, è intervenuta la disposizione di interpretazione autentica a mente della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, in base al quale: “La disposizione di cui della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguente retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”. 39. Premesso che la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, costituisce una disposizione che di per sè, attraverso la forfetizzazione del danno, inerisce a quei diritti retributivi e previdenziali di cui qui si eccepisce l’ingiustificato sacrificio, ma della quale la Corte Costituzionale ha ritenuto la ragionevolezza siccome “nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi” (cfr., Corte Costituzionale, n. 303/2011), è stato osservato come dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (cfr., ex plutimis, Corte Costituzionale, n. 257/2011) sono enucleabili i seguenti principi: – il divieto di retroattività della legge non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost., per cui il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purchè la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti; – la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario; – con riferimento ai rapporti tra l’art. 117 Cost., comma 1 e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e, in particolare, con riguardo all’art. 6 della CEDU, la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che, in varie occasioni, ha ritenuto non contrari al suddetto art. 6 particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionale, affermando la regola (cfr. la sentenza della seconda sezione in data 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri c/Italia) secondo cui, “Se, in linea di principio, il legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo sanato dall’art. 6 ostano, salvo che per ragioni imperative d’interesse generale, all’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia. L’esigenza della parità delle armi comporta l’obbligo di offrire ad ogni pane una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte”; – con la conseguenza che, anche secondo la suddetta regola, “sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.). Diversamente, se ogni intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo scopo d’influenzare la risoluzione di una controversia, la regola stessa sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione priva di significato concreto” (cfr., Corte Costituzionale, n. 257/2011, cit. e, per il richiamo a tali principi, Cass. 21.3.2014 n. 6735). 40. Deve ritenersi, conformemente a quanto già rilevato da questa Corte, che nel caso in esame la disposizione di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 7, non incide, con efficacia retroattiva, su diritti di natura retributiva e previdenziale già acquisiti dal lavoratore, essendo destinata ad operare in relazione a situazioni processuali ancora sub indice, per le quali deve quindi essere esclusa l’avvenuta formazione del giudicato, onde risultano manifestamente infondate le eccezioni di incostituzionalità svolte al riguardo (cfr. Cass. 6735/14 appena citata). 41. Nè, sulla base dei ricordati principi, possono ravvisarsi dubbi di costituzionalità con riferimento alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, poichè esso: – costituisce uni disposizione di carattere generale, che non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perchè le controversie su cui essa è destinata ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario alle dipendenze subordinato ermeneutiche i rapporti di lavoro enucleato una delle possibili opzioni testo normativo, già accolta dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (cfr, Corte Costituzionale, n. 303/2011, cit., secondo cui “Un’interpretazione costituzionalmente orientata della novella, però, induce a ritenere che il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che acceda la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto”) e dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 3056/2012; 9023/2012); – ha superato una situazione di oggettiva incertezza derivante dal suo ambiguo tenore, evidenziata dai diversi indirizzi interpretativi tra una parte della giurisprudenza di merito e quella di legittimità testè ricordata; – non ha inciso su situazioni giuridiche, di natura retributiva e previdenziale, definitivamente acquisite, non ravvisabili in mancanza di una consolidata giurisprudenza dei giudici nazionali che le abbia riconosciute; – non ha inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie, posto che, in realtà, ha fatto propria una soluzione già adottata dalla ricordata giurisprudenza costituzionale e di legittimità; non è dato ravvisarvi profili di irragionevolezza, posto che, nell’esercizio del potere discrezionale in via di principio spettante al legislatore, la finalità di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, destinato peraltro a riproporsi in un gran numero di giudizi, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse generale qual’è la certezza del diritto, configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento di interpretazione autentica (così Cass. 6735/2014 cit.). 42. Peraltro, deve osservarsi che, con la sentenza Carratù (C-36112012) emessa il 12.12.2013 – la Corte di giustizia ha escluso un contrasto dell’art. 32 con la disciplina sovranazionale, anche sotto il profilo della retroattività della norma, in quanto le questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Napoli sotto questo specifico profilo sono state dichiarate assorbite dal rilievo per cui l’Accordo quadro sul lavoro a termine non imponi, di trattare in maniera identica l’indennità corrisposta in caso di illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro e quella versata in caso di illecita interruzione di un contratto a tempo indeterminato. Pertanto, la norma in parola non appare in contrasto nè con l’ordinamento costituzionale, nè con quello sovranazionale (cfr. Cass. 28.3.2014 n. 7372; v., inoltre, da ultimo, Cass., sez. sesta-L, n. 10123/2016). 43. In conclusione entrambi i ricorsi vanno respinti. 44. Le spese di lite si compensano in considerazione della reciproca soccombenza. 45. La circostanza che i ricorsi siano stati proposti in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (sulla ratio della disposizione si rinvia a Cass. Sez. Un. 22035/2014 e alle numerose successive conformi). 46. Essendo i ricorsi in questione (aventi natura chiaramente impugnatoria) da rigettarsi integralmente, deve provvedersi in conformità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; spese compensate. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2016

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