Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17743 del 29/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 29/08/2011, (ud. 10/06/2011, dep. 29/08/2011), n.17743

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15988/2008 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OTRANTO 36,

presso lo studio dell’avvocato MASSANO Mario, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CORNELIO ENRICO, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

V.E.R.I.T.A.S. – VENEZIANA ENERGIA RISORSE IDRICHE TERRITORIO

AMBIENTE SERVIZI S.P.A.,(già A.C.M. S.P.A.), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 44, presso lo studio

dell’avvocato PERSIANI Mattia, che la rappresenta e difende in unione

agli avvocati BORTOLUZZI ANDREA e GIORDANO STEFANO, con atto di

costituzione di nuovo difensore del 30/12/2009 e con delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 732/2007 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 29/02/2008 r.g.n. 434/06;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

10/06/2011 dal Consigliere Dott. SAVERIO TOFFOLI;

udito l’Avvocato CORNELIO ENRICO;

udito l’Avvocato MATTIA PERSIANI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’arch. G.R. adiva il Giudice del Lavoro del Tribunale di Venezia chiedendo che fosse dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimatogli con lettera del 22.11.2004 e la reintegra nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18. Il ricorrente deduceva che la contestazione disciplinare era generica, per omessa specificazione di tempo e di luogo delle condotte addebitate, ed inoltre eccepiva la mancata affissione del codice disciplinare. Nel merito negava gli addebiti, adducendo che spesso visitava gli utenti all’ora di pranzo e consumava talvolta il pasto a casa propria; contestava infine la sproporzione tra sanzione irrogata e fatti addebitati.

La società convenuta, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto del ricorso, in particolare allegando che il lavoratore aveva dichiarato di aver svolto lo straordinario nei giorni in cui invece pranzava a casa e vi si tratteneva fino alle 16 e deducendo che l’autodeterminazione dell’orario e le false dichiarazioni in ordine allo straordinario effettuato integravano violazione alla diligenza e disciplina del lavoro di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto.

Il Tribunale accoglieva il ricorso. Riteneva che il comportamento attuato e contestato al ricorrente rientrasse nell’ipotesi disciplinare dell’ingiustificato abbandono del posto di lavoro, nonchè, per analogia, nell’ipotesi sanzionatoria circa l’abuso di norme relative alla trasferta; riteneva altresì che la dichiarazione mendace sull’effettuazione di straordinario non fosse finalizzata al conseguimento di un compenso non dovuto, ma a “coprire” l’irregolarità temporale nell’effettuazione della prestazione lavorativa. Osservava poi che le ipotesi disciplinari di cui sopra non comportavano, in base alle previsioni del contratto collettivo applicato, la sanzione espulsiva.

A seguito di appello principale della società datrice di lavoro e di appello incidentale del lavoratore, la Corte d’appello di Venezia provvedeva ritenendo configurabile un’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e quindi, riconosciuto il diritto del lavoratore al preavviso, condannava il medesimo a restituire alla ex datrice di lavoro la differenza tra quanto percepito in forza della sentenza di primo grado e quanto spettante a titolo di indennità sostitutiva del preavviso secondo il c.c.n.l. del settore gas-acqua.

La Corte d’appello, circa la riproposta eccezione di genericità della contestazione, rilevava che la datrice di lavoro, a fronte della richiesta, in data 30.10.2004, sottoscritta dal lavoratore, oltre che dal suo difensore, di specificazione degli addebiti formulati, aveva inviato la lettera racc. A.R. in data 8.11.2004, indirizzata all’avv. Comelio, cioè al suddetto difensore, con la quale si precisavano i singoli giorni nei quali il dipendente si era recato a casa propria e ivi si era trattenuto fino alle 16, in luogo di prestare attività lavorativa. Nè era condivisibile l’assunto secondo cui tale ultima missiva, in quanto non inviata al lavoratore ma al suo difensore, fosse inidonea ad integrare la precedente, dato che la lettera in data 30.10.2004 era stata sottoscritta anche dal G., cosicchè la conseguente risposta era evidentemente diretta anche all’appellato. Peraltro l’invio della contestazione integrativa al difensore era funzionale al perseguimento della finalità di garantire un’idonea difesa dell’incolpato, tenuto anche presente che non era stato messo in dubbio che il G. fosse stato informato dal suo difensore del contenuto della comunicazione in data 8.11.2004. Peraltro, la circostanza che la citata lettera di data 30.10.2004 fosse stata sottoscritta congiuntamente dal difensore e dal lavoratore induceva fondatamente a ritenere la sussistenza di specifico rapporto di rappresentanza e dunque l’invio della specificazione degli addebiti al difensore costituiva garanzia di maggior tutela.

Quanto alla dedotta mancata affissione del codice disciplinare, il giudice di appello attribuiva rilievo al fatto che la società appellante aveva documentato che il G. aveva sottoscritto una dichiarazione di constatazione dell’affissione del codice disciplinare e aveva altresì documentato che con comunicazione di data 12.8.2002 erano stati resi edotti tutti i dipendenti dell’affissione del codice disciplinare nelle bacheche delle varie sedi dell’azienda.

Peraltro la Corte di merito riteneva anche che il tipo di contestazione e il mancato riferimento in essa una specifica fattispecie disciplinare, faceva ritenere che le mancanze siano state configurate come gravi inadempimento ex art. 2104 c.c., integranti giusta causa di recesso o finanche fattispecie criminose di rilevanza penale (dichiarazioni mendaci dirette a conseguire un ingiusti profitto).

Quanto al merito, la Corte, richiamati i termini precisi della contestazione e della contestazione integrativa, rilevava che non era più messa in dubbio la ricostruzione in fatto pienamente provata dalla controparte, sostenendosi invece che non sussisteva l’intento fraudolento, dal momento che il lavoratore era stato sollecitato a consegnare il foglio di servizio, contenente l’attestazione circa il lavoro straordinario prestato in settembre, nel mese di ottobre, quando la datrice di lavoro già conosceva i fatti contestati. Egli, peraltro, aveva effettivamente prestato servizio dopo le ore 17.25, sicchè non aveva reso una dichiarazione mendace ma conforme alle timbrature. Deduceva anche che nella specie la truffa costituiva reato impossibile ex art. 48 c.p., non potendosi trarre in errore chi aveva accertato i fatti.

Al riguardo la Corte osservava che la teste B. non aveva dichiarato di avere sollecitato l’appellato a consegnare il foglio di servizio nel mese di ottobre, ma che ricordava di averlo fatto nel mese di maggio e per una sola volta. Rilevava anche che il foglio di servizio era in data 7.10.2004, mentre la relazione degli investigatori privati era datata 11.10.2004. Ricordava poi la Corte che le condotte in contestazione concernevano l’attestazione da parte del dipendente di avere prestato un orario superiore rispetto a quello effettivamente prestato nelle specificate 11 giornate del mese di settembre e di avere quindi indicato come prestato uno straordinario inesistente.

Valutate complessivamente, le condotte in contestazione non erano qualificabili come abbandono del posto di lavoro, condotta che non comporta concomitanti o successivi inadempimenti finalizzati a occultarne la commissione al datore di lavoro; inoltre doveva sottolinearsi che nella specie vi era una dichiarazione falsa resa al datore di lavoro, preceduta da una timbratura irregolare. Neanche erano ravvisabili pertinenti analogie con l’ipotesi disciplinare dell’abuso delle norme relative ai rimborsi delle spese di trasferta.

Ai fini della gravità della condotta doveva tenersi presente che il lavoro dell’appellato, consistente in ispezioni di cantieri, si svolgeva prevalentemente fuori sede, sostanzialmente senza possibilità di controllo da parte del datore di lavoro circa l’orario concretamente osservato, e che vi era stata reiterazione e pluralità delle condotte. In conclusione, la modalità dei fatti connotavano di indubbia gravità le condotte del lavoratore, non solo dirette a sottrarsi all’esecuzione dei compiti assegnati, ma anche contrarie a buona fede e a correttezza. Tale valutazione trovava conferma nel fatto che il contratto collettivo prevedeva, a titolo esemplificativo di comportamenti sanzionabili con licenziamento con preavviso, la condotta di chi effettua con intenti fraudolenti irregolare scritturazione o timbratura di schede o alterazione dei sistemi aziendali di controllo delle presenze e delle trasferte.

Il G. ricorre per cassazione con tre motivi, la società intimata resiste con controricorso. Memorie di entrambe le parti.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo, denunciando violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, con riferimento all’art. 1335 c.c., sostiene che nella specie è mancata la specificazione dei motivi di contestazione disciplinare, in quanto la lettera contenente la specificazione dei motivi era stata inviata in luogo diverso dal domicilio del lavoratore e a soggetto diverso dal medesimo.

Il motivo non è fondato. Deve rilevarsi infatti che, nell’ambito delle varie considerazioni svolte dalla Corte d’appello a conferma della regolarità della contestazione disciplinare, con particolare riferimento alla comunicazione della contestazione integrativa, ha rilievo decisivo e assorbente il conclusivo rilievo secondo cui, essendo stata la lettera in data 30.10.2004 sottoscritta congiuntamente dal difensore e dal lavoratore, doveva ritenersi sussistente uno specifico rapporto di rappresentanza (del lavoratore da parte del difensore), e quindi la comunicazione della contestazione integrativa al legale costituiva garanzia di maggior tutela. Tale accertamento sul rapporto di rappresentanza e della sua rilevanza anche ai fini della esecuzione delle comunicazioni relative alla procedura in corso (e in particolare della fase di contestazione) non ha formato oggetto di censura in questa sede e quindi non può dubitarsi della idoneità della comunicazione della contestazione integrativa eseguita al legale del lavoratore.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dell’art. 2697 c.c. e vizio logico di motivazione, in merito all’asserita irrilevanza e alla ritenuta sussistenza della prova dell’affissione del codice disciplinare nella sede di lavoro.

Si osserva contraddittorietà nella motivazione, là dove ha ritenuto che la contestazione fosse estranea alle previsioni del codice disciplinare, in quanto di fatto aveva riportato la questione ai termini contrattuali, con riferimento ad una condotta tipica prevista dall’art. 32 del c.c.n.l..

Si deduce poi contraddittorietà e violazione dei principi sull’onere della prova nell’avere ritenuto che la (generica) presa d’atto del lavoratore dell’avvenuta affissione del codice disciplinare fosse idonea anche a dimostrare che l’affissione fosse avvenuta presso la sede di lavoro del ricorrente, oltre che presso la sede aziendale.

Le doglianze appaiono prive di pregio, in quanto si è in presenza di un compiuto e logico accertamento in linea di fatto da parte del giudice di merito circa la regolarità dell’affissione del codice disciplinare anche presso l’unità produttiva cui era addetto l’attuale ricorrente.

Il terzo motivo denuncia violazione del principio di immodificabilità della contestazione di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e vizio di motivazione, visto che al lavoratore non era stato mai contestato un comportamento fraudolento di alterazione delle timbrature e di avere indotto il datore di lavoro in errore, inducendolo al pagamento di una somma non dovuta.

Al riguardo deve ricordarsi e ribadirsi il principio ripetutamente enunciato da questa Corte, secondo cui la contestazione dell’addebito nel procedimento disciplinare, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, è corretta se ha ad oggetto i dati e gli aspetti essenziali del fatto materiale posto a fondamento del provvedimento sanzionatorio, così da garantire un’adeguata difesa dell’incolpato, con la conseguenza che l’immodificabilità della causa di licenziamento riguarda solo gli elementi di fatto e non già la qualificazione dei medesimi (cfr. Cass. n. 16190/2002, 10761/1997).

Nella specie appare indubbio che la contestazione abbia chiaramente riguardato gli elementi materiali e gli aspetti essenziali del fatto materiale addebitato al lavoratore, essendo stata formulata nei seguenti termini, riportati in sentenza: “Ci è stata fornita la prova che Lei anzichè prestare attività lavorativa per la nostra azienda di frequente si sarebbe recato dopo la pausa pranzo (verso le quattordici) a casa sua e ivi si sarebbe trattenuto oltre le 16,00 riprendendo da tale ora il suo giro lavorativo che si sarebbe protratto fino ad oltre le 18,00, fine dell’orario così da Lei indicato e da Lei fattosi retribuire con compenso lavoro straordinario” (venendo successivamente precisati con la contestazione integrativa i giorni in cui tale condotta si era verificata). Deve anche rilevarsi che dal complesso della sentenza d’appello risulta chiaro che la “irregolarità” delle timbrature è stata affermata per il fatto che ne risultava un orario di lavoro dilatato rispetto a quello effettivamente prestato e non un altro tipo di alterazione delle timbrature stesse. Anche la circostanza della richiesta di retribuzione di lavoro straordinario effettivamente non prestato risulta sostanzialmente contenuta nell’ultimo inciso della contestazione.

Anche questo motivo non può quindi ritenersi fondato.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio sono regolate in base al criterio legale della soccombenza (art. 91 c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio in Euro 52,00 oltre Euro duemila per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. secondo legge.

Così deciso in Roma, il 10 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2011

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