Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17734 del 07/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 07/09/2016, (ud. 23/06/2016, dep. 07/09/2016), n.17734

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18460/2014 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), società con socio unico, in persona

del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO 23, presso lo

studio dell’avvocato GIAMPIERO PROIA, che la rappresenta e difende,

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

e contro

Q.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 990/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

30/01/2013, depositata il 07/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/06/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSANA MANCINO;

udito l’Avvocato MATTEO SILVESTRI, giusta delega allegata al verbale

dell’Avv.to PROIA, difensore del ricorrente, che si riporta ai

motivi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c., a seguito di relazione a norma dell’art. 380-bis c.p.c., condivisa dal Collegio e non infirmata dalla memoria depositata dalla parte ricorrente. 2. La Corte d’appello di Roma, in accoglimento del gravame svolto dalla lavoratrice, ha dichiarato nullo il termine apposto al contratto a tempo determinato, stipulato con Poste Italiane S.p.A., per il periodo 12/12/2001-31/1/2002, “per esigenze tecniche, organizzative e produttive della struttura operativa ove viene assegnata, connesse anche al maggior traffico postale del prossimo periodo delle festività natalizie”, con condanna della società al pagamento dell’indennità risarcitoria L. n. 183 del 2010, ex art. 32, nella misura di tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione monetaria ed interessi. 3. Avverso questa sentenza Poste Italiane s.p.a. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi. 4. La lavoratrice è rimasta intimata. 5. I motivi proposti dalla società si riassumono come segue: violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 c.c. e art. 115 c.p.c., per avere la Corte di appello inesattamente escluso che il rapporto di lavoro fra le parti si fosse comunque estinto per implicito mutuo consenso laddove il lungo tempo trascorso dalla scadenza del termine alla manifestazione dell’interesse del lavoratore alla instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sei anni e mezzo) rappresentava quel quid pluris che conferisce al silenzio la valenza di espressione di adesione del lavoratore alla risoluzione consensuale (primo motivo); violazione e falsa applicazione di norme di diritto (D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11), dell’art. 25 del c.c.n.l. 2001, dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., per avere ritenuto illegittimo il contratto in esame per l’indimostrato rispetto del limite di contingentamento, erroneamente applicando, alla fattispecie, il predetto limite (secondo motivo). 6. Il primo motivo è manifestamente infondato. 7. In via di principio, è ipotizzabile una risoluzione del rapporto di lavoro per fatti concludenti (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007, n 15264; Cass. 7 maggio 2009, n. 10526); l’onere di provare circostanze significative al riguardo grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070 e Cass. 2 dicembre 2000, n. 15403); la relativa valutazione da parte del giudice costituisce giudizio di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non sussistono vizi logici o errori di diritto (v. Cass. 10 novembre 2008, n. 26935; Cass. 28 settembre 2007, n. 20390); la mera inerzia del lavoratore nel contestare la clausola appositiva del termine, così come la ricerca medio tempore di una occupazione, non sono sufficienti a far ritenere intervenuta la risoluzione per mutuo consenso. 8. In particolare, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n. 5782, “quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per se neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione del rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v, da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del t.f.r. nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)” – si vedano, in termini, anche le recenti Cass. 7 aprile 2014, n. 8061, Cass. 20 marzo 2014, n. 6632. 9. In ogni caso, la valutazione del comportamento tenuto dalle parti c di eventuali circostanze significative di una consensuale tacita volontà in ordine alla risoluzione del rapporto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto. 10. Orbene, nel caso in esame, la Corte di appello ha respinto l’eccezione di scioglimento del vincolo contrattuale sul rilievo che fosse mancata ogni allegazione e prova di condotte concludenti utili a rappresentare la disaffezione del lavoratore, essendo rimasta detta eccezione meramente fondata sul decorso del tempo (che non è di per sè espressione di una tacita rinuncia a coltivare il diritto a far accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto). 11. E’ manifestamente infondato anche il secondo motivo, con cui la società denuncia che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 10, prevede l’esenzione da limitazioni quantitative per i contratti a tempo determinato conclusi, come nella specie, per intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno. 12. La sentenza impugnata correttamente ha applicato la disciplina pregressa ex L. n. 56 del 1987, prevista dall’art. 25 del ccnl 2001, in virtù della normativa transitoria di cui all’art. 11 del citato D.Lgs., pur essendo stato il contratto de qua stipulato in data successiva all’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo. 13. Come precisato da questa Corte, “in materia di assunzione a termine dei lavoratori subordinati, la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, che attribuisce alla contrattazione collettiva la possibilità di identificare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine, continua a trovare applicazione anche a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001, che pure ne reca la formale abrogazione, in relazione alle clausole dei contratti collettivi di lavoro precedentemente stipulati sotto la vigenza della Legge del 1987 ed ancora in corso di efficacia al momento dell’entrata in vigore del citato D.Lgs. fino alla scadenza dei contratti collettivi, atteso che la disciplina transitoria, desumibile dal D.Lgs. n. 368, art. 11, ha proprio la finalità di garantire una transizione morbida tra il vecchio ed il nuovo sistema” (v, ex multis, Cass. 48-2008 n. 21092 e successive). 14. Quanto all’onere della prova dell’osservanza della percentuale dei lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati dall’azienda con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la giurisprudenza di legittimità (cfr., in particolare, Cass. 19 gennaio 2010 n. 839 e, più di recente, Cass. 19 gennaio 2013 n. 701) ha ripetutamente precisato che il relativo onere è a carico del datore di lavoro, in base alla regola esplicitata dalla L. n. 230 del 1962, art. 3, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro. 15. Orbene, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tale principio valutando se il materiale probatorio offerto dalla società fosse o meno idoneo a dimostrare l’osservanza del limite percentuale fissato dalla contrattazione collettiva per il ricorso al contratto a termine. i 6. Nell’ambito di tale valutazione ha, quindi, rilevato, con riferimento ai dati forniti dalla società, che per la determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine non è sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, in modo da verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine (v. Cass. 19.01.10 n. 839) con la conseguenza che è insufficiente la prova del numero medio dei contratti a termine stipulati nell’anno di riferimento, essendo necessario dimostrare che, nel momento dell’assunzione della lavoratrice, il numero percentuale dei contratti in questione fosse inferiore al 5% dei dipendenti a tempo indeterminato (v., ex multis, Cass. sez. sesta – L 6200/2016). 17. In conclusione, il ricorso deve essere respinto. 18. Non si provvede alla regolamentazione delle spese per non avere la parte intimata svolto attività difensiva. 19. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (sulla ratio della disposizione si rinvia a Cass. Sez. Un. 22035/2014 e alle numerose successive conformi). 20. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) da rigettarsi integralmente, deve provvedersi in conformità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; nulla spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2016

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