Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17731 del 07/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 07/09/2016, (ud. 06/07/2016, dep. 07/09/2016), n.17731

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARIENZO Rosa – Presidente –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13726/2014 proposto da:

B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DELL’EMPORIO

16/A, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE GUIZZI, che la

rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

REGIONE CAMPANIA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 7732/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI del

15/11/2013, depositata il 13/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/07/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FABRIZIA GARRI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Benevento che aveva rigettato la domanda di B.A. tesa ad ottenere l’erogazione delle somme spettanti a titolo di reddito di cittadinanza per gli anni 2005 e 2006 Il giudice di appello in esito alla ricostruzione del quadro normative di riferimento (L.R. Campania n. 2 del 2004, art. 3, comma 3, art. 4, art. 7, Regolamento n. 1 del 4 giugno 2004, L.R. Campania n. 4 del 2011, L. 7 dicembre 2010, n. 16, art. 19, comma 2) ha ritenuto che anche a seguito di interpretazione autentica intervenuta con la L.R. n. 4 del 2011, correttamente la Regione ha fissato in Euro 350,00 l’importo mensile da erogare a titolo di reddito di cittadinanza a coloro che si erano utilmente collocati in graduatoria. Per la cassazione della sentenza ricorre B.A. ed articola due motivi coli i quali denuncia la violazione e falsa applicazione della L.R. Campania 19 febbraio 2004, n. 2, artt. 2 e 3 e della L.R. Campania 15 marzo 2011, n. 4, art. 1. comma 208. La Regione Campania è rimasta intimata. Tanto premesso le censure, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente, sono manifestamente infondate. La L.R. Campania 15 marzo 2011, n. 4, nel riconoscere il reddito di cittadinanza ai soli richiedenti utilmente collocati in graduatoria, e nei limiti dello stanziamento per il relativo ambito, comporta una determinazione in misura fissa e non variabile della prestazione cd ha natura di legge di interpretazione autentica della L.R. Campania 19 febbraio 2004, n. 2, art. 2 e art. 3, comma 1, poichè predilige una delle interpretazioni possibili delle norme interpretate, senza che rilevi, in senso contrario, la pregressa diversa interpretazione delle Sezioni Unite e senza che, pertanto, sia elusiva dell’obbligo di osservanza delle norme sovranazionali in violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6, par. 1, della CEDU. Nè, in tal modo, si realizza un’ingiustificata interferenza nell’amministrazione della giustizia, in quanto la sua efficacia retroattiva – comunque insuscettibile di incidere su diritti retributivi e previdenziali definitivamente acquisiti – è giustificata dalla necessità di tutelare interessi costituzionalmente protetti, quali la concretezza degli interventi assistenziali e il rispetto delle esigenze di bilancio dell’ente erogatore (cfr. Cass., 5 giugno 2014, n. 12644 e più recentemente Cass. n. 12180 del 2015). TI mutamento del quadro normativo, rispetto a quello esaminato dalle sezioni unite nella sentenza n. 18840 del 2010, ha indotto la Corte a rivedere la questione della misura fissa o variabile, del “reddito di cittadinanza”, tenendo conto dell’intervento di interpretazione autentica sopravvenuto con la L.R. 15 marzo 2011, n. 4, art. 1, comma 208, secondo cui della L.R. 19 febbraio 2004, n. 2, art. 2 e art. 3 comma 1, di istituzione in via sperimentale del reddito di cittadinanza, si interpretano nel senso che il reddito di cittadinanza è corrisposto ai soggetti utilmente collocati in ciascuna graduatoria d’ambito, secondo le modalità definite dal regolamento di attuazione 4 giugno 2004 n. 1 fino all’esaurimento delle risorse disponibili assegnate al relativo ambito. Correttamente il giudice di appello ha tenuto conto dello “ius superveniens” tenuto conto della natura normativa, di rango primario (ancorchè regionale), rivestita dalla disposizione, come tale non disapplicabile incidentalmente (come invece sarebbe stato possibile se si fosse trattato di un semplice atto amministrativo) dal giudice, tenuto invece a conformarvisi, salvo il rilievo di eventuali profili di incostituzionalità. Neppure, poi, la soluzione adottata si espone a censure di incostituzionalità. Come ritenuto dalle sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 12180 del 2015, “la preesistenza, a tale intervento legislativo, di una pronunzia giurisprudenziale, ancorchè autorevole, quale quella costituita dalla sentenza in precedenza citata di queste sezioni unite (che tra le possibili opzioni ermeneutiche consentite dalle controverse disposizioni del 2004, aveva prescelto quella della frazionabilità senza limiti, fra tutti gli istanti legittimati, degli stanziamenti assegnati a ciascun ambito territoriale), non avrebbe potuto autorizzare a conferire, tra le due interpretazioni, quella giurisprudenziale e quella legislativa, preminenza alla prima, non solo per l’assenza di carattere normativo ascrivibile alla stessa, ma anche e soprattutto per la considerazione che, in quanto emessa “legibus sic stantibus”, la soluzione adottata sarebbe comunque rimasta superata da quella, di natura “autentica” proveniente dalla stessa fonte legislativa, vale a dire da quella autorità che, avendo a suo tempo emesso le disposizioni in questione era quella naturalmente ed istituzionalmente preposta a chiarirne la relativa portata. Inaccettabile è, pertanto, l’assoluta svalutazione di tale intervento normativo, ritenuto “tamquam non esset”, nella quale è incorso (proponendo una “interpretazione” totalmente vanificatrice di una norma che, a sua volta, era espressamente finalizzata, nella dichiarata intenzione del legislatore regionale, ad interpretarne un’altra precedente dallo stesso emessa) il giudice di merito, laddove, fornendo una lettura della sopravvenuta disposizione, tale da svuotarne del tutto la portata precettiva, neppure ha tenuto conto della generale regola ermeneutica cd. “di conservazione degli atti”, espressamente codificata dall’art. 1367 c.c., in materia contrattuale, ma da ritenersi operante, in quanto espressione di un sovraordinato principio generale insito nel sistema, anche e soprattutto in tema di interpretazione della legge, sulla scorta della quale tra le diverse accezioni possibili di una disposizione (normativa, amministrativa o negoziale), deve propendersi per quella secondo cui la stessa potrebbe aver qualche effetto, anzichè nessuno”. Prosegue ancora la Corte osservando che “in un contesto nel quale l’originario complesso di disposizioni contenuto nella L.R. n. 2 del 2004 e nel suo regolamento di attuazione dava adito a ragionevoli dubbi interpretativi (laddove la predeterminazione dei trecentocinquanta Euro mensili avrebbe potuto intendersi sia quale misura massima del “reddito di cittadinanza” erogabile, sulla scorta di successivi atti dell’amministrazione, fissandone, di volta in volta, l’importo in ciascun esercizio, ai soggetti risultanti più bisognosi, tra quelli in possesso dei prescritti requisiti minimali di accesso al beneficio, sia quale tetto massimo di una provvidenza variabile, senza limiti minimi, dovuta a tutti gli istanti legittimati) insindacabile deve ritenersi la scelta della Regione Campania di adottare una soluzione che, chiarendo la portata del precedente e controverso quadro normativo, ha ritenuto di prescegliere quella ritenuta più idonea a conferire effettività e consistenza economica all’erogazione in questione, confermando la funzione di quella “graduatoria” (rum mero elenco) d’ambito, indicata nel regolamento di attuazione n. 1 del 2004, art. 5, comma 3, che altrimenti non avrebbe avuto alcun senso” (cfr. Cass. s.u. ult. cit. n. 12180 del 2015). La finalità di attribuire effettività e consistenza economica all’erogazione sottrae l’intervento normativo di interpretazione autentica della norma ad ogni profilo di censura, con riferimento all’art. 3 Cost.. In tema di interpretazione autentica con efficacia retroattiva è rispettato il principio generale di ragionevolezza, così come desumibile dalla corrente giurisprudenza della Corte Costituzionale, ove, come nella specie, sia fornita una delle possibili interpretazioni della precedente norma, di significato ambiguo ed obiettivamente controvertibile. Neppure sono ravvisabili profili di illegittimità costituzionale, in relazione all’obbligo ex art. 117 Cost., comma 1, di osservanza delle norme sovranazionali con riferimento sia all’art. 6, par. 1, della CEDU, sia alla normativa comunitaria, segnatamente all’art. 34, comma 3, della cd. “Carta di Nizza” (che a seguito del Trattato di Lisbona è stata recepita nel tessuto normativo fondativo dell’Unione Europea), secondo cui “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale…a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali”. Al riguardo è stato ancora osservato che “la norma, lasciando un largo margine discrezionale agli stati aderenti, non prevede direttamente quali siano i criteri per l’individuazione dei soggetti destinatari degli interventi in questione. Ne consegue che una disposizione come quella in esame, che dopo l’istituzione del beneficio non lo ha del tutto abolito (come invece avvenuto con la L.R. n. 16 del 2010, art. 19, comma 2), provvedendo soltanto a chiarirne la portata applicativa, per il periodo in cui era stato in vigore, peraltro “in via sperimentale”, non contrasta con il principio ispiratore di tale adozione, mirando soltanto a conferire, nell’esercizio dei sopra evidenziati ampi spazi discrezionali conferiti dalla norma sovranazionale, chiarezza ed effettività (con l’attribuzione di una somma mensile di una certa consistenza) alla provvidenza economica, nel senso di adottare un criterio di maggiore aderenza agli intenti perseguiti, consistenti nell’individuare, nell’ambito delle varie comunità locali e sulla scorta di quelle “graduatorie” previste dall’art. 5, comma 4, del regolamento attuativo, i nuclei familiari più bisognosi tra quelli in possesso dei requisiti di accesso al beneficio, così utilizzando fino all’esaurimento i relativi (e necessariamente limitati) stanziamenti destinati ai rispettivi ambiti territoriali, anzichè provvedere ad una ripartizione eccessivamente parcellizzante delle relative risorse finanziarie, tale da degradare le erogazioni a livelli di mera beneficenza. Le su evidenziate finalità dell’intervento d’interpretazione autentica e la necessità della relativa adozione comportano anche l’insussistenza di alcun contrasto con l’art. 6 della CEDU, dovendo escludersi che lo stesso abbia concretato un’ingiustificata interferenza nell’amministrazione della giustizia, alla luce giurisprudenza del Giudice delle leggi, che queste sezioni unite condividono, secondo cui, lasciando la normativa sovranazionale un margine discrezionale di apprezzamento al legislatore nazionale, gli effetti sostanzialmente retroattivi (fatti salvi, ovviamente, i rapporti già definiti) della norma interpretativa risultano legittimi allorquando siano giustificati dall’attribuita preminenza ad altri interessi costituzionalmente protetti (v. sent. n. 264 del 2012), come sono quelli, nella specie perseguiti, di conferire concretezza ed efficienza agli interventi assistenziali (in funzione della concreta rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale” di cui all’art. 3 Cost., comma 2), tuttavia necessariamente limitati nella loro consistenza complessiva dalle ineludibili esigenze di bilancio dell’ente erogatore, condizionanti il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.). Tali esigenze risultano ancor più evidenti in un contesto nel quale la Regione, avendo a suo tempo esaurirci tutte le precedenti risorse (seguendo il criterio dell’attribuzione della somma di Euro 350,00 ai soli nuclei familiari utilmente collocati nelle graduatorie dei relativi ambiti territoriali), non sarebbe stata più in grado di far fronte alle numerosissime istanze dei rimanenti, il cui accoglimento (secondo il diverso criterio della ripartizione tra tutti i richiedenti legittimati) sarebbe peraltro risultato pressochè irrilevante agli effetti dell’attenuazione dello stato di bisogno degli interessati” (cfr. Cass. s.u. n. 12180 del 2015 cit.). Poichè la Corte territoriale si è attenuta ai principi sopra richiamati la sentenza deve essere confermata. In conclusione il ricorso manifestamente infondato deve essere rigettato mentre le spese del giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti avuto riguardo al recente intervento delle sezioni unite di questa Corte. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2016

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