Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17718 del 29/08/2011

Cassazione civile sez. II, 29/08/2011, (ud. 23/06/2011, dep. 29/08/2011), n.17718

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. PROTO Cesare Antonio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.G. (C.F.: (OMISSIS), rappresentata e difesa,

in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Cundari

Gaetano ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv.

Marcello Magnano di San Lio, in Roma, v. Dei Gracchi, n. 187;

– ricorrente –

contro

S.G. (C.F.: (OMISSIS)) e S.M.

T. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentati e difesi, in virtù

di procura speciale in calce al controricorso, dagli Avv.ti Pantò

Giuseppe A. e Giacomo Sibilio ed elettivamente domiciliato presso lo

studio del secondo, in Roma, v. Monte Santo, n. 25;

– controricorrenti –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Catania n. 155/2005,

depositata il 12 febbraio 2005;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 23

giugno 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

udito l’Avv. Gaetano Cundari per la ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 8 marzo 1986 S. G. e S.M.T. convenivano R.G. dinanzi al Tribunale di Catania chiedendone la condanna alla rimozione di una serie di opere (un vano, una parte di cancello, nuove fabbriche a distanza illegale, vedute, un’antenna) illegittimamente realizzate, in danno della proprietà di essi istanti, nella porzione di fabbricato di sua proprietà sito in (OMISSIS), nonchè la condanna alla costruzione di un muro divisorio tra le due sezioni di cortile di rispettiva proprietà delle parti in base alle modalità pattuite nell’atto rogato per notar De Leonardis dell’8 novembre 1962, ad astenersi dall’occupare un piccolo vano e un vano cieco di proprietà di essi attori, dall’entrare e dall’occupare la porzione di cortile di loro proprietà, oltre che a risarcire i danni generici derivati e derivanti dalle illegalità e inadempienze imputabili alla R., da liquidare in separata sede.

Nella costituzione della convenuta, espletata la complessa istruttoria, il G.O.A. del Tribunale adito assegnatario dei processo, con sentenza emessa il 12-26 marzo 2001, rigettava le domande proposte dagli attori e revocava l’ordinanza possessoria emessa ai sensi dell’art. 704 c.p.c., compensando interamente tra le parti le spese del giudizio. A seguito di appello interposto da S. G. e S.M.T., nella resistenza dell’appellata, la Corte di appello di Catania, con sentenza n. 155 del 2005 (depositata il 12 febbraio 2005), accoglieva, per quanto di ragione, il gravame e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, condannava R.G. ad eliminare le vedute illegali che si esercitavano dalla terrazza di copertura e dalle finestre del corpo di fabbrica C, nonchè a costruire un muro divisorio tra il cortile di proprietà degli appellanti e quello dell’appellata sul tratto di confine tra i vertici 2-18-19-20-21, tracciato dal c.t.u. in verde nella tavola 2 allegata alla relazione; compensava, inoltre, per metà le spese giudiziali, condannando la R.G. alla rifusione della residua metà in favore degli appellanti.

A sostegno dell’adottata decisione, la Corte territoriale rilevava che le domande degli appellanti (originari attori) potevano ritenersi fondate nei limiti di cui al richiamato dispositivo sulla scorta delle risultanze della c.t.u. e delle emergenze delle altre prove documentali.

Avverso la suddetta sentenza di appello (non notificata), ha proposto rituale ricorso per cassazione la R.G., articolato in cinque motivi, al quale hanno resistito con controricorso S. G. e S.M.T., il cui difensore ha depositato anche memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente – ponendo riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. – ha dedotto la violazione ed errata applicazione dell’art. 112 c.p.c.. Secondo la prospettazione della difesa della R. la Corte territoriale sarebbe incorsa, con la pronuncia impugnata, nel vizio di ultrapetizione avendo delibato sulla questione relativa all’avvenuta declaratoria del suo acquisto per usucapione, che si sarebbe dovuta considerare ormai definitiva perchè non aveva formato espressamente motivo di appello.

1.1. Rileva il collegio che il motivo è infondato e deve, pertanto, essere respinto.

Per come evincibile dagli atti (esaminabili anche in questa sede in relazione alla natura processuale del vizio dedotto) e dallo svolgimento del processo desumibile dalla stessa sentenza impugnata, i sigg. S.G. e S.M.T., nella proposizione dell’atto di appello, nell’insistere per il rigetto di ogni contraria istanza e in totale riforma della sentenza di primo grado, avevano chiesto l’accoglimento delle domande formulate nel giudizio di prima istanza, con la conseguenza che, nel “petitum” complessivamente dedotto in sede di gravame, si sarebbe dovuta ricomprendere anche la reiezione dell’eccezione riconvenzionale di usucapione avanzata dalla R.. Del resto la manifestazione di tale volontà degli appellanti si evince univocamente anche dalle conclusioni dagli stessi precisate e ribadite all’esito del giudizio di appello (v. pag. 2 della sentenza della Corte di appello di Catania) e, peraltro, la stessa Corte territoriale, nella sentenza impugnata (v. pag. 18, in motivazione), perviene al rigetto dell’eccezione di usucapione sollevata dalla convenuta sull’ovvio presupposto che la relativa questione aveva costituito oggetto del “thema decidendum” dell’appello e, quindi, delle domande e delle relative difese riproposte in sede impugnatoria.

Per tali ragioni, dunque, la censura di ultra petizione dedotta dalla ricorrente è da qualificarsi infondata.

2. Con il secondo motivo – formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. – la ricorrente ha denunciato l’omessa, insufficiente e contraddittoria della sentenza impugnata per contrasto con l’art. 112 c.p.c., avuto riguardo all’accoglimento della richiesta di costruzione dei muro secondo le indicazioni dell’atto pubblico dell’8 novembre 1962, disattendendo sia le risultanze della c.t.u. che gli estremi riconducibili alla stessa istanza delle parti interessate.

2.1. Anche questo motivo è privo di pregio e va respinto.

La Corte territoriale, fornendo una motivazione del tutto logica ed adeguata rapportata sia all’esame del titolo giustificativo (l’atto pubblico dell’8 novembre 1962) che alla valutazione della condizione oggettiva dei luoghi, hanno accolto proprio la domanda dei S. tendente all’ottenimento della condanna della R. alla costruzione di un muro divisorio tra le due sezioni di cortile di rispettiva di proprietà delle parti. Al riguardo, esternando un percorso argomentativo assolutamente congruo, la Corte territoriale ha fondato la sua decisione sul punto corrispondente alla specifica domanda degli appellanti basandosi sulle risultanze della prova documentale coincidente con il predetto titolo, individuando le modalità realizzative conformemente alle conclusioni rassegnate nella relazione della c.t.u. di primo grado, ritenendo superflua, nell’esercizio di un suo legittimo potere discrezionale, la rinnovazione delle operazioni peritali.

3. Con il terzo motivo la ricorrente ha dedotto – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – l’omessa motivazione su un punto controverso della causa, con riferimento agli artt. 1183 e 2946 c.c. ed in ordine alla mancata declaratoria di inammissibilità della richiesta di costruzione del muro di confine, la cui relativa obbligazione non era stata sottoposta ad un termine di esecuzione.

3.1. Anche questa censura è infondata e, perciò, deve essere rigettata. La Corte territoriale, con motivazione altrettanto adeguata, ha statuito che l’obbligazione della R. relativa alla costruzione del muro di confine tra la porzione di cortile di sua proprietà quella di proprietà dei S. era chiaramente evincibile da apposita clausola dello stesso atto pubblico dell’8 novembre 1962 (riportata nella stessa motivazione) e che, in conseguenza del persistente inadempimento della medesima R. malgrado i vari solleciti alla stessa rivolti, i S. si erano visti costretti a chiederne l’adempimento in sede giudiziale, considerandosi che l’esecuzione della relativa prestazione non era stata assoggettata ad alcun termine e che, perciò, sarebbe stata esigibile su loro richiesta in ogni tempo, senza, peraltro, che nei gradi di merito risulti dedotta la questione relativa alla prescrizione del relativo diritto in favore degli odierni controricorrenti, la quale, perciò, deve considerarsi inammissibilmente avanzata dalla ricorrente (in quanto nuova) con la doglianza in esame.

4. Con il quarto motivo la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata – avuto riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – per omessa motivazione, con riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c., avuto riguardo alla supposta illogicità circa il ragionamento della Corte territoriale sul mancato raggiungimento della prova che essa ricorrente aveva realizzato le opere (munite delle vedute) contestate coevamente all’acquisto dell’immobile e posseduto il cortile “uti dominus” fin dagli anni sessanta.

5. Con i quinto ed ultimo motivo la ricorrente ha dedotto – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la violazione dell’art. 1158 c.c., con riferimento all’esclusione dell’animus possidendi” in capo alla stessa R. idoneo ai fini dell’acquisto per usucapione dei beni dedotti in controversia.

5.1. Anche questi ultimi due motivi (e, in effetti, il quinto, malgrado la riportata rubrica, investe piuttosto una critica ulteriore alla motivazione della sentenza impugnata sotto il profilo della valutazione dell’insussistenza dell’elemento psicologico utile “ad usucapionem”), che possono essere esaminati congiuntamente perchè strettamente connessi, sono destituiti di fondamento e vanno, pertanto, respinti. Sul piano generale è risaputo che, affinchè si abbia utile ed idoneo possesso ai fini dell’usucapione è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo e non interrotto che dimostri inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il potere corrispondente a quello dei proprietario o del titolare di uno “ius in re aliena”, e, quindi, una signoria sulla cosa che permanga per tutto il tempo indispensabile per usucapire, senza interruzione, sia per quanto riguarda T’animus” che il “corpus”, e che non sia dovuta a mera tolleranza, la quale è da ravvisarsi tutte le volte che il godimento della cosa, lungi dal rivelare l’intenzione del soggetto di svolgere un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, tragga origine da spirito di condiscendenza o da ragioni di amicizia o di buon vicinato. Inoltre, è parimenti indiscusso che l’accertamento relativo al possesso “ad usucapionem”, alla rilevanza delle prove ed alla determinazione del decorso del tempo utile al verificarsi dell’usucapione è devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici.

Orbene, sulla scorta di tali presupposti, va evidenziato che la Corte territoriale, ricorrendo ad un impianto argomentativo complessivo del tutto logico, univoco e congruo, ha escluso che, nella fattispecie, ricorressero le condizioni per il riconoscimento, in capo alla R., di un possesso propriamente idoneo “ad usucapionem” sia sotto l’aspetto oggettivo che sotto il profilo soggettivo. Ed infatti, nell’esercizio del suo libero convincimento adeguatamente confortato sul piano della correlata logicità della motivazione, la Corte sicula, ha rilevato che, sulla scorta della globale valutazione della prova testimoniale esperita, non era emerso un riscontro univoco sulla circostanza che la R. avesse realizzato le opere in contestazione contemporaneamente all’acquisto dell’immobile avvenuto nel 1962, così come si era potuto evincere che i sigg.

S. (e i loro ospiti) avevano utilizzato la porzione di cortile di loro proprietà senza che la R., nell’arco del ventennio intercorso tra il 1962 e il 1982, avesse manifestato alcuna volontà oppositiva e senza che la sua saltuaria frequentazione del cortile stesso avesse potuto avvalorare l’emergenza di un possesso rilevante ai sensi dell’art. 1158 c.c., dovendosi, piuttosto, inquadrare tale utilizzazione nell’ambito dei meri atti di tolleranza, ed escludendosi, pertanto, anche la configurazione del necessario elemento dell'”animus possidendi”. Del resto, la giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Cass. 27 febbraio 2007, n. 4444) è univoca nel ritenere che, ai fini dell’usucapione del diritto di proprietà di beni immobili, l’elemento psicologico, consistente nella volontà del possessore di comportarsi e farsi considerare come proprietario del bene, pur potendo essere desunto dalle concrete circostanze di fatto che caratterizzano la relazione del possessore con il bene stesso, va escluso qualora sia dimostrato che il possessore aveva la consapevolezza di non potere assumere iniziative sulla conservazione e disposizione del bene e qualora l’intestatario del bene non abbia dismesso l’esercizio del suo diritto di proprietà ma abbia invece continuato a godere dei relativi poteri e facoltà e ad assumersene i corrispettivi obblighi ed oneri.

In conclusione, avendo la Corte territoriale fornito una logica ed adeguata motivazione (v., di recente, Cass. 11 maggio 2010, n. 11410) sull’esclusione del possesso “ad usucapionem” in capo alla R., anche i due ultimi motivi formulati dalla R. vanno respinti.

Oltretutto, deve ricordarsi in proposito che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. 29 marzo 2001, n. 4667; Cass. 25 settembre 2003, n. 14279; Cass. 20 ottobre 2005, n. 20322, e Cass. 6 marzo 2006, n. 4766), il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Nè, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se -confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse d’ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso “sub specie” di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, i citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

6. In definitiva, per le esposte complessive ragioni, il ricorso della R. deve essere integralmente rigettato, con la sua conseguente condanna, in virtù del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente ai pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile,il 23 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2011

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