Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17715 del 25/08/2020

Cassazione civile sez. II, 25/08/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 25/08/2020), n.17715

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2405-2016 proposto da:

B.S. e GRUPPO ALBERGHIERO BUCCIARELLI s.r.l., in

persona del legale rappresentante pro tempore V.L.,

rappresentati e difesi dagli Avvocati ANDREA MARIA AZZARO e

ALESSANDRO TROFINO, ed elettivamente domiciliate presso lo studio

dell’Avv. Paolo Celli, in ROMA, VIA L. RIZZO 72;

– ricorrenti –

contro

M.F., M.V., L.M.T. e

AGRICOLA s.a.s. di M.F. e C., in persone dal sue

legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi

dall’Avvocato MAURIZIO VASCIMINNI, ed elettivamente domiciliati,

presso il suo studio, in ROMA, VIA BOCCA di LEONE 78;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1947/2015 della CORTE d’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 13/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

4/12/2019 dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE IGNAZIO, che ha concluso per l’inammissibilità o, in

subordine, il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. ANDREA MARIA AZZARO per i ricorrenti; nonchè l’Avv.

GIOVANNI GIGLIOTI, per delega dell’Avv. MAURIZIO VASCIMINNI, per i

controricorrenti, i quali hanno ciascuno rispettivamente concluso

come in atti.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 13.5.2011, B.S. e il GRUPPO ALBERGHIERO BUCCIARELLI s.r.l. convenivano dinanzi al Tribunale di Montepulciano M.F., M.V., L.M.T. e la AGRICOLA s.a.s. di M.F. e C. esponendo quanto segue: a) con il contratto preliminare sottoscritto in data 15.5.2008 gli attori si erano impegnati ad acquistare dai convenuti le quote corrispondenti all’intero capitale sociale della s.r.l. Hotel President di Chianciano, al fine di acquisire il suddetto albergo; b) il prezzo della cessione era stato fissato in Euro 5.250.000,00 e il pagamento stabilito in Euro 250.000,00, a titolo di caparra confirmatoria pagata all’atto del preliminare; in Euro 750.000,00, versati sempre a titolo di caparra confirmatoria il 28.6.2008; il resto al definitivo da stipularsi entro e non oltre il 31.10.2008; c) il contratto definitivo non era stato stipulato entro la data prevista e i promittenti venditori, con atto del 31.3.2009, avevano formalizzato il recesso dal contratto dichiarando di trattenere la caparra versata di Euro 1.000.000,00; d) la mancata conclusione del contratto definitivo era da imputarsi al factum principis, essendo stata disposta dalla Procura della Repubblica di Velletri, nel periodo tra la data del preliminare e quella del definitivo, un’indagine bancaria con emissione di provvedimenti di sequestro preventivo dei beni della famiglia, che aveva comportato il blocco della concessione del mutuo richiesto alla banca e aveva impedito di reperire le risorse finanziarie per far fronte al pagamento del corrispettivo dell’acquisto.

Ciò premesso, gli attori chiedevano che fosse dichiarata la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c. e condannati i convenuti alla restituzione della caparra o, in subordine, che fosse disposta la sua riduzione a Euro 200.000,00.

Si costituivano in giudizio i convenuti chiedendo il rigetto della domanda e la dichiarazione del loro diritto di trattenere la caparra confirmatoria, stante la risoluzione del contratto per fatto e colpa degli attori.

Con sentenza n. 136/2013, depositata in data 22.7.2013, il Tribunale di Montepulciano rigettava le domande attoree e dichiarava legittimo il recesso del 31.3.2009 da parte dei convenuti, confermando il diritto degli stessi a trattenere la somma di Euro 1.000.000,00, versata a titolo di caparra confirmatoria. In particolare, il Giudice di primo grado riteneva che si sarebbe trattato di un ripensamento e non di un’impossibilità sopravvenuta, evidenziando come il sequestro preventivo fosse intervenuto successivamente alla data del 31.10.2008, stabilita dalla parti come termine essenziale per la stipula del definitivo e che i provvedimenti presi dalla Procura fossero addirittura successivi alla data del recesso e riguardassero soggetti parzialmente diversi da quelli impegnati nell’acquisto.

Avverso la sentenza proponevano appello i soccombenti chiedendo che fosse accertata l’intervenuta risoluzione, per impossibilità sopravvenuta, del contratto preliminare con condanna degli appellati alla restituzione della somma di Euro 1.000.000,00; in subordine, che fosse ridotta la caparra confirmatoria, con condanna degli appellati alla restituzione di Euro 800.000,00.

Si costituivano in giudizio gli appellati, i quali eccepivano l’inammissibilità dell’appello ex artt. 342 e 348 bis e ne chiedevano, comunque, il rigetto nel merito.

Con sentenza n. 1947/2015, depositata in data 13.11.2015, la Corte d’Appello di Firenze rigettava il gravame. In particolare, la Corte territoriale riteneva che l’impossibilità sopravvenuta non fosse ravvisabile nella fattispecie, in quanto essa deve derivare da un impedimento obiettivo e assoluto che non possa essere rimosso attraverso un comportamento diligente del debitore. La Corte richiamava la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l’estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta può verificarsi solo ove la prestazione abbia a oggetto un fatto o una cosa determinata e non una somma di denaro (Cass. n. 6594 del 2012). Nè aveva rilievo il c.d. factum principis, in quanto doveva essere offerta la prova della non imputabilità dell’adozione del provvedimento della pubblica autorità alla condotta colposa del debitore (Cass. n. 21973 del 2007), prova che nella fattispecie non era stata fornita.

Avverso detta sentenza propongono ricorso per cassazione il Gruppo Alberghiero Bucciarelli s. r.l. e B.S. sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie; resistono F. e M.V., L.M.T. e Agricola s.a.s. di M.F. e C. con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Pregiudizialmente, va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, in quanto asseritamente privo di autosufficienza.

Questa Corte ha affermato che per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito (Cass. n. 23756 del 2018).

Il principio di autosufficienza del ricorso impone, dunque, che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. n. 23756 del 2018; conf. Cass. n. 24340 del 2018; Cass. n. 13312 del 2018; Cass. n. 19018 del 2017).

Orbene, dall’esame del ricorso, non emerge una violazione di siffatti presupposti.

2. – Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”. Secondo i ricorrenti gli accertamenti bancari disposti dalla Procura di Velletri e le conseguenti indagini della Guardia di Finanza, nel periodo compreso tra la data di stipula del contratto preliminare e quella indicata per il definitivo, nonchè l’adozione dei provvedimenti di sequestro, avevano rappresentato la ragione che aveva determinato il blocco di ogni affidamento bancario. Si sottolinea che il provvedimento di sequestro non poteva essere ragionevolmente e facilmente prevedibile secondo l’ordinaria diligenza al momento dell’assunzione dell’obbligazione. Pertanto tale provvedimento aveva determinato l’impossibilità della prestazione, ai sensi del disposto dell’art. 1256 c.c., in quanto la situazione determinatasi in seguito all’adozione del sequestro, non poteva essere superata con lo sforzo diligente al quale il debitore è tenuto ex art. 1176 c.c..

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Questa Corte ha ripetutamente affermato che il novellato paradigma (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 13 novembre 2016) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, i ricorrenti avrebbero dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Ma, nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è alcuna indicazione. Laddove, poi, va aggiunto che è altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per sostenere il mancato esame di deduzioni istruttorie, di documenti, di eccezioni di nullità della sentenza non definitiva e degli atti conseguenti, di critiche rivolte agli elaborati peritali (ovvero di semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico), o per lamentarsi di una “motivazione non corretta” (Cass. n. 27415 del 2018, cit.); giacchè nel paradigma di cui al citato art. 360 c.p.c., n. 5 non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

2.3. – Le censure (riferite dai ricorrenti non già ad asserite omissioni della decisione, quanto alla contestazione nel merito delle espresse ragioni poste a base della pronuncia, come, appunto, quelle relative al giudizio di esclusione della possibilità, nella specie, della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, a cagione di factum principis: sentenza impugnata, pag. 4) si sostanziano allora in una richiesta di riesame della valutazione delle risultanze istruttorie operata dalla Corte distrattuale; che, viceversa, in quanto congrua e plausibile, si sottrae al sindacato di legittimità.

Vale, infatti, il consolidato principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013).

Al contrario, così come articolate, le censure portate dal motivo si risolvono sostanzialmente nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando i ricorrenti di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

3. – Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la “Violazione dell’art. 360, comma 1 n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 1373 e 1385 c.c., in relazione all’art. 1457 c.c.”, per la ritenuta infondatezza dell’assunto dei ricorrenti, secondo cui l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto preliminare per scadenza del termine essenziale aveva precluso l’esercizio del diritto di recesso e il trattenimento della caparra ricevuta. Osservano i ricorrenti che, ai sensi dell’art. 1457 c.c., nell’ipotesi di termine essenziale, la risoluzione opera di diritto al momento della scadenza del termine, salvo ove la parte interessata all’esecuzione della prestazione manifesti alla controparte la propria volontà di voler ricevere un adempimento tardivo entro tre giorni dalla scadenza del termine. I ricorrenti richiamano Cass. sez. un. 553 del 2009, secondo la quale, verificatosi l’effetto risolutorio, la parte non inadempiente non può rinunciare ad esso, trattandosi di effetto sottratto, per evidente voluntas legis, alla libera disponibilità del contraente.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – Risulta esplicitamente affermato dagli stessi attori (odierni ricorrenti) che il contratto definitivo non era stato stipulato entro la data prevista, e che i promittenti venditori (odierni controricorrenti), con atto del 31.3.2009, avevano formalizzato il recesso dal contratto dichiarando di trattenere la caparra versata di Euro 1.000.000,00. E che, a contestazione della domanda attorea di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c., con condanna dei convenuti alla restituzione della caparra o, in subordine, alla sua riduzione a Euro 200.000,00, i convenuti medesimi si erano costituiti in giudizio chiedendo il rigetto della domanda e la dichiarazione del loro diritto di trattenere la caparra confirmatoria, stante la risoluzione del contratto per fatto e colpa degli attori (ricorso pagg. 3 e 4).

Così come il Giudice di primo grado (che rigettava le domande attoree e dichiarava legittimo il recesso da parte dei convenuti, confermando il diritto degli stessi a trattenere la somma di Euro 1.000.000,00, versata a titolo di caparra confirmatoria), in coerenza ai principi affermati da questa Corte, il Giudice d’appello – rilevato che il contratto definitivo non era stato stipulato entro la data pattuita del 31.10.2008, e che i venditori, con atto del 31.3.2009, avevano legittimamente formalizzato il recesso dal contratto, dichiarando di trattenere la caparra versata (sentenza impugnata, pag. 3) – ha ritenuto infondato “anche il secondo motivo di gravame con cui gli appellanti sostengono che la intervenuta risoluzione di diritto del contratto preliminare per la scadenza del termine essenziale precluderebbe il successivo esercizio del diritto di recesso da parte dei promittenti venditori e il trattenimento della caparra”; tale assunto contrasta infatti con il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui “la risoluzione del contratto di diritto per inosservanza del termine essenziale (art. 1457 c.c.) non preclude alla parte adempiente, nel caso in cui sia stata contrattualmente prevista una caparra confirmatoria, l’esercizio della facoltà di recesso ai sensi dell’art. 1385 c.c., per ottenere, invece del risarcimento del danno, la ritenzione della caparra o la restituzione del suo doppio (Cass. n. 21838 del 2010; cfr. anche Cass. n. 11012 del 2018) (sentenza impugnata, pagg. 5 e 6).

Peraltro, va ritenuto che quello che viene in esame nel presente motivo non attiene al profilo della applicabilità e/o delle ricadute, conseguenti alla configurabilità o meno, in termini di ammissibilità, di un mutamento della domanda nel corso del processo (che, nella fattispecie, sono estranee al thema decidendum), bensì rileva con riferimento alla perdurante valenza della difesa opposta dai convenuti, rimasta coerentemente immutata, rispetto alla domanda attorea, in entrambi i gradi del giudizio di merito.

Non risulta pertanto conferente il richiamo dei ricorrenti alla decisone di questa Corte (Cass. sez. un. 553 del 2009), appunto perchè l’affermato principio – secondo cui “In tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo, oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto, all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento” – ha ad oggetto il diverso tema (come detto, estraneo all’attuale giudizio) dei rapporti tra esercizio del diritto di recesso e la domanda di risoluzione del contratto, in ragione della analisi della interazione tra risoluzione e recesso e tra risarcimento e ritenzione della caparra (sezioni unite cit. paragrafo 4.3. della motivazione in diritto).

4. – Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 1373 e 1385 c.c., in relazione all’art. 1373 c.c.”, giacchè il contratto di cessione di quote societarie è un contratto per il quale, ai sensi dell’art. 2470 c.c., – nella formulazione vigente dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6 del 2003, – è prevista ad substantiam, la forma della scrittura privata autenticata. Nella fattispecie, la promessa di cessione di quote societarie non risultava stipulata nella forma della scrittura privata autenticata e, pertanto, sarebbe stata carente di un elemento essenziale del contratto, previsto a pena di nullità, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Inoltre, i M. non avevano fatto pervenire ai ricorrenti la comunicazione del recesso nella forma richiesta, evidenziando, tra l’altro, che la raccomandata di recesso non recava anche la sottoscrizione di M.A., che si era qualificato procuratore speciale nel preliminare di cessione.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

4.2. – I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità (come viceversa nella specie) questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio. Peraltro, poi. la rilevabilità d’ufficio di una nullità deve coordinarsi con i principi generali del processo, per cui il rilievo ex officio resta precluso per effetto del giudicato interno formatosi in conseguenza della pronunzia esplicita sulla questione ovvero della definizione implicita della stessa (Cass. 907 del 2018; conf. Cass. n. 17041 del 2013; Cass. n. 194 del 2002).

5. – Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono la “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’art. 1384 c.c., in relazione all’art. 1385 c.c.”, poichè l’argomentazione della Corte distrettuale – per cui il potere di riduzione della penale previsto dall’art. 1384 c.c., non può essere esercitato per la caparra confirmatoria, stante la differenza sul piano strutturale e funzionale dei due istituti sarebbe in contrasto con una “lettura corretta” dell’art. 1385 c.c., u.c., il quale stabilisce che, ove sia azionata domanda di esecuzione o di risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali, per cui la caparra confirmatoria non assolverebbe quella funzione di liquidazione anticipata del danno che le sarebbe propria.

5.1. – Il motivo non è fondato.

5.2. – La Corte di merito ha, correttamente, applicato il consolidato l’orientamento (che questo Collegio condivide e fa proprio) secondo cui il potere del giudice di riduzione della penale previsto dall’art. 1384 c.c. non può esser esercitato per la caparra confirmatoria (Cass. n. 14776 del 2014; conf. Cass. n. 15391 del 2000; Cass. n. 5644 del 1995; Cass. n. 1143 del 1982; Cass. n. 6394 del 1979; Cass. n. 4856 del 1977).

All’uopo, mette conto di richiamare l’attenzione sulle chiare differenze, sia sul piano strutturale che funzionale, intercorrenti tra la figura della clausola penale e quella della caparra confirmatoria. Ed invero, se la prima viene tradizionalmente considerata come un patto accessorio di un contratto con funzione, insieme, di coercizione all’adempimento e di predeterminazione del risarcimento dovuto, in caso di inadempimento, la caparra confirmatoria, pur assolvendo anch’essa una funzione di preventiva liquidazione del danno, per il caso dell’altrui inadempimento, svolge altresì la funzione di anticipato parziale pagamento per l’ipotesi di adempimento. La delineata diversità tra le due figure giustifica la scelta del legislatore di riferire alla sola riduzione della penale il potere del giudice di incidere sulle pattuizioni delle parti. Nè può ritenersi che la norma dell’art. 1384 c.c., prevedente il potere del giudice di ridurre equamente la clausola penale, cui testualmente si riferisce, sia applicabile analogicamente oltre l’ambito di detta clausola, trattandosi di norma la quale, come ha già avuto modo di statuire questa Corte, ha carattere eccezionale (Cass. n. 9504 del 2010; Cass. n. 13120 del 1997; Cass. n. 1209 del 1987; Cass. n. 1143 del 1982, cit.; Cass. n. 4052 del 1978). Ed invero, la disposizione dell’art. 1384 c.c., contemplando l’attribuzione al giudice del potere di incidere in un caso del tutto peculiare sulle pattuizioni private e di modificare il relativo contenuto, è norma che fa eccezione alla regola generale, immanente al sistema e formalmente sanzionata nell’art. 1322 c.c., che impone il rispetto dell’autonomia contrattuale dei privati, e, consequenzialmente, non è passibile di applicazione analogica a situazioni diverse da quella in essa specificamente previste.

Laddove poi, la Corte costituzionale (ord. n. 77 del 2014; ord. n. 248 del 2013) ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle speculari questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1385 c.c., comma 2, tra l’altro, rilevando che – nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l’inadempimento dell’accipiens o del tradens, e, rispettivamente, la restituzione del doppio, ovvero la ritenzione, della caparra confirmatoria – il rimettente aveva omesso di considerare, al fine del decidere, che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’art. 1385 c.c., è comunque un inadempimento “gravemente colpevole (…), cioè imputabile (ex artt. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.)”, come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009.

6. – Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 10.000,00 oltre a Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 agosto 2020

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