Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17714 del 25/08/2020

Cassazione civile sez. II, 25/08/2020, (ud. 26/11/2019, dep. 25/08/2020), n.17714

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5966-2016 proposto da:

D.P.C., in proprio e quale titolare dell’omonima ditta

individuale, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE TRASTEVERE

209, presso lo studio dell’avvocato GENEROSO BLOISE, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore, MINISTERO ECONOMIA FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 1805/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 20/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/11/2019 dal Consigliere DE MARZO GIUSEPPE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 20 luglio 2015 la Corte d’appello di Venezia ha rigettato l’appello proposto da D.P.C. nei confronti della Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (già Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato: d’ora innanzi, AAMS) nonchè della Guardia di Finanza – Compagnia di Bassano del Grappa, avverso la decisione di primo grado che, pronunciando sui ricorsi del primo (r.g. n. 147 e 148 del 2011), aveva solo parzialmente accolto la domanda di annullamento dell’ordinanza di ingiunzione n. 3579/2008 – provvedendo a ridurre l’entità della sanzione amministrativa irrogata – e aveva respinto la domanda di accertamento dell’illegittimità del sequestro degli apparecchi da intrattenimento dei quali si discuteva.

2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che il D.P. era stato sanzionato a seguito della violazione del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 110, comma 9, lett. c) e d), (t.u.l.p.s.), per avere “distribuito/installato in luoghi pubblici o aperti al pubblico n. 205 apparecchi da intrattenimento non conformi alle previste prescrizioni dell’art. 110, comma 6 in quanto ufficialmente disattivati per risoluzione del contratto con il concessionario a far data dal 25/07/2005 ed intenzionalmente non collegati alla rete telematica AAMS a far data dal 25/07/2006 alla data del sequestro (…). Inoltre detti apparecchi erano privi dei titoli autorizzatori previsti (nulla osta di messa in esercizio)”; b) che il D.P. non aveva contestato che gli apparecchi fossero attivi e che non avessero trasmesso, secondo quanto accertato dalla Guardia di Finanza, dati all’AAMS; c) che nessuna verifica il D.P. aveva compiuto, quanto alla possibilità di continuare l’attività con i nulla osta rilasciati al precedente gestore, nonostante che la concessionaria avesse comunicato ad AAMS la dichiarazione di cessazione di efficacia degli stessi, e quanto al collegamento degli apparecchi con la rete di AAMS; d) che il D.P., ponendosi come soggetto in grado di svolgere l’attività di gestore di gioco lecito, era tenuto a conoscere la normativa di settore; e) che, in ogni caso, egli aveva ammesso di essere a conoscenza dell’assenza di idoneo nulla osta per la messa in esercizio, quantomeno dalla fine del novembre del 2006, e del fatto che avrebbe dovuto ritirare gli apparecchi e tenerli in magazzino; f) che del tutto irrilevante era la mancata emissione di un provvedimento di revoca dei precedenti nulla osta di esercizio, una volta che la concessionaria avesse comunicato, come nella specie, alla AAMS la cessazione di efficacia degli stessi, per effetto della risoluzione del rapporto tra la medesima concessionaria e il precedente gestore; g) che era irrilevante il fatto che il concessionario avesse chiesto ad AAMS la sospensione della procedura di revoca/ritiro dei nulla osta, poichè il D.P. non aveva verificato l’esito di tale istanza e comunque aveva continuato l’attività anche dopo il novembre 2006, quando aveva appreso della necessità di munirsi di autonomi nulla osta; h) che del pari irrilevante era che il concessionario, dopo la risoluzione del rapporto con il precedente gestore, non avesse ritirato i punti di accesso (PDA) dei quali era proprietario e dei quali aveva intimato la restituzione; i) che, ove pure fosse stato dimostrato, il pagamento del prelievo unico erariale (PRUE) era irrilevante, sia perchè la norma applicata sanziona la mera carenza di titoli autorizzativi, sia perchè il versamento nelle mani del concessionario, in relazione ad apparecchi che l’Amministrazione riteneva non utilizzati, non forniva alcuna garanzia che le somme fossero ricevute da quest’ultima; l) che neppure risultava che l’AAMS avesse preso atto a tutti gli effetti del subentro del D.P. al precedente gestore, anche perchè la regolare prosecuzione dell’attività era subordinata al pagamento del debito del precedente gestore.

Con riguardo alla legittimità dei sequestri operati dalla Guardia di Finanza, la Corte territoriale ha ritenuto insussistente la dedotta violazione della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 13, poichè i locali nei quali l’attività amministrativa era stata svolta non erano qualificabili come “privata dimora”, ma come luoghi di lavoro.

Infine, la sentenza impugnata ha concluso per la legittimità della confisca amministrativa degli apparecchi, dal momento che, per quanto sopra osservato, non era dimostrata l’esistenza dei nulla osta di esercizio e il collegamento degli stessi apparecchi alla rete telematica gestita dal concessionario e connessa a quella di AAMS.

3. Avverso tale sentenza il D.P. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e il Ministero dell’Economia e delle Finanze hanno resistito con controricorso e hanno proposto ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Logicamente preliminare è l’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale, con il quale si lamenta nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112 e 325 c.p.c., del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 e dell’art. 330 c.p.c., per avere la Corte d’appello omesso di confrontarsi con l’eccezione di inammissibilità dell’appello, dal momento che l’atto di impugnazione era stato erroneamente notificato all’AAMS, domiciliata presso la cancelleria del Tribunale di Bassano del Grappa e costituitasi in primo grado senza il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, presso la propria sede e presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato.

La doglianza è infondata.

Va premesso che non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata valutazione di uno specifico motivo di impugnazione, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto del medesimo (v., ad es., Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191, che ha colto un rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame).

Ciò posto, il tema prospettato dal ricorrente dinanzi alla Corte d’appello ha natura strettamente giuridica.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, qualora il ricorrente prospetti un difetto di motivazione che non riguarda un punto di fatto, bensì un’astratta questione di diritto, il giudice di legittimità, peraltro investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che anche l’eventuale mancanza di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (Cass. 28 maggio 2019, n. 14476).

Ora, è certamente esatto che nel procedimento di opposizione a sanzioni amministrative, la prescrizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 22, comma 4 (applicabile ratione temporis), secondo cui “il ricorso deve contenere altresì, quando l’opponente non abbia indicato un suo procuratore, la dichiarazione di residenza o la elezione di domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito”, deve essere interpretata nel senso che, al fine di evitare che le notificazioni al ricorrente, ai sensi del successivo comma 5, vengano eseguite mediante deposito in cancelleria, non è sufficiente la dichiarazione di residenza in un qualsiasi comune della Repubblica, essendo invece indispensabile la dichiarazione di residenza nel comune ove ha sede il giudice adito, giacchè la formulazione letterale della norma rende palese che il riferimento in essa contenuto al comune dove ha sede il giudice adito concerne non solo l’elezione di domicilio ma anche la dichiarazione di residenza (Cass. 16 maggio 2005, n. 10209).

Ma è altresì vero che l’art. 22 cit. si riferisce alle sole notificazioni interne al procedimento d’opposizione e non all’impugnazione della sentenza che lo ha concluso, in relazione alla quale si applica la generale disciplina dell’art. 330 c.p.c..

E, infatti, nel caso in cui la parte che sia stata personalmente in giudizio non abbia espresso la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio nel Comune dove ha sede il giudice, è inammissibile il ricorso per cassazione (avverso la sentenza che ha deciso nel giudizio d’opposizione ad ordinanza ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa) notificato presso la cancelleria del giudice e non personalmente alla parte (Cass. 10 gennaio 2002, n. 246).

Ne discende che correttamente l’atto di appello è stato notificato presso la sede dell’Amministrazione.

2. Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 156,429 e 437 c.p.c., in relazione alla L. n. 689 del 1981, art. 22 e al D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 6, con conseguente nullità della sentenza per avere omesso la lettura del dispositivo in udienza e avere deciso la causa non all’udienza di discussione, ma in camera di consiglio, secondo il rito ordinario.

La doglianza è infondata, dal momento che, ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 36, comma 1, le norme del decreto stesso – tra le quali il precedente art. 6 che assoggetta al rito del lavoro le controversie di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 22, comma 1, si applicano ai procedimenti instaurati successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso (6 ottobre 2011).

Nel caso di specie, al contrario, i ricorsi proposti dal D.P. sono sicuramente anteriori alla sentenza 16 novembre 2010, n. 23107, con la quale le sezioni unite di questa Corte hanno affrontato il conflitto negativo di giurisdizione denunciato, in relazione alle controversie che erano scaturite dai primi, ai sensi dell’art. 362 c.p.c., comma 2.

3. Con il secondo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 110, comma 9, lett. d) t.u.l.p.s., nonchè degli artt. 115, 116 e 209 c.p.c., in relazione all’art. 2698 c.c. e alla L. n. 689 del 1981, art. 1, per avere la Corte territoriale: a) condiviso l’argomentazione dell’ordinanza ingiunzione, secondo la quale era irrilevante accertare se i precedenti nulla-osta fossero stati revocati; b) contraddittoriamente attribuito rilievo alla comunicazione della concessionaria avente ad oggetto la risoluzione del rapporto con il precedente gestore e negato identico rilievo all’impegno della concessionaria, assunto nel momento in cui il D.P. era subentrato nella gestione, di richiedere la sospensione della procedura di revoca/ritiro dei medesimi nulla-osta.

Il ricorrente aggiunge che la denunciata violazione si riflette sulla sua buona fede, alla luce dell’affidamento sulla permanente efficacia dei titoli autorizzati esistenti, e sul legittimo governo delle regole in tema di distribuzione dell’onere della prova, in quanto era l’Amministrazione a dover dimostrare di avere revocato i nulla-osta.

La doglianza è infondata.

La L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 38, comma 5, si occupa del nulla osta per la messa in esercizio degli apparecchi, che deve essere richiesto dal gestore e che si correla, ai sensi del successivo comma 6, alla titolarità delle licenze previste dall’art. 86, comma 3, lett. a) o b), t.u.l.p.s..

In tale contesto, appare evidente che non è stata la comunicazione della società concessionaria a provocare la cessazione di efficacia del nulla-osta rilasciato al precedente gestore ma la disciplina di settore in relazione agli eventi descritti, ossia la risoluzione del rapporto tra la concessionaria e il precedente gestore, con conseguente interruzione della operatività degli apparecchi.

Ne consegue l’inconducenza dei rilievi dedicati alla necessità di un provvedimento espresso di revoca – laddove, nel caso di specie, non ricorre la fattispecie della revoca ma del venir meno dei presupposti di efficacia del titolo – o alla asserita contraddittorietà della motivazione, per non avere attribuito rilievo alla richiesta – che tale appunto rimane, in assenza di una esplicita determinazione amministrativa ancorata ai presupposti legali della stessa – di sospensione dell’efficacia del procedimento di revoca dei nulla-osta.

Esclusa qualunque violazione delle regole in tema di distribuzione dell’onere della prova, resta da osservare, sul piano del profilo soggettivo, che è rimasta priva di qualunque censura l’argomentazione della Corte territoriale, quanto al fatto che, quantomeno dal novembre 2006, lo stesso D.P. ha riconosciuto di essere al corrente della necessità di dotarsi di autonomi nulla-osta per la messa in esercizio degli apparecchi.

4. Con il terzo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 110, comma 9, lett. c) e comma 9 bis, t.u.l.p.s., della L. n. 689 del 1981, artt. 1 e 13, per avere la Corte territoriale ritenuto sussistente la violazione delle norme indicate e, ancor prima, l’attività ispettiva degli agenti di polizia giudiziaria, sebbene gli apparecchi non fossero installati in pubblici esercizi.

Il motivo è inammissibile, in quanto, in termini assertivi, propone la questione della inapplicabilità della disciplina, senza prospettare alcun tipo di contestazione del presupposto fattuale della valutazione operata dalla Corte territoriale, quanto al fatto che i locali nei quali si trovavano gli apparecchi “attivi” non costituissero una privata dimora, ma fossero proprio dei pubblici esercizi.

4. In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati. Tenuto conto dell’esito della lite e della portata delle questioni sollevate dalle parti, ritiene il Collegio di compensare le spese per metà, ponendo la restante metà, liquidata come in dispositivo, a carico del ricorrente principale. Il ricorrente principale va dichiarato tenuto al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis.

Rilevato, invece, che i ricorrenti incidentali sono amministrazioni pubbliche difese dall’Avvocatura Generale dello Stato non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1- quater.

PQM

Rigetta il ricorso incidentale e il ricorso principale. Compensa per metà tra le parti;e spese del giudizio di legittimità, ponendo a carico del ricorrente principale la restante metà, liquidata in Euro 9.900,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 agosto 2020

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