Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17708 del 07/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 07/09/2016, (ud. 09/03/2016, dep. 07/09/2016), n.17708

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21338/2014 proposto da:

R.S., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA TIBULLO 10 presso lo studio dell’avvocato MARIA VITTORIA

PIACENTE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANGELO DI FEDE,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

BANCO POPOLARE SOCIETA’ COOPERATIVA A R.L., (successore universale

della BANCA POPOLARE ITALIANA SOCIETA’ COOPERATIVA.R.L., già BANCA

POPOLARE DI LODI SOCIETA’ COOPERATIVA A.R.L.) P.I. (OMISSIS), in

persona dei legali rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA VIRGILIO 8, presso lo studio dell’avvocato

(OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

TULLIO FORTUNA, GUGLIELMO BURRAGATO, ANDREA MUSTI, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 210/204 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depnsttata il 04/03/2014 r.g.n. 2725/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/03/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato DI FEDE ANGELO;

udito l’avvocato CICCOTTI ILARIA per delega Avvocato MUSTI ANDREA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO del PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Palermo, R.S. impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli dal datore di lavoro, Banca Popolare di Lodi (successivamente divenuta Banco Popolare soc. coop.), in data 7 giugno 2004, allegando che con precedente lettera del 7 aprile 2004 gli fu contestata una complessa serie di irregolarità, commesse nell’espletamento delle affidategli mansioni di preposto di Agenzia, emerse da un controllo ispettivo del settembre 2003, dal “follow up” svolto in data 15 gennaio 2004 e da una successiva verifica, eseguita dal 25 febbraio 2004 al 3 marzo 2004.

In attesa dei chiarimenti e delle spiegazioni inerenti alle singole contestazioni, la Banca procedeva, ai sensi dell’art. 36 del c.c.n.l. di categoria, al temporaneo allontanamento del R. dal posto di lavoro e quindi al suo licenziamento, che veniva tempestivamente impugnato.

Disposta c.t.u. al fine di verificare l’effettiva consistenza degli addebiti, il Tribunale riteneva fondate e gravi quanto meno talune delle contestazioni formulate dalla Banca, sicchè respingeva la domanda.

La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza depositata il 7 ottobre 2009, confermava la sentenza di primo grado.

Per la cassazione di tale sentenza proponeva ricorso il R., affidato a due motivi, cui resisteva la Banca con controricorso.

Questa Corte con pronuncia n. 15169 del 24/05 – 11/09/2012 accoglieva il primo motivo di ricorso e dichiarava assorbiti gli altri. Cassava, di conseguenza, la sentenza impugnata e rinviava, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione.

L’anzidetta pronuncia, respinta la preliminare eccezione d’inammissibilità del ricorso, per essere stato notificato non già al Banco Popolare soc. coop., bensì alla Banca Popolare di Lodi S.p.a. (emergendo dagli atti che Banco Popolare era successore, in forza di fusione societaria, della Banca Popolare Italiana soc. coop. a r.l., già Banca Popolare di Lodi soc. coop. a r.I., sicchè la notifica non risultava inesistente, ma nulla, con possibilità di rinnovazione), osservava che con il primo motivo il ricorrente aveva denunciato violazione e falsa applicazione del c.c.n.l. di settore, con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7; agli artt. 1175, 1376 e 1375 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il R., in particolare, si era doluto che la Corte di merito aveva ritenuto erroneamente non provato che ad esso ricorrente furono concesse solo due ore di tempo per consultare la gran mole di documenti, su cui le plurime e complesse contestazioni disciplinari si basavano, ritenendo inoltre, altrettanto erroneamente, che tale documentazione il R. aveva comunque avuto modo di esaminare nel corso del giudizio.

Il motivo era considerato fondato, di guisa che il suo accoglimento determinava l’assorbimento delle altre censure svolte con il ricorso.

La Corte di merito, infatti, aveva sul punto contraddittoriamente affermato che l’assunto attoreo, secondo cui al fine di potersi difendere dalle complesse contestazioni di cui sopra (per l’accertamento delle quali fu disposta apposita c.t.u. affidata ad un perito bancario), gli vennero concesse solo due ore di tempo, non era stato provato in quanto smentito dall’unico teste escusso ( M.).

La motivazione era stata, quindi, considerata insanabilmente contraddittoria, avendo la Corte distrettuale ritenuto non provata la circostanza che al lavoratore vennero concesse solo due ore per accedere alla complessa documentazione, esclusivamente dalla testimonianza, dalla quale tuttavia emergeva, secondo la medesima Corte di merito, che tale accesso non avvenne affatto, stante il rifiuto del medesimo M.. In sostanza, la Corte palermitana aveva ritenuto non provata la lamentata circostanza che al R. fossero state concesse solo due ore per visionare la complessa documentazione posta a base degli addebiti contestati, in base ad una testimonianza, da cui emergeva che l’accesso a tale documentazione non vi fu affatto. Questa Corte, peraltro, richiamava anche la giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ancorchè la L. n. 300 del 1970, art. 7 non prevedesse, nell’ambito del procedimento disciplinare, un obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore incolpato in sede contestazione disciplinare, la documentazione su cui essa si basava, il datore di lavoro era tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all’interessato i documenti aziendali laddove l’esame degli stessi fosse necessario al fine di permettere alla controparte un’adeguata difesa. Nella specie risultava pacifica sia la particolare complessità della contestazione, sia la facoltà, concessa al dipendente e poi negata, di consultare la documentazione che ne costituiva il presupposto.

Ciò bastava per accogliere il primo motivo di ricorso, con assorbimento dei restanti, donde la cassazione della sentenza impugnata con rinvio al medesimo giudice, in diversa composizione, al fine di un nuovo esame della controversia alla luce delle considerazioni esposte e per la regolamentazione delle spese, comprese quelle del giudizio di legittimità.

La Corte di Palermo veniva, quindi, nuovamente investita dal R. per il giudizio di rinvio, come da ricorso del 9 luglio 2013, cui resisteva la Banca.

Peraltro, nelle more del procedimento, la stessa Banca in data due agosto 2001, a seguito di ulteriore contestazione disciplinare, aveva intimato al R. un altro licenziamento, anch’esso quindi impugnato da lavoratore con ricorso in data 17-03-2009, la cui domanda veniva però anch’essa respinta con sentenza del 30-04-2010 per la ritenuta carenza d’interesse.

Pure tale pronuncia era, quindi, appellata dal R., come da ricorso del 29-11-2011, cui aveva resistito parte appellata.

Quindi, riuniti i due procedimenti, le impugnazioni venivano decise dalla Corte palermitana con sentenza n. 240, in data sei febbraio / 4 marzo 2014, integrata quindi da provvedimento in data 8 aprile 2014, di correzione di errore materiale, nel senso che veniva aggiunto il dispositivo, non riportato nella decisione, pubblicata mediante deposito il 4.3.2014:… conferma la sentenza n. 2980/07 emessa dal giudice del lavoro di Palermo il 12 luglio 2007 e condanna l’appellante alle spese di lite, come ivi liquidate pure in ordine al precedente giudizio di legittimità; conferma (altresì) la sentenza n. 2379 in data 30-04-2010, dichiarando compensate le spese del relativo giudizio di secondo grado.

In sintesi, con questa seconda pronuncia, la Corte distrettuale quanto al primo licenziamento, osservava che con il ricorso introduttivo l’attore aveva negato totalmente la messa a disposizione da parte della Banca della documentazione necessaria alla propria difesa, facendone oggetto di formale interrogatorio e prova testimoniale, però non ammessa. Soltanto nel corso del libero interrogatorio era stato evidenziato che in realtà la Banca aveva messo a disposizione la documentazione, ma concedendo il brevissimo termine ritenuto inadeguato. Ora, a parte la novità della circostanza anzidetta, era evidente che la stessa avrebbe dovuto essere provata dal lavoratore, cosa che non era avvenuta, con la conseguenza, quindi, che pur non tenendosi conto della deposizione del teste M. (valutata in maniera contraddittoria, secondo la S.C.), rimanevano sforniti di prova sia il dedotto rifiuto di mettere a disposizione del dipendente la documentazione richiesta, sia la fissazione di una limitazione temporale di tale esame. Pertanto, la censura mossa dal R. non poteva trovare accoglimento, prescindendo dalla valutazione e dall’esame della prova testimoniale con il M..

Per il resto, la Corte territoriale giudicava infondati gli altri rilievi mossi dall’appellante, tenuto conto soprattutto dei risultati dell’accertamento ispettivo e della c.t.u., precedentemente svolta, condividendo pertanto le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado.

Quanto all’ultima contestazione, relativa alla violazione del codice di autodisciplina, riguardante le transazioni contabili registrate sul rapporto di conto corrente riconducibili allo stesso incolpato ed aventi quale controparte clientela della sua dipendenza, la Corte palermitana osservava che il c.t.u. aveva accertato l’esistenza e le modalità delle operazioni indicate nella lettera di contestazione, ed in particolare la fondatezza dell’addebito con riferimento a personaggi del gruppo SEMILIA. Ma anche con riferimento al signor B.C., dipendente di altro istituto bancario, cui il R. aveva accordato un’apertura di credito in conto corrente di Euro 10.000, erano stati accertati rapporti economici personali con l’appellante, idonei ad influenzarne negativamente l’indipendenza, l’imparzialità e la correttezza (all’uopo citando operazioni eseguite in data 22 dicembre 2003, 4 febbraio 2004, 19 febbraio 2004, nelle quali erano rimasti coinvolti pure il coniuge ed il figlio del dipendente).

Pertanto, secondo la Corte di Appello, le condotte poste in essere dal R., accertate nel corso della prima ispezione e confermate dai successivi accertamenti di gennaio e marzo 2004, rendevano legittimo il licenziamento. Infatti, il ricorrente si era reso responsabile di una serie di violazioni, che nel complesso avevano irrimediabilmente fatto venir meno il vincolo fiduciario, tenuto conto della posizione del R. nell’ambito della Banca, di particolare importanza e delicatezza, essendo egli il preposto all’agenzia, non rilevando peraltro ai fini della giusta causa la sussistenza di un danno economico effettivo, la cui entità assumeva rilievo secondario ed accessorio in materia.

L’affermata legittimità del primo licenziamento, infine, secondo la Corte di Appello conduceva alla conferma integrale della sentenza pronunciata il 30 aprile 2010 per il secondo processo, dovendosi concordare con la carenza di un attuale interesse ad impugnare tale successivo licenziamento, così come rilevata dal primo giudicante.

Avverso la sentenza numero 240/14 proponeva ricorso per cassazione R.S.o, affidato a quattro motivi:

1) violazione di legge con riferimento agli artt. 383 e 384 c.p.c. – violazione e falsa errata interpretazione ed applicazione dei C.C.N.L. di settore, con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7 artt. 1175, 1176 e 1375 c.c., nonchè per assenti omesso esame ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia – secondo cui in sintesi la Corte di appello di Palermo non si sarebbe uniformata al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla precedente sentenza di cassazione con rinvio;

2) violazione ed erronee interpretazione nonchè applicazione dell’art. 2697 c.c. e ss, artt. 1455, 2118 e 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, artt. 1, 3 e 5 nonchè degli artt. 115, 194 e 195 c.p.c.. – omessa contraddittoria e insufficiente motivazione su numerosi punti decisivi della controversia, reiterando i precedenti motivi di ricorso, ma non esaminati nel giudizio definito mediante cassazione dell’impugnata pronuncia di merito, con rinvio, essendo stati considerati allora assorbiti. Veniva, quindi, richiamata la già interamente trascritta dichiarazione dell’unico teste escusso, M. Salvatore, cui si aggiungevano le produzioni documentali in atti, depositate da entrambe le parti, nonchè gli accertamenti eseguiti dal c. t. u. con le due allegate perizie, depositate il 26/09/2006 (v. la relazione del c.t.u. dr. Fabio Pantaleo datata 26/09/2006, materialmente allegata al ricorso unitamente alla successiva, del 9 marzo 2007 a cura del medesimo ausiliare, da pag. 55 a 104 del ricorso notificato il tre settembre 2014, nonchè le ulteriori osservazioni ivi svolte sino a pag. 140);

3) violazione di legge con riferimento all’art. 274 (c.p.c.) e art. 151 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5; violazione di legge in relazione agli artt. 295 e 100 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5; omesso esame e insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; – violazione di legge per falsa ed errata interpretazione nonchè l’applicazione del C.C.N.L., con riferimento alla L. n. 300 de 1970, art. 7 ma anche agli artt. 1175, 1176, 1375 e 2119 c.c., nonchè alla L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 (pgg. da 141 e 159 del ricorso, in relazione al secondo licenziamento intimato con lettera del due agosto, pervenuta in data 7/8 agosto 2004, impugnato con missiva del 10/17 settembre 2004 di cui alla sentenza n. 2379/10, per cui erroneamente sarebbe stata disposta la riunione dei due procedimenti, laddove tale recesso era stato inoltre comunicato senza convocare il ricorrente che ne aveva fatto richiesta per essere sentito di persona, con l’assistenza di un delegato sindacale SINFUB, sussistendo, ad ogni modo, l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. pure riguardo al secondo licenziamento, non essendo stato ancora completamente definito il giudizio relativo al primo recesso, donde l’esigenza di sospendere ex art. 295 c.p.c. il secondo, attesa la pregiudizialità della questione relativa al primo, con conseguente effettiva privazione del diritto d’impugnare il secondo recesso, donde altresì la erroneità della riunione dei due procedimenti, con violazione dei succitati art. 274 e 151. D’altro canto, comminato il primo licenziamento, non poteva essere contestato un comportamento successivo all’intervenuta risoluzione del rapporto. Era altresì assolutamente infondata ed irrilevante la contestazione d’incapacità di presiedere al proprio patrimonio, attesa l’inesistenza dei presupposti per una giusta causa o di giustificato motivo di recesso (v. per maggiori e più precisi riferimenti le pagine da 141 a 159 del ricorso);

4) violazione di legge con riferimento agli artt. 91, 92, 383 c.p.c., art. 384 c.p.c., comma 2 e art. 385 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 – omessa motivazione in ordine alla condanna alle spese del R., pure con riferimento alla suddetta pronuncia di cassazione con rinvio, per cui egli non poteva considerarsi soccombente…; ad una obiettiva ricostruzione dei fatti e degli elementi probatori acquisiti era evidente l’irragionevole preconcetto che aveva portato i giudici di merito ad esplicitare quelli che erano stati i canoni di acquisizione probatoria concretatasi poi in una vera e propria inversione ai danni del R., laddove era parte datoriale a dover dimostrare le circostanze che potessero giustificare l’intimato recesso, mentre la Corte di Appello aveva ritenuto accertato l’inadempimento del ricorrente, che avrebbe dovuto, per di più a distanza di anni, dimostrare la corretta istruzione delle pratiche con l’allegata relativa documentazione, mentre non si era considerato quanto previsto dal Regolamento Fidi al capitolo 15, punto 13, di modo che la loro operatività era subordinata al perfezionamento della contrattualistica e delle garanzie, stabilendo però in aggiunta che la loro concessione doveva essere autorizzata dalle Divisioni Centrali preposte alla verifica. Tale disciplina, però, era sfuggita alla Corte di Appello, visto che le posizioni erano state tutte regolarmente autorizzate dalle suddette DIVISIONI CENTRALI, sicchè doveva presumersi che qualche pezzo di carta o documento le stesse dovevano averlo consultato (cfr. amplius pagg. da 159 a 163 del ricorso).

Ha resistito all’impugnazione avversaria la società cooperativa Banca Popolare (successore a titolo universale, in forza di fusione societaria per atto notarile del 27 giugno 2007, della Banca Popolare italiana società cooperativa a responsabilità limitata, già Banca Popolare di Lodi soc. coop. a r.l.) mediante controricorso.

Previ avvisi di rito per la pubblica udienza, fissata la 9 marzo 2016, cui peraltro entrambe le parti sono comparse, soltanto la controricorrente risulta aver depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso va respinto alla stregua delle seguenti considerazioni.

Non sussiste alcuna delle violazioni prospettate con il primo motivo d’impugnazione, avendo il competente giudice di rinvio provveduto nei limiti di quanto statuito dalla precedente cassazione con rinvio, cui la Corte territoriale si è scrupolosamente attenuta, però decidendo liberamente il merito della controversia nell’ambito delle proprie competenze attinenti al merito dei fatti di causa.

In effetti, l’annullamento della precedente sentenza di appello risulta avvenuto per la rilevata contraddittorietà della motivazione, e non tanto per un accertata violazione di legge, donde l’esigenza del rinvio al giudice di merito per conseguenti accertamenti e relative statuizioni.

Orbene, i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cessata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas judicandi, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonchè la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (Cass. 1 civ. n. 17790 del 07/08/2014; in senso conforme v. anche Cass. lav. n. 6707 del 06/04/2004, nonchè Cass. 3 civ. n. 19305 del 03/10/2005).

Pertanto, nel caso di specie del tutto legittimamente la Corte palermitana ha ritenuto l’infondatezza del motivo di gravame, laddove si assumeva violato il diritto di difesa, visto che con il ricorso introduttivo del giudizio l’attore si era limitato a lamentare la mancata messa a disposizione della documentazione necessaria per confutare gli addebiti contestatigli. Soltanto nel corso del libero interrogatorio il ricorrente aveva poi dedotto che parte datoriale l’aveva invitato a prendere cognizione di tale documentazione, però in appena due ore, sicchè, ritenuto incongruo il termine orario assegnatogli, aveva desistito. Correttamente, quindi, il giudice di rinvio ha rilevato che tale circostanza, peraltro nuova e contrastante con quanto dedotto nell’atto introduttivo, andava provata dal lavoratore istante, il quale però non aveva assolto all’onere che gli incombeva.

Orbene, ripercorrendo il ragionamento seguito dalla surriferita pronuncia di cassazione con rinvio, la Corte distrettuale, dovendo provvedere al nuovo esame della controversia in base alle considerazioni svolte con la sentenza n. 15169/12, evidenziava, comunque, che con ratto introduttivo l’attore aveva totalmente negato la messa a disposizione da parte della banca della documentazione ritenuta necessaria alla sua difesa, mentre soltanto in seguito il medesimo attore aveva sostenuto, diversamente, che in realtà la società aveva messo a disposizione i documenti, ma concedendo brevissimo termine, perciò inadeguato. Dunque, a parte la novità di tale circostanza, la stessa andava comunque provata dal ricorrente, ciò che non era avvenuto, di modo che, pur non tenendosi conto delle dichiarazioni rese del teste M. (contraddittoria in virtù di quanto sul punto osservato dalla precedente sentenza di cassazione), restavano sforniti di prova sia il rifiuto della Banca di porre a disposizione del dipendente incolpato la documentazione in parola, sia la fissazione di una limitazione temporale per la consultazione della stessa. Pertanto, ad avviso della Corte territoriale, la censura mossa dall’appellante (violazione del diritto di difesa) non poteva trovare accoglimento, prescindendo dalla valutazione e dall’esame della deposizione resa dal M..

Come si vede, dunque, le anzidette argomentazioni sfuggono alle censure articolate con il primo motivo d’impugnazione.

Ed invero, va soprattutto ricordato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le altre Cass. n. 27197 del 16/12/2011, ed in senso conforme Cass. n. 2357 del 2004, Cass. 1 civ. n. 24679 del 04/11/2013, cfr. ancora id. Sez. 6 – 5, n. 7921 del 06/04/2011, secondo cui con il ricorso per cessazione non è possibile rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di tale sindacato non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Cfr. ancora Cass. n. 15693 del 12/08/2004, secondo cui il vizio di omessa od insufficiente motivazione, allora denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, secondo il testo all’epoca vigente, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova. Conforme Cass. lav. n. 11936 del 07/08/2003. In senso analogo v. altresì Cass. lav. n. 27162 del 23/12/2009.

Cfr. ancora Cass. 1 civ. n. 5274 del 07/03/2007, secondo cui il ricorso per cassazione con il quale si facciano valere vizi della motivazione della sentenza deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato ovvero la specificazione di illogicità, consistente nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Con detto motivo non può invece essere fatto valere il contrasto della ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di merito con il convincimento e con le tesi della parte, poichè, se si opinasse diversamente, il motivo di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato del giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito. Conforme n. 12446 del 2006).

Deve, inoltre, evidenziarsi che la sentenza de qua risale all’anno 2014, sicchè, in base all’apposito regime transitorio, nella specie ragione temporis è applicabile l’attuale vigente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perciò limitatamente all’ipotesi di “omesso esame cima un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, senza quindi alcun riferimento ad eventuali carenze attinenti alla motivazione posta a base della decisione di merito.

In proposito, questa Corte (v. tra l’altro 6 sez. civ. – 3, ordinanza n. 21257 in data 08/10/2014) ha ritenuto che dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; al contrario, il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (conformi Cass. sez. un. civ. n. 8053 del 2014, nonchè Cass. civ. 6 – 3, n. 23828 del 20/11/2015).

Orbene, alla stregua degli anzidetti principi di diritto, condivisi da questo collegio, cui s’intende perciò dare continuità, nel caso della sentenza n. 240/14 non si riscontrano minimamente i vizi denunciati dal ricorrente, che pretende, in effetti, il suo annullamento, non ravvisandosi ad ogni buon conto gli estremi di alcun effettivo error in procedendo, poichè non conforme alle sue aspettative in base a diversa ricostruzione dei fatti, però inammissibilmente in questa sede di legittimità.

Dunque, appare congruamente pronunciata la decisione in forza della quale, sulla scorta di tutti gli elementi nella specie disponibili da parte del giudice di merito, l’interposto gravame veniva motivatamente respinto, pure il relazione al secondo motivo di appello, articolato in più censure, anch’esse individuate e perciò esaminate nella pronuncia di cui si chiede la cessazione. In particolare, i giudici del rinvio hanno ritenuto fondata la seconda contestazione disciplinare in virtù di quanto verificato dal c.t.u., esperto in materia bancaria, il quale aveva accertato che l’istruttoria relativa ai presupposti economico-patrimoniali per la concessione dei fidi era spesso inadeguata, in violazione del Regolamento Fidi adottato dalla Banca in conformità alle direttive di Bankitalia, all’uopo richiamando in particolare la relazione integrativa dell’ausiliare e lo specifico rilievo della prima ispezione in data 8 settembre 2003. Secondo la Corte siciliana, alla stregua dei riportati elementi di cognizione, la fondatezza del suddetto addebito era fuori discussione. Consentire che gli affidamenti siano concessi senza la puntuale verifica e l’acquisizione di tutti gli elementi occorrenti significherebbe attribuire al preposto all’agenzia un margine di discrezionalità di certo non rientrante nei suoi poteri, del tutto svincolato dalle relative disposizioni vigenti, volte a tutelare le aziende bancarie nell’erogazione dei crediti. E a nulla rilevava che la censurata condotta non fosse stata in precedenza oggetto di censura da parte dei superiori gerarchici del ricorrente o che i controlli fossero addirittura mancati, pacifico essendo che l’eventuale mancanza d: controlli non comporta esenzione di responsabilità nei confronti di chi è chiamato ad osservare determinati obblighi. Al più si sarebbe potuta ipotizzare una responsabilità a carico dei superiori, però non idonea ad escludere quella del dipendente ( R.).

Parimenti, specifiche argomentazioni sono state spese dalla Corte distrettuale in ordine alla ritenuta fondatezza dell’addebito di cui al n. 5 della lettera di contestazione (concessione di debordi su rapporti di conto corrente non affidati e recentemente aperti), all’uopo richiamando ancora la relazione integrativa del c.t.u. con riferimento ai rilievi formulati dal R., che confermava altresì la gravità delle violazioni a costui ascritte per quanto ivi precisato.

Similmente, ancora, la Corte diffusamente opinava riguardo agli addebiti n. 3 (irregolarità nella concessione e gestione degli affidamenti per smobilizzo crediti) e n. 4 (rapporti anomali collegati a posizioni catalogate), che avevano trovato riscontro negli accertamenti eseguiti dal c.t.u., di cui ancora una volta veniva pure richiamata la relazione integrativa, riportandone altresì i passaggi salienti. Per contro, i rilievi formulati dall’appellante erano stati punto per punto confutati dal c.t.u. con argomentazioni Immuni da vizi, adeguatamente motivate e fondate sui risultati degli accertamenti documentali eseguiti e sulle disposizioni vigenti in materia bancaria.

Quanto, poi, all’ultima contestazione, relativa al codice di autodisciplina (transazioni contabili registrate su rapporti di conto corrente a Lei riconducibili ed aventi quale controparte clientela di Sua appartenenza), non esaminata dal giudice di primo grado, e su cui aveva però insistito la società appellata, il c.t.u. aveva accertato l’esistenza e le modalità delle operazioni indicate nella lettera di contestazione ed in particolare la fondatezza dell’addebito con riferimento a soggetti facenti capo al gruppo SEMINA, ma anche con riferimento a B.C., cui l’attore aveva concesso un’apertura di credito in conto corrente, per cui erano stai accertati rapporti economici personali con l’appellante, idonei ad influenzare negativamente la sua indipedenza, imparzialità e correttezza, così come in proposito ampiamente puntualizzato nella sentenza de qua. Inoltre, era stato accertato che la IDREIL srl, cliente affidataria, in data tre marzo 2004 aveva disposto un bonifico di 11.800 euro a favore dello stesso R..

Pertanto, secondo la Corte palermitana, i fatti posti in essere dal R. – accertati nel corso delle verifiche ispettive di settembre 2003, gennaio 2004 e marzo 2004 – rendevano legittimo il licenziamento del ricorrente, che infatti si era reso responsabile di una serie di violazioni, le quali, nel loro complesso, avevano comportato il venir meno del vincolo fiduciario, base del rapporto di lavoro e garanzia di un suo corretto e regolare svolgimento, trattandosi di numerose mancanze di notevole gravità. Ed in proposito la decisione richiamava pure taluni precedenti di questa Corte, tra cui la sentenza (di questa Sezione lavoro), n. 11674 in data 01/06/2005 (secondo cui in tema di licenziamento per giusta causa, spetta al giudice del merito – e non è sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi – l’accertamento che i fatti addebitati siano di gravità tale da integrare gli estremi della fattispecie di cui all’art. 2119 c.c., fermo restando che nell’ipotesi di dipendente di un istituto di credito l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro, rilevando la lesione dell’affidamento che, non solo il datore di lavoro, ma anche il pubblico, ripongono nella lealtà e correttezza dei funzionari. Veniva richiamata, tra l’altro, in senso analogo, anche Cass. lav. n. 5504 del 14/03/2005: spetta unicamente al giudice del merito – e non può essere sindacato in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi – l’accertamento, compiuto autonomamente e senza vincoli derivanti dall’esito del giudizio penale, che il fatto addebitato sia di gravità tale da integrare gli estremi della fattispecie di cui all’art. 2119 c.c., fermo restando che, nell’ipotesi del dipendente di un istituto di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro.

V. peraltro ancora Cass. lav. n. 7948 del 07/04/2011, ed altre conformi, secondo cui in tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità.

Cass. lav. n. 17514 del 26/07/2010: in tema di licenziamento per giusta causa, l’insussistenza di alcuni dei fatti contestati in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore di lavoro nell’esercizio del suo potere disciplinare, non preclude al giudice di merito la possibilità di ritenere ugualmente giustificato il recesso, posto che non rileva il giudizio attribuito dal datore di lavoro circa la gravità dei fatti posti a fondamento della sua volontà di risolvere il rapporto con il lavoratore inadempiente spettando al giudice di merito l’apprezzamento della legittimità e congruità della sanzione applicata, apprezzamento che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, si sottrae a censure in sede di legittimità.

Cass. lav. n. 17514 del 26/07/2010: ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro. Nella specie, quindi, la Corte ha ritenuto adeguatamente motivata la sentenza di appello, che aveva respinto la domanda di un dipendente licenziato da un istituto di credito, il quale aveva consentito ad un cliente, benchè in assenza di fondi, l’apertura di un conto corrente al fine di realizzare operazioni speculative di “trading” con conseguente elevato rischio per il capitale dell’istituto medesimo.

V. ancora Cass. lav. n. 2579 del 2/2/2009, secondo cui quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119 c.c.. In senso conforme, id. n. 24574 del 31/10/2013 Cass. lav. n. 19742 in data 11/10/2005: anche in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo spetta unicamente al giudice del merito – e non può essere sindacato in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi – l’accertamento che i fatti addebitati al lavoratore rivestano il carattere di grave negazione degli elementi fondamentali del rapporto ed in specie di quello fiduciario, fermo restando che, nell’ipotesi di dipendente di un istituto di credito, e a maggior ragione di un dirigente per il quale è sufficiente che il licenziamento sia “giustificato”, la idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro. Nella specie è stata, quindi, confermata la sentenza di merito, che aveva ritenuto giustificato per colpa gravissima il licenziamento del responsabile dell’ufficio ispettivo di un istituto di credito, per aver proposto affidamenti senza provvedere a valutarne correttamente il merito creditizio ed omettendo gli accertamenti sulla sussistenza di adeguate garanzie a presidio del credito, nonchè per l’inadeguatezza dell’attività svolta in qualità di responsabile dell’ufficio ispettivo).

Dunque, alla stregua degli assorbenti richiamati principi di diritto, processuale e sostanziale, avuto riguardo agli accertamenti di fatto compiuti dalla Corte di merito – secondo cui, tra l’altro, la posizione del R. nell’ambito dell’istituto di credito rivestiva particolare importanza e delicatezza, considerato che egli era il preposto dell’agenzia – vanno disattesi i motivi sub due del ricorso proposto dallo stesso R.. Analogamente, del tutto inconferenti appaiono i motivi sub terzo mezzo d’impugnazione, relativi al secondo licenziamento, posto che del tutto legittimamente, oltre che opportunamente ed insindacabilmente, la Corte palermitana, competente a conoscere della causa in relazione alla cassazione con rinvio della precedente sentenza di appello, nonchè l’interposto gravame avverso la pronuncia n. 2379/10, concernente il secondo recesso, evidentemente intimato sul presupposto dell’eventuale invalidazione del primo, ha ritenuto di ordinare la riunione dei due procedimenti. Di conseguenza, una volta confermata la legittimità del primo licenziamento, giustamente la Corte di Appello ha ritenuto venuto meno un apprezzabile interesse a coltivare la domanda avverso il secondo, con conseguente cessazione, in effetti, della materia del contendere riguardo a quest’ultimo, una volta venuto appunto meno il rapporto contrattuale già alla data del primo, di guisa che risultava così inutiliter comminato il successivo, mancandone evidentemente il presupposto, dunque da considerare tamquam non esset (cfr. ad ogni modo tra le altre Cass. lav. n. 19840 del 4/10/2004, secondo cui il provvedimento di riunione previsto dall’art. 274 c.p.c., relativo alla stessa causa, obbligatoria, o a cause diverse ma connesse, facoltativa, ovvero dettato da motivi di economia processuale, essendo strumentale e preparatorio rispetto alla futura definizione della controversia, è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità, neanche attraverso l’impugnazione della sentenza che definisce il giudizio nel quale il provvedimento stesso è stato adottato.

V. in senso analogo Cass. 3 civ. n. 6453 del 29/10/1983, secondo cui la riunione di due o più cause pendenti davanti allo stesso giudice può essere disposta non solo se ricorra una vera e propria ipotesi di connessione, ma anche per ragioni di opportunità ed il relativo provvedimento, in quanto di natura ordinatoria e non produttivo di effetti sulla decisione, non è censurabile in cassazione.

Cfr. ancora Cass. 3 civ. n. 4033 del 14/06/1988: la riunione di cause connesse può essere disposta implicitamente con sentenza, ancorchè le stesse siano state decise separatamente, mediante lettura di dispositivi distinti, ed integrando un provvedimento ordinatorio rimesso alla discrezionale valutazione del giudice del merito, non è sindacabile in sede di legittimità.

Cass. 2 civ. n. 9638 del 10/09/1999: il provvedimento di riunione ex art. 274 c.p.c. ha natura ordinatoria e costituisce esercizio della facoltà discrezionale affidata al giudice di merito, incensurabile in cessazione. Del pari, è insindacabile in sede di legittimità il provvedimento di separazione, che può essere ordinata dal giudice di merito quando ne ravvisi l’opportunità, indipendentemente dall’istanza o dall’accordo delle parti. Conformi: Cass. n. 1331/1996, nn. 11522, 11523 e 11524 del 13/10/1999, n. 778 del 19/01/2001 secondo cui anche il provvedimento di separazione di cause in precedenza riunite ex cit. art. 274 ha natura meramente ordinatoria, e non è soggetto ai mezzi di impugnazione della sentenza.

Nello stesso senso v. altresì Cass. 3 civ. n. 7183 del 16/05/2002, secondo cui la valutazione della opportunità della trattazione congiunta di più cause connesse è rimessa alla discrezionalità del giudice innanzi al quale i procedimenti sono pendenti, con la conseguenza che l’esercizio, o il mancato esercizio, del potere di riunione è insindacabile in sede di gravame.

Similmente, v. pure Cass. 3 civ. n. 1873 del 02/02/2004: l’ordinanza che accoglie o rigetta l’istanza di riunione di procedimenti pendenti davanti allo stesso giudice o a sezioni diverse dello stesso ufficio giudiziario costituisce atto processuale di carattere meramente preparatorio, privo di contenuto decisorio sulla competenza, e la valutazione della opportunità della trattazione congiunta di più cause connesse è rimessa alla discrezionalità del giudice innanzi al quale i procedimenti sono pendenti, con la conseguenza che l’esercizio – o il mancato esercizio – di tale potere è insindacabile in fase di gravame.

Cass. 3 n. 6406 del 28/11/1988: la riunione in unico processo di più procedimenti pendenti davanti al medesimo ufficio è insuscettibile di sindacato da parte del giudice del gravame, ancorchè disposta fuori dei casi previsti dallo art. 274 c.p.c., trattandosi di norma che disciplina non una fase dell’iter formativo della decisione, ma solo l’ordine del procedimento e la cui violazione, pertanto, non determina la nullità della sentenza. Parimenti, Cass. lav. n. 7855 del 16/07/1991, nonchè Cass. sez. un. civ. n. 5210 del 27/05/1994, Cass. lav. n. 5620 del 24/06/1997, id. n. 7564 del 13/08/1997, Cass. 3 n. 2461 del 20/02/2001, Cass. 1 civ. n. 12865 del 04/09/2002, nonchè Cass. lav. n. 3193 del 18/02/2004.

V. ancora Cass. lav. n. 6951 del 16/12/1982, secondo cui la riunione di più cause pendenti davanti allo stesso giudice – che l’art. 151 disp. att. c.p.c. prevede, di regola, come obbligatoria nei procedimenti relativi a controversie, soggette al rito del lavoro, connesse anche soltanto per identità di questioni – è consentita, ai sensi dell’art. 274 c.p.c., non solo nel caso di connessione in senso proprio, ma anche quando ricorra, per motivi di economia processuale, una semplice opportunità di decidere simultaneamente le cause e costituisce, comunque, esercizio di una facoltà propria del giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità.

Cfr. altresì Cass. 3 civ. n. 12989 del 27/05/2010: quando due cause tra loro connesse pendono davanti allo stesso giudice, non sussiste un problema di spostamento della competenza, quanto, invece, la possibilità di provvedere alla loro riunione ai sensi degli artt. 273 e 274 c.p.c.; il provvedimento di riunione, così come la mancata assunzione del medesimo, ha carattere ordinatorio e, come tale, è insuscettibile di gravame in sede di legittimità. Conforme Cass. n. 671/1997.

In senso analogo id. n. 11357 del 16/05/2006, secondo cui l’identità di due cause pendenti davanti allo stesso giudice non può determinare il rapporto di litispendenza governato dall’art. 39 c.p.c., comma 1, che presuppone la contemporanea pendenza della “stessa causa” dinnanzi a “giudici diversi”, ma solo una situazione riconducibile alla fattispecie dell’art. 274 c.p.c., che, nel caso di identità di cause pendenti dinnanzi allo stesso giudice, consente e prescrive la loro riunione. Peraltro, l’ordinanza del giudice di merito che, nella ipotesi considerata dall’art. 274, provvede sulla istanza di riunione, deve considerarsi atto processuale di carattere meramente preparatorio, privo di contenuto decisorio sulla competenza, siccome non implicante soluzione di questioni relative ad una “translatio iudicii”.

Ancor più di recente, Cass. civ. sez. 6 – 5, con l’ordinanza n. 24496 del 18/11/2014, ha ritenuto che i provvedimenti relativi alla riunione o alla separazione delle cause sono atti processuali di carattere meramente preparatorio, privi di contenuto decisorio sulla competenza, ed insindacabili in sede di gravame, in quanto la valutazione dell’opportunità della trattazione congiunta delle cause connesse è rimessa alla discrezionalità del giudice innanzi al quale i procedimenti pendono.

Cfr., inoltre, Cass. 3 n. 1697 del 25/01/2008: nel caso di connessione della stessa causa con altra pendente davanti ad un diverso giudice dello stesso ufficio, è inidonea a determinare la nullità della sentenza la violazione dell’art. 274 c.p.c., comma 2, relativo al dovere del giudice incaricato della trattazione di una delle cause di riferire al capo dell’ufficio, in quanto concerne una norma attinente al mero ordine interno – ad uno stesso ufficio giudiziario – di trattazione delle cause, e non ad una fase dell’iter” formativo del convincimento del giudice. Peraltro, l’esercizio in senso affermativo o negativo del potere di disporre la riunione non è censurabile in sede di legittimità, poichè i relativi provvedimenti hanno natura ordinatoria e si fondano su valutazioni di mera opportunità.

Cass. 2 civ. n. 16405 del 17/06/2008 richiamava poi il principio generale, secondo cui il giudice può ordinare la riunione in un solo processo di impugnazioni diverse, oltre i casi espressamente previsti, ove ravvisi in concreto elementi di connessione tali da rendere opportuno, per ragioni di economia processuale, il loro esame congiunto.

Cass. sez. un. civ. n. 1521 del 23/01/2013: la riunione delle impugnazioni, obbligatoria ai sensi dell’art. 335 c.p.c., ove investano lo stesso provvedimento, può altresì essere facoltativamente disposta, anche in sede di legittimità, ove esse siano proposte contro provvedimenti diversi ma fra loro connessi, quando la loro trattazione separata prospetti l’eventualità di soluzioni contrastanti, siano ravvisabili ragioni di economia processuale ovvero siano configurabili profili di unitarietà sostanziale e processuale delle controversie. Conformi Sez. un. n. 18050 del 2010).

Quanto poi alla possibilità di un secondo recesso, va richiamato l’orientamento di questa Corte (sez. lavoro, sentenza n. 106 del 04/01/2013), secondo cui ove il datore di lavoro abbia intimato al lavoratore un licenziamento individuale, è ammissibile una successiva comunicazione di recesso dal rapporto da parte del datore medesimo, purchè il nuovo licenziamento si fondi su una ragione o motivo diverso e sopravvenuto (nel senso di non noto in precedenza al datore di lavoro) e la sua efficacia resti condizionata all’eventuale declaratoria di illegittimità del primo (cfr. altresì Cass. lav. n. 1244 del 20/01/2011, secondo cui il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sè astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti sola nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente. In senso analogo v. altresì Cass. n. 23641 del 2006, sez. lav. n. 6055 del 06/03/2008, n. 6773 del 19/03/2013, nonchè n. 24525 del 18/11/2014).

Infine, è infondato, se non del tutto inammissibile, il 4 motivo, relativo alla questione spese, peraltro confusamente articolato, visto quanto alla motivazione, nella specie invero sussistente con riferimento la principio della soccombenza, che la censura non può dirsi consentita dal vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella specie ratione temporis applicabile in relazione all’impugnata sentenza, risalente all’anno 2014.

Nè sussiste alcuna violazione degli artt. 384 e/o 385 c.p.c., ovvero degli artt. 91 e 92 c.p.c., atteso quanto sopra già rilevato circa il fatto che nessuna violazione della precedente sentenza di cessazione è ravvisabile nella specie da parte del giudice di rinvio, cui inoltre era stato demandato il compito di regolare le spese, evidentemente in base al risultato complessivo della causa. Pertanto, correttamente il ricorrente, rimasto soccombente, è stato condannato al rimborso delle spese di lite, ivi comprese quelle del giudizio di legittimità, definito mediante cassazione con rinvio della prima sentenza di appello, laddove il gravame del R. è stato poi nuovamente respinto. Per contro, le spese relative all’altro giudizio, ossia riguardo al secondo procedimento, inerente al successivo licenziamento, venivano interamente compensate, sussistendo giusti motivi.

Dunque, va applicato il principio, secondo cui in tema di spese processuali, il giudice del rinvio, cui la causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si deve attenere al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato, sicchè non deve liquidare le spese con riferimento a ciascuna fase del giudizio, ma, in relazione all’esito finale della lite, può legittimamente pervenire anche ad un provvedimento di compensazione delle spese, totale o parziale, ovvero, addirittura, condannare la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione – e, tuttavia, complessivamente soccombente – al rimborso delle stesse in favore della controparte (Cass. 1 civ. n. 20289 del 09/10/2015, in senso conforme Cass. 3 civ. n. 7243 del 29/03/2006, secondo cui il giudice del rinvio, al quale la causa sia rimessa dalla Corte di cessazione anche perchè provveda sulle spese del giudizio di legittimità, è tenuto a provvedere sulle spese delle fasi di impugnazione, se rigetta l’appello, e sulle spese dell’intero giudizio, se riforma la sentenza di primo grado, secondo il principio della soccombenza applicato all’esito globale del giudizio, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato. Conforme Cass. n. 4686 del 1992.

V. pure Cass. lav. n. 9783 del 18/06/2003: la cassazione con rinvio della sentenza d’appello si estende alla statuizione relativa alle spese processuali, con la conseguenza che il giudice di rinvio, se rigetta l’appello, ha il potere di provvedere sulle spese del giudizio di appello e, se riforma la sentenza di primo grado, può rinnovare totalmente la regolamentazione delle spese alla stregua dell’esito finale della lite e, in conseguenza di questo apprezzamento unitario, può pervenire anche ad un provvedimento di compensazione totale o parziale delle spese dell’intero giudizio. Conformi: n. 5497 e n. 14075 del 2002, nonchè n. 11490 del 21/06/2004. In senso analogo, v. altresì Cass. 3 civ. n. 4909 del 10/03/2004: il giudice del rinvio cui la causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità deve attenersi al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio e al loro risultato, con la conseguenza che la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione e tuttavia soccombente in rapporto all’esito finale della lite può essere legittimamente condannata al rimborso delle spese in favore dell’altra parte anche per il grado di cassazione. Conformi n. 6927 del 1987 e 4686/92 cit..

V. parimenti Cass. 2 civ. n. 2634 del 7/02/2007: in tema di liquidazione delle spese, per la ipotesi di cassazione della sentenza, il giudice del rinvio, cui la causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, deve attenersi al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio e al loro risultato, con la conseguenza che la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione e tuttavia soccombente in rapporto all’esito finale della lite, può essere legittimamente condannata al rimborso delle spese in favore dell’altra parte anche per il grado di cassazione. Conformi Cass. n. 15005 del 2000, nonchè n. 14619 del 17/06/2010 e n. 19345 del 12/09/2014).

Dunque, il ricorso va respinto, con la condanna del soccombente al rimborso delle relative ulteriori spese, come di seguito liquidate in dispositivo, a favore di parte controricorrente. Sussistono, infine, i presupposti di legge nonchè all’ulteriore contributo unificato come per legge.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 4500,00 per compensi, oltre rimborso spese generali pari al 150/0 ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2016

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