Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17696 del 07/09/2016

Cassazione civile sez. II, 07/09/2016, (ud. 19/05/2016, dep. 07/09/2016), n.17696

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8852 – 2012 R.G. proposto da:

P.L. – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliato in Roma,

al viale Bruno Buozzi, n. 77, presso lo studio dell’avvocato Filippo

Tornabuoni che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Luigi

Fagetti ed all’avvocato Stefano Fagetti lo rappresenta e difende in

virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

B.E. – cf. (OMISSIS) – B.A. – cf. (OMISSIS) –

PI.RO. – c.f. (OMISSIS) – PI.FI. – c.f.

(OMISSIS) – elettivamente domiciliati in Roma, alla via Publio

Valerio, n. 9, presso lo studio dell’avvocato Mario Romano che

congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Roberto Dotti li

rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

Avverso la sentenza n. 500 del 10.1/9.2.2012 della corte d’appello di

Milano;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 19

maggio 2016 dal consigliere dott. Luigi Abete;

Udito l’avvocato Filippo Tornabuoni per il ricorrente;

Udito l’avvocato Mario Romano per i controricorrenti;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore

generale dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato in data 4.4.2002 P.L., proprietario di un terreno in Cernobbio, citava a comparire innanzi al tribunale di Como, Lu. e Pi.Si., proprietari del terreno limitrofo.

Chiedeva che si accertasse che i muri di contenimento e i terrazzamenti realizzati dai convenuti lungo il pendio del loro fondo avevano le caratteristiche di una costruzione eseguita in violazione della distanza minima dal confine prescritta dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e previgenti; che si accertasse inoltre che le medesime opere avevano determinato l’innalzamento del piano di calpestio del terreno dei convenuti con aggravio della visuale di introspezione sul fondo di sua proprietà; che si condannassero, conseguentemente, i convenuti alla demolizione ovvero all’arretramento dei muri cd al risarcimento dei danni.

Si costituivano i convenuti.

Instavano per il rigetto delle avverse domande; esperivano altresì domanda riconvenzionale.

Assunte le prove articolate, disposta ed espletata c.t.u., con sentenza n. 607/2007 il tribunale adito condannava i convenuti ad arretrare i muri di contenimento sino alla prescritta distanza di m. 5 dal confine nonchè ad abbassare i terrazzamenti nei limiti consentiti dallo strumento urbanistico; rigettava ogni altra domanda e condannava in solido i convenuti a rimborsare all’attore le spese di lite.

Interponevano appello Lu. e Pi.Si..

Resisteva P.L..

Interrotto il giudizio a seguito della morte di Pi.Si., si costituivano i suoi eredi Pi.Lu. ed B.E..

Acquisiti i chiarimenti richiesti ai consulenti officiati in prime cure, a seguito del decesso di Pi.Lu., si sono costituiti, quali suoi eredi, Bi.An., Pi.Fi. e Pi.Ro..

Con sentenza n. 500 dei 10.1/9.2.2012 la corte d’appello di Milano, in parziale riforma della gravata sentenza, in ogni altra parte confermata, rigettava la domanda esperita in prime cure da Luigi P., compensava integralmente le spese di prime e seconde cure, poneva le spese delle cc.tt.uu. per metà a carico di ciascuna parte.

Esplicitava – la corte di merito – che nella relazione integrativa depositata in data 26.5.2011 si concludeva nel senso che “i muri di contenimento costruiti in sassi sulla proprietà Pi., pur se classificati come interventi artificiali, sono necessari per evitare il denudamento, il franamento e/o lo scivolamento della terra naturale e ciò per tutta la loro altezza” (così sentenza d’appello, pag. 7); che conseguentemente non si ravvisavano “ragioni per discostarsi dalle valutazioni e conclusioni del consulente, adeguatamente motivate e prive di vizi logici” (così sentenza d’appello, pag. 7).

Esplicitava ancora che non rivestiva alcuna valenza l’eventuale difformità dei manufatti rispetto a quanto autorizzato col rilascio della concessione edilizia.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso P.L.; ne ha chiesto sulla scorta di due motivi la cassazione con ogni susseguente pronuncia in ordine alle spese di lite.

B.E., Bi.An., Pi.Ro. e Pi.Fi. hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese di lite.

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Del pari i controricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 872 – 873 c.c. (…) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3” (così ricorso, pag. 5).

Adduce che, siccome si evince dalla relazione di c.t.u. espletata in prime cure, i muri realizzati nella proprietà di pane avversa hanno “caratteristiche tecniche di vera e propria costruzione, dai momento che fungono da contenimento di vasti terrazzamenti creati artificialmente” (così ricorso, pag. 7); che conseguentemente sono soggetti a concessione edilizia e soggiacciono al rispetto delle distanze legali stabilite dal codice civile e dai regolamenti locali; che in particolare i muri si estendono sino a cavallo del cordolo in calcestruzzo di delimitazione della linea di confine tra la proprietà sua e quella di controparte, in violazione della distanza minima di m. 5 dal confine imposta dallo strumento urbanistico locale.

Adduce altresì che la costruzione dei muri ha “comportato l’innalzamento del piano di calpestio della proprietà dei signori Pietroboni di oltre due metri, il che ha dato luogo anche ad un aggravio della visuale di introspezione sul fondo di sua proprietà” (così ricorso, pag. 11), sicchè in forza dcl’esperita actio negatoria servitutis “ha pieno diritto di ottenere la riduzione in pristino dello stato dei luoghi” (così ricorso, pag. 11).

Adduce inoltre che la costruzione dei muri è stata indebitamente sanata sul piano amministrativo.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce “insufficiente, erronea e contraddittoria motivazione su di un punto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)” (così ricorso, pag. 13).

Adduce che la consulenza tecnica d’ufficio espletata in seconde cure “non rende alcun chiarimento e si pone in netta contrapposizione con le conclusioni cui era giunto il c.t.u. (…) in primo grado laddove aveva concluso (…) che i terrazzamenti erano derivati dalla creazione di terrapieni artificiali con alterazione volontaria del piano di calpestio del pendio, e che violavano la distanza dei mt. 5 dal confine” (così ricorso, pag. 14).

Adduce segnatamente che la relazione di c.t.u. espletata in secondo grado ha dato sia al primo che al secondo quesito risposte del tutto ambigue e per nulla ha dato risposta al terzo quesito.

Adduce che in ogni caso “proprio perchè le balze di terra sono state create artificialmente (…) è evidente che i muri realizzati sono costruzioni a lutti gli effetti” (così ricorso, pagg. 16 – 17).

Si premette che pur il primo motivo si specifica e si qualifica in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (si condivide, quindi, la prospettazione dei controricorrenti secondo cui “il primo motivo (…) è, in realtà, una censura di fatto”: così controricorso, pag. 7).

Occorre tener conto, da un lato, che P.L. anche col primo motivo censura sostanzialmente il giudizio di fatto cui la corte distrettuale ha atteso (“il punto focale di questa causa in realtà è uno solo: se i muri in questione siano da qualificarsi come di contenimento (…) oppure se (…)”: così memoria ex art. 378 c.p.c. del ricorrente, pag. 1;

“tale premessa avrebbe dovuto portare la Corte ad analizzare un unico aspetto decisivo: se i muri edificati avessero o meno alterato e cioè creato o accentuato il naturale dislivello esistente”: così ricorso, pag. 5).

Occorre tener conto, dall’altro, che è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione).

In questi termini si giustifica la disamina congiunta di ambedue i motivi di ricorso.

Entrambi i motivi, in ogni caso, sono destituiti di fondamento.

Si rappresenta, previamente, che, in ossequio al canone di cosiddetta autosufficienza del ricorso per cassazione (cfr. Cass. sez. lav. 4.3.2014, n. 4980), quale positivamente sancito all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), ben avrebbe dovuto il ricorrente, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro, il compiuto vaglio dei suoi assunti, riprodurre più o meno integralmente nel corpo del ricorso il testo delle relazioni delle indagini tecniche tutte all’uopo disposte e non limitarsi a trascriverne singoli stralci.

E ciò tanto più giacchè i controricorrenti hanno dedotto che “controparte (…) sostiene l’esatto contrario di quanto il c.t.u. di primo grado ha affermato” (così controricorso, pag. 9) e che la “perizia depositata avanti la Corte d’appello (…) depone in modo univoco e determinante a favore dei resistenti Pi.” (così controricorso, pag. 13).

Si rappresenta, comunque, che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Si rappresenta, conseguentemente, che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Nei termini testè enunciati l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed esaustivo sul piano logico – formale.

Più esattamente la corte di Milano ha vagliato nel complesso – non ha dunque obliterato la disamina di punti decisivi – e dipoi ha in maniera inappuntabile selezionato il materiale probatorio cui ha inteso ancorare il suo dictum (“nella relazione integrativa depositata il 26 maggio 2011, si spiega: a) è stato attuato un consolidamento del versante tramite la realizzazione di muri, costruiti in pietra moltasina, (…), per evitare movimenti franosi del terreno, già in precedenza verificatisi nella zona (…); b) i muri – in altezza variabile e comunque non superiore a 2,50 m., (…) hanno tutti funzione di contenimento (..)”: così sentenza d’appello, pag. 7), altresì palesando in forma nitida e coerente il percorso decisorio seguito (“non si ravvisano (…) ragioni per discostarsi dalle valutazioni e conclusioni del consulente”: così sentenza d’appello, pag. 7; “nè si rileva contraddittorietà tra la relazione da ultimo depositata e la precedente”: così sentenza d’appello, pag. 7).

Si tenga conto che questa Corte spiega che, in caso di fondi a dislivello, non può considerarsi “costruzione” ai fini e per gli effetti dell’art. 873 c.c. il muro di contenimento realizzato per evitare smottamento o frane (cfr. Cass. 21.5.1997, n. 4511; cfr. Cass. 11.7.1995, n. 7594, secondo cui nel caso di fondi a dislivello, nei quali adempiendo il muro anche ad una funzione di sostegno e di contenimento del terrapieno o della scarpata, una faccia non si presenta di norma come isolata e l’altezza può anche superare i m. 3, se tale è l’altezza del terrapieno o della scarpata, non può essere considerato come costruzione, ai fini dell’osservanza delle distanze legali, il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e di contenimento del declivio naturale).

Al contempo, la corte territoriale ha specificato che “già nella prima relazione dell’ausiliario (…) si evidenziava che gli appellanti avevano ripreso i vecchi terrazzamenti ripristinando i muri cadenti” (così sentenza d’appello, pag. 8). Il che rende del tutto ingiustificata la prospettazione del ricorrente secondo cui “terrazzamenti non ve n’erano e quindi non c’era l’esigenza di contenere alcunchè” (così memoria ex art. 378 c.p.c. del ricorrente, pag. 1).

Ancora, sulla premessa — tra le altre – per cui “in scarpate e versanti la cui superficie è prevalentemente rocciosa, la poca terra presente è trattenuta contro lo scivolamento dalla costruzione di muri come nel caso in esame” (così sentenza d’appello, pag. 7) – premessa analogamente ancorata agli esiti della relazione integrativa di c.t.u. depositata in data 26.5.2011 e di per sè idonea a svelare siccome parimenti del tutto ingiustificata la prospettazione di Pi.Lu. secondo cui “i muri di contenimento sono stati realizzati con un notevole ed ingentissimo riporto di terra artificiale per creare terrazzamenti e che conseguentemente il declivio naturale originario era totalmente differente dall’aspetto attuale del pendio” (così ricorso, pag. 16) – la corte lombarda ha puntualizzato che non assumeva alcuna rilevanza la riscontrata modificazione dell’originario piano di campagna.

Tanto, evidentemente, non solo al fine di escludere la qualificazione dei muri di contenimento de quibus quali costruzioni, ma pur con immediata valenza in rapporto al preteso “aggravio della visuale di introspezione sul fondo di proprietà attorea” (così ricorso, pag. 11).

In ogni caso ed a rigore con i motivi addotti il ricorrente null’altro prospetta se non un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti (“in sostanza, nessun elemento di causa dimostra che il terreno degli appellanti fosse caratterizzato da balze naturali e che queste stesse balze fosse state contenute con i muri per cui è causa”: cosi ricorso, pag. 12; “dopo tutte queste considerazioni che dicono e non dicono, ma ad un intelligente lettore fanno comprendere più che chiaramente che ci si trova di fronte a terrazzamenti realizzati artificialmente con il riporto di terra”: così ricorso, pag. 15).

I motivi, dunque, involgono gli aspetti del giudizio – interni al discrezionale ambito di valutazione degli clementi di prova e di apprezzamento dei fatti – afferenti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di siffatto convincimento rilevanti nel segno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

I motivi del ricorso, pertanto, si risolvono in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 263.2010, n. 7394; Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Il rigetto del ricorso giustifica la condanna del ricorrente al rimborso in favore dei controricorrenti delle spese del giudizio di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, P.L., a rimborsare ai controricorrenti, B.E., Bi.An., Pi.Ro. e Pi.Fi., le spese del giudizio di legittimità che si liquidano nel complesso in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a, e cassa come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 19 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2016

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