Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17695 del 25/08/2020

Cassazione civile sez. III, 25/08/2020, (ud. 26/06/2020, dep. 25/08/2020), n.17695

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco M. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22203-2018 proposto da:

M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, Via Ottaviano 91,

presso lo studio dell’avv. GABRIELE D’OTTAVIO, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

T.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OVIDIO 32,

presso lo studio dell’avvocato BRUNO CHIARANTANO, rappresentato e

difeso dall’avvocato FATIMA FRANCESCA MALLAMACI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 338/2017 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 01/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/06/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.A. propose opposizione al decreto ingiuntivo col quale il Tribunale di Reggio Calabria le aveva ordinato il pagamento della somma di Lire 13.178.000 in favore del Dott. T.B., a titolo di compenso per prestazioni odontoiatriche da lui eseguite.

Espose, a sostegno dell’opposizione, che il dentista le aveva consigliato di sostituire i denti mancanti con una protesi stabile in oro e ceramica, per il costo complessivo di Lire 13.500.000; che egli, però, non le aveva spiegato come il tipo di intervento programmato, finalizzato alla reintegrazione dell’apparato masticatorio, avrebbe comportato la necessità di intaccare anche i denti sani. Precisò di essere stata sottoposta ad una prima seduta in anestesia, durata circa quattro ore, nel corso della quale il dentista le aveva monconizzato diciannove denti sani, destinati ad essere poi incapsulati; e che al risveglio, resasi conto dell’intervento espletato, aveva chiesto spiegazioni al Dott. T., che aveva reagito con insofferenza. Ragione per cui, aggiunse l’opponente, ella aveva preferito rivolgersi ad un altro professionista per il completamento della protesi.

La M., pertanto, oltre a chiedere la revoca del decreto ingiuntivo o, in subordine, la condanna al pagamento di una somma minore – chiese anche che il dentista fosse condannato al risarcimento dei danni conseguenti allo svolgimento di un intervento non necessario, che non le era stato adeguatamente spiegato e che, comunque, si sarebbe potuto realizzare con modalità meno invasive, quale l’applicazione di capsule ad incastro.

Si costituì in giudizio il Dott. T., chiedendo il rigetto della proposta opposizione. Sostenne il professionista che la paziente era stata adeguatamente informata del tipo di intervento, che dal punto di vista terapeutico era il più logico ai fini del ripristino dell’apparato masticatorio, al quale aveva prestato il suo assenso.

All’esito dell’istruttoria, nella quale fu espletata una c.t.u. sulla persona dell’attrice e fu sentito come teste il marito della stessa, il Tribunale revocò il decreto ingiuntivo e condannò la M. al pagamento della minore somma di Euro 2.298,23, con gli interessi legali, ed alla rifusione di un terzo delle spese di lite.

Il Tribunale rilevò, tra l’altro, che l’intervento era stato correttamente svolto dal dentista, ma che non era stato dimostrato che la paziente avesse ricevuto un’adeguata informazione sulle modalità dello stesso; per cui, comprensibile essendo la decisione di rivolgersi ad un diverso professionista, ella doveva essere condannata al pagamento del solo lavoro eseguito fino a quel momento, da determinare in via equitativa in un terzo della somma richiesta.

2. La pronuncia è stata impugnata in via principale dalla M. ed in via incidentale dal Dott. T. e la Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza del 1 giugno 2017, in parziale accoglimento dell’appello principale, ha revocato il decreto ingiuntivo, ha rigettato nel resto l’appello principale ed integralmente quello incidentale, ed ha posto a carico dell’appellato un terzo delle spese dei due gradi, compensate quanto ai residui due terzi.

2.1. In ordine alla questione del consenso, la Corte territoriale ha rilevato che incombe sul medico l’onere della prova che esso sia stato validamente prestato dal paziente, eventualmente con apposita scrittura da fare firmare. Nella specie, invece, nessuna prova era stata resa dal Dott. T. su questo punto, posto che non risultava che alla paziente fosse stata fornita una previa dettagliata informazione medica; nè potevano ritenersi sufficienti, a questo scopo, la consegna di un generico preventivo, per quanto leggibile, “senza alcuna indicazione di previ interventi di monconizzazione dei denti e senza che neanche sul disegno, prestampato sul foglietto, delle posizioni dei denti sulle arcate, venisse segnalato alcunchè”. Il marito della M. aveva negato che ella avesse prestato il consenso ad un intervento tanto invasivo; per cui, dovendosi ritenere come mancante un valido consenso all’atto operatorio, la paziente non era tenuta al pagamento del dentista neppure per la parte di lavoro svolto, sicchè il decreto ingiuntivo doveva essere revocato senza condanna al pagamento di una somma minore. E da tale conclusione derivava anche il rigetto dell’appello incidentale del professionista, volto ad ottenere la conferma integrale dell’opposto decreto ingiuntivo.

2.2. Tanto premesso, la Corte reggina è passata ad esaminare la domanda di risarcimento dei danni sulla quale, secondo l’appellante principale, il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi.

A questo proposito, la sentenza ha osservato come la domanda risarcitoria fosse stata proposta in relazione all’inesperienza, imperizia ed ambiguità professionale nel rapporto con la paziente, risultando perciò finalizzata al risarcimento dei danni “provocati alla funzionalità dell’apparato masticatorio”. Posta in questi termini, la domanda non poteva essere accolta, dal momento che dall’espletata c.t.u. era risultato che l’intervento terapeutico era stato ben concepito e solo in parte realizzato dal Dott. T.; e comunque, tenendo in considerazione lo stato “gravemente compromesso” dell’apparato masticatorio della paziente, la scelta per una protesi fissa era da ritenere condivisibile da un punto di vista terapeutico. L’intervento era stato, inoltre, correttamente eseguito, come risultava dal fatto che nessun problema aveva avuto la M. nel momento in cui si era rivolta ad un altro dentista per completare la protesi, la quale era stata applicata senza difficoltà e senza compromissione della funzione masticatoria.

Ha concluso poi la Corte d’appello rilevando che la richiesta di risarcimento dei “postumi invalidanti anche di natura psicologica” non poteva essere accolta, in quanto proposta per la prima volta in grado di appello; così come la richiesta di espletamento di un’ulteriore c.t.u. per l’accertamento di tali presunti danni psicologici era da rigettare in quanto “essenzialmente esplorativa”.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria propone ricorso M.A. con atto affidato a due motivi.

Resiste il Dott. T.B. con controricorso.

La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 437 c.p.c., sul rilievo che la sentenza impugnata, travisando il tenore complessivo dell’atto di opposizione al decreto ingiuntivo e leggendolo solo in parte, avrebbe omesso di pronunciarsi sulla totalità della domanda risarcitoria.

Sostiene la ricorrente, trascrivendo in parte il contenuto dell’originario atto di opposizione, di avere fin dal primo grado chiaramente illustrato che il dentista non le aveva spiegato che l’intervento di protesi da lui progettato avrebbe comportato la lesione di diciannove denti sani. Tanto ciò era vero che ella, non appena conclusa la prima seduta, aveva deciso di rivolgersi ad un altro dentista. La ristrutturazione dell’apparato masticatorio si sarebbe potuta effettuare con una tecnica assai meno demolitoria; la domanda risarcitoria era infatti finalizzata alla liquidazione del pregiudizio psico-fisico conseguente all’intervento svolto, e la perdita di molti denti, cui è da equiparare la monconizzazione degli stessi, è valutata con una percentuale di invalidità tra il 10 e l’11 per cento. Poichè la domanda risarcitoria si era fondata sulla demolizione di diciannove denti sani, la Corte d’appello ne aveva arbitrariamente ridotto il contenuto, tenendo in considerazione la sola possibilità di masticare, senza considerare “i guasti, di natura fisica e psichica, provocati dal professionista con il suo intervento cruento e non autorizzato”.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 13 e 32 Cost., degli artt. 1218, 2043, 2727 e 2729 c.c., oltre ad omesso esame di punti decisivi.

La complessa censura prende le mosse dalla constatazione per cui la sentenza ha accertato in modo indiscutibile che il consenso all’intervento non fu prestato e ricorda come tale consenso costituisca legittimazione e fondamento dell’intervento del medico, necessario perchè qualsiasi intervento terapeutico sia lecito, anche se nell’interesse del paziente. Il dovere di informazione comporta che l’acquisizione del consenso informato costituisca oggetto di una prestazione diversa da quella al consenso all’intervento medico, come da costante giurisprudenza; mentre la Corte d’appello, “affermando che il danno da mancato consenso informato coinciderebbe in sostanza con l’eventuale danno derivante dalla esecuzione di un intervento correttamente eseguito, mancando il quale nessun pregiudizio può essere riconosciuto al paziente”, avrebbe violato quella distinzione. La lesione del diritto all’autodeterminazione, che è cosa diversa dal danno alla salute, comporta che il medico sia chiamato al risarcimento in via autonoma quando la violazione dell’obbligo di acquisizione del consenso determina anche un danno alla salute. Richiamando alcune recenti pronunce di legittimità sull’argomento, la ricorrente rileva che la mancata informazione comporta, in capo al paziente, la perdita della possibilità di esercitare una serie di scelte, tra cui quella di non sottoporsi all’intervento proposto, o di farlo in un secondo momento o di rivolgersi ad un altro operatore per la sua esecuzione. La perdita di tale possibilità di scelta determinerebbe “anche una sofferenza psichica”, perchè il paziente non può predisporsi psicologicamente alle conseguenze dell’intervento stesso; e tale perdita del diritto di autodeterminazione non necessita, secondo la ricorrente, di una specifica prova. Come la stessa Corte d’appello ha accertato, infatti, sarebbero stati possibili anche altri tipi di intervento, meno invasivi, che la ricorrente avrebbe preferito a quello realmente compiuto.

3. Osserva il Collegio che il primo motivo di ricorso non è fondato.

3.1. In considerazione del tipo di censura, che abilita la Corte al controllo degli atti, occorre stabilire innanzitutto se la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente sia stata realmente proposta o meno. Nonostante la formulazione del primo motivo sia alquanto contraddittoria – perchè, mentre lamenta la lesione del diritto all’informazione, nel contempo pone in luce come la domanda risarcitoria sia stata formulata in relazione ad una colpa professionale, conseguente a negligenza e imperizia – tuttavia è evidente dal tenore complessivo del ricorso che la doglianza di cui al primo motivo è finalizzata all’introduzione della censura contenuta nel secondo, che è quella relativa, appunto, alla lesione del diritto all’autodeterminazione. La ricorrente, infatti, richiama i più recenti sviluppi della giurisprudenza di questa Corte la quale ha ormai in più occasioni affermato che la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonchè un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (così, da ultimo, la sentenza 11 novembre 2019, n. 28985, in linea peraltro con una giurisprudenza più risalente; v., tra le altre, le sentenze 9 febbraio 2010, n. 2847, 16 maggio 2013, n. 11950, e 23 marzo 2018, n. 7248).

Ragione per cui è chiaro che, ove la domanda di risarcimento dei danni da lesione del diritto all’autodeterminazione non fosse stata davvero proposta, rimarrebbe assorbito l’esame del secondo motivo.

3.2. Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene che la domanda suddetta non sia stata effettivamente proposta dalla M..

Il giudizio odierno, infatti, è un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, decreto ottenuto dal Dott. T. per il pagamento delle proprie spettanze professionali e fatto oggetto di opposizione da parte dell’odierna ricorrente. Dall’atto di citazione in opposizione – al quale il Collegio ha accesso, come detto, in virtù del tipo di censura proposto risulta in modo indiscutibile che la causa era stata promossa dalla paziente invocando il risarcimento dei danni derivanti (asseritamente) dalla scorrettezza dell’intervento eseguito. La M., in sostanza, contestava al dentista di aver compiuto la monconizzazione di diciannove denti sani allo scopo di installare una protesi fissa; intervento che, a suo dire, non era necessario, perchè si sarebbe potuto ottenere lo stesso risultato con altre strategie terapeutiche meno invasive, come l’applicazione di capsule ad incastro. L’unico passaggio dell’atto di citazione in opposizione dal quale potrebbe dedursi l’effettiva proposizione della domanda di lesione del diritto all’autodeterminazione è quello, riportato a p. 5 del ricorso, dove testualmente si dice: “Il Dott. T. non ha mai spiegato alla paziente la natura del suo intervento, nè ha mai precisato che, per integrare il suo apparato masticatorio, avrebbe proceduto allo smantellamento dei denti sani. La riprova di ciò sta nel fatto che, non appena l’esponente si è resa conto di quanto provocato dal Dott. T., si è immediatamente sottratta alle sue cure”.

Se questo è l’unico passaggio dell’atto di citazione rilevante ai fini che qui interessano – e così è, posto che il resto di quell’atto non contiene alcun accenno al problema del diritto all’autodeterminazione – è evidente che la domanda risarcitoria della quale la ricorrente lamenta il mancato esame non è stata per nulla proposta. La doglianza dell’opponente era infatti collegata in modo chiaro alle presunte “inesperienza, imperizia ed ambiguità professionale del Dott. T.”, come risulta dal passaggio successivo del medesimo atto di citazione; ed il generico richiamo alla mancata spiegazione di quello che sarebbe stato l’intervento da svolgere si collega con una contestazione circa la correttezza tecnica dell’operato del professionista. Anche il richiamo, sopra riferito, alla decisione di non affidarsi più alle cure del Dott. T. e di rivolgersi ad un diverso professionista appare piuttosto come la conseguenza della convinzione che il dentista non avesse agito con la dovuta perizia; convinzione che, sia detto per incidens, non ha poi trovato alcun effettivo supporto nell’accertamento di merito compiuto dalla Corte d’appello, la quale ha concluso che l’intervento era stato correttamente eseguito e che era, anzi, da ritenere il migliore in rapporto alla situazione della paziente.

Nessuna domanda di risarcimento dei danni per lesione del diritto all’autodeterminazione, però, può dirsi essere stata effettivamente proposta; per cui il primo motivo non è idoneo a dimostrare alcuna omissione di pronuncia. Del tutto incomprensibile è, poi, il richiamo all’art. 437 c.p.c., dal momento che la causa è stata trattata con il rito ordinario.

4. L’infondatezza del primo motivo di ricorso esime il Collegio dall’obbligo di esaminare il secondo, che si concentra appunto sulla lesione del diritto all’autodeterminazione; motivo che rimane assorbito.

5. In conclusione, il ricorso è rigettato.

A tale esito segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

Sussistono inoltre le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 3.500, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 26 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 agosto 2020

 

 

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