Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17690 del 07/09/2016


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Cassazione civile sez. II, 07/09/2016, (ud. 19/04/2016, dep. 07/09/2016), n.17690

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12586 – 2013 R.G. proposto da:

CLINICA PAOLO SACCHI ISTITUTO FISICO TERAPICO di TORINO SERVIZI di

PREVENZIONE – p.i.v.a. (OMISSIS) – in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, al

viale Giulio Cesare, n. 14/A/4, presso lo studio dell’avvocato

Gabriele Pafundi che congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato

Giorgio Santilli la rappresenta e difende in virtù di procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA delle ENTRATE – c.f. (OMISSIS) – in persona del direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12,

elettivamente domicilia;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 2277 dei 6/20.11.2012 della corte d’appello di

Torino;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 19

aprile 2016 dal consigliere don. Luigi Abete;

Uditi l’avvocato Alessia Ciprotti, per delega dell’avvocato Gabriele

Pafundi, per la ricorrente;

Udita l’avvocato Isabella Corsini, per l’Avvocatura dello Stato, per

la controricorrente;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore

generale dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L'”Agenzia delle Entrate” notificava in data 19.2.2010 alla “Clinica Paolo Sacchi Istituto Fisico Terapico di Torino Servizi di Prevenzione” s.r.l. ordinanza – ingiunzione di pagamento, ai sensi del D.Lgs. 28 marzo 1997, n. 79, art. 6 (convertito con modificazioni nella L. 28 maggio 1997, art. 6), della complessiva somma di Euro 70.612,54; si era acclarato che la s.r.l. ingiunta, in violazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53, comma 9, aveva, con riferimento agli anni 2005 e 2006, conferito incarichi al dottor C.C., dirigente medico di medicina interna presso il pronto soccorso dell’a.s.l. n. (OMISSIS) di Ivrea, in assenza della prescritta autorizzazione e, in violazione dell’art. 53, comma 11 del medesimo D.Lgs., non aveva, con riferimento agli anni 2005, 2006 e 2007, comunicato all’amministrazione pubblica di appartenenza del dottor C. i compensi erogatigli.

Con ricorso del 16.3.2010 la “Clinica P.S.” proponeva opposizione al tribunale di Torino.

Deduceva – tra l’altro – che “era stata tratta in inganno, in ordine all’assenza di situazioni di impedimento, dallo stesso comportamento del dott. C., a mezzo di produzione di fatture e ricevute, atte a mascherare l’anomalia poi emersa” (così ricorso, pag. 9; che dunque vi era margine perchè le si riconoscesse l’esimente di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 698, art. 3, comma 2, per errore incolpevole sul fatto.

Chiedeva annullarsi l’ordinanza – ingiunzione di pagamento; in subordine, chiedeva applicarsi la sola sanzione, da ritenersi assorbente, relativa alla omessa richiesta di autorizzazione.

Si costituiva l'”Agenzia delle Entrate”; instava il rigetto dell’avversa opposizione.

Con sentenza n. 5599/2010 il giudice adito accoglieva l’opposizione, annullava l’ordinanza ingiunzione e condannava l’amministrazione opposta a rifondere a controparte le spese di lite.

Interponeva appello l’Agenzia delle Entrate.

Resisteva la “Clinica P.S.”.

Con sentenza n. 2277 dei 6/20.11.2012 la corte d’appello di Torino accoglieva il gravame, rigettava l’opposizione esperita in prime cure dalla “Clinica P.S.” e la condannava a rimborsare all’appellante le spese del grado.

Premetteva la corte di merito che la semplificazione D.P.R. n. 633 del 1972, art. 32 degli oneri di fatturazione e di registrazione per i contribuenti minori, invocata dall’appellata, non valeva ad esimere chi si avvale di tale regime semplificato “dall’indicazione, per ogni madre e figlia del bollettario, del numero di partita i.v.a., per l’espresso e ripetuto richiamo dell’art 21” (così sentenza d’appello, pag. 7); che quindi l’operatività di siffatto obbligo non era da escludere nel caso di specie.

Evidenziava conseguentemente che appariva davvero difficile riconoscere la buona fede, esimente da responsabilità L. n. 689 del 1981, ex art. 3, comma 2, in capo alla “Clinica P.S.”, “operatore professionale, tenuto alla conoscenza delle normative regolanti la materia della propria attività” (così sentenza d’appello, pag. 8); che propriamente non poteva “la condotta tenuta dal dott. C.C., di maliziosa irregolarità nei confronti della Clinica P.S., (…) costituire esimente dalla responsabilità amministrativa” (così sentenza d’appello, pag. 9); che invero l’esatto adempimento degli obblighi su di essa gravanti avrebbe dovuto certamente indurre l’appellata ad accertare la qualità di pubblico dipendente del dottor C., “addirittura nota al dottor M.D., direttore sanitario della Clinica (e come tale organo apicale della stessa (…)), secondo quanto dal medesimo dichiarato dalla Guardia di Finanza di Torino” (così sentenza d’appello, pag. 9).

Evidenziava altresì, in ordine alla domanda subordinata esperita in prime cure dall’appellata, che la circostanza che per entrambe le fattispecie contestate fosse stabilita la stessa sanzione, era ben lungi dal determinarne la duplicazione; che infatti si era al cospetto di “una mera parificazione, quoad pnenam, determinata in misura fissa, di due diverse, autonome e distinte violazioni di legge, riguardanti omissione di comportamenti (…) certamente non sovrapponibili neppure parzialmente” (così sentenza d’appello, pagg. 10 – 11).

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso la “Clinica P.S. Istituto Fisico Terapico di Torino Servizi di Prevenzione” s.r.l.; ne ha chiesto, sulla scorta di due motivi, la cassazione con vittoria di spese.

L'”Agenzia delle Entrate” ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del giudizio.

La ricorrente ha depositato memoria es art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente deduce “art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 con riferimento all’art. 2727 c.c., al D.L. n. 79 del 1997, art. 6 e al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 9 e 11” (così ricorso, pag. 14).

Adduce che dalla conoscenza de relato che il proprio direttore sanitario ha avuto dell’incarico presso l’a.s.l. n. (OMISSIS) di Ivrea del dottor C., non può farsi scaturire la presunzione di analoga conoscenza da parte del proprio legale rappresentante; che del resto, seppure il proprio organo rappresentativo avesse avuto conoscenza dell’incarico del dottor C. presso l’a.s.l. n. (OMISSIS) di Ivrea, tale informazione non sarebbe stata “indice di alcuna potenziale irregolarità, posto che la normativa vigente consente ai medici non in posizione apicale di esercitare attività extra – moenia, eventualmente part – time e senza alcun obbligo di formale autorizzazione da parte dell’ente pubblico” (così ricorso, pag. 15); che al contempo neppure dalla pretesa violazione dell’obbligo di verifica della regolarità della documentazione fiscale emessa dal dottor C. può farsi scaturire la conoscenza “della qualità di pubblico dipendente del medesimo professionista incompatibile con l’attività svolta” (così ricorso, pag. 15).

Adduce, segnatamente, che, viceversa, era a conoscenza di attività esercitata dal dottor C. per altro ente privato, il che lasciava “presumere l’assenza di condizioni ostative” (così ricorso, pagg. 16 – 17); che “le prime fatture/ricevute sono state rilasciate dal dott. C. con regolare numero di partita i.v.a. e (…) non aveva alcun motivo per presumere che l’assenza dello stesso sulle successive fatture (…) dovesse essere indice di irregolarità amministrativa o fiscale” (così ricorso, pag. 17); che pertanto la “condotta di maliziosa irregolarità” tenuta dal dottor C.C., che mai ha palesato di trovarsi in regime di incompatibilità, ha ingenerato un errore sui fatti contestati non evitabile con il grado di diligenza da pretendersi da parte di una piccola struttura sanitaria privata non convenzionata con il servizio sanitario nazionale.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce “art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 11 in relazione alla L. n. 689 del 1981, artt. 3 e 9” (così ricorso, pag. 22).

Adduce che l’ordinanza ingiunzione ha operato una duplicazione della sanzione, in contrasto con la ratio della disciplina applicata.

Destituito di fondamento è il primo motivo.

Si premette che il motivo in disamina si qualifica in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (si condivide, quindi, la prospettazione della controricorrente secondo cui la ricorrente “contesta la valutazione delle prove operata dai giudici di secondo grado”: così controricorso, pag. 3).

Occorre tener conto, da un lato, che con il primo motivo la “Clinica P.S.” censura sostanzialmente il giudizio di fatto cui la corte distrettuale ha atteso in ordine ed ai fini del riscontro della sua responsabilità ragionamento seguito dalla sentenza di secondo grado appare infondato, per violazione dell’art. 2727 c.c.”: così ricorso, pag. 14; “al contrario di quanto sostenuto dall’Agenzia delle Entrate e recepito dalla Corte d’Appello(…)”: così ricorso, pag. 19); dall’altro, che è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione).

Su tale scorta si osserva previamente che il principio posto dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 (secondo il quale, per le violazioni amministrativamente sanzionate, è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa) postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa; al contempo, che l’esimente della buona fede, intesa come errore sulla liceità del fatto (applicabile anche in tema di illecito amministrativo disciplinato dalla citata L. n. 689 del 1981), assume rilievo solo in presenza di elementi positivi idonei ad ingenerare, nell’autore della violazione, il convincimento della liceità del suo operato, purchè tale errore sia incolpevole ed inevitabile, siccome determinato da un elemento positivo, idoneo ad indurlo in errore ed estraneo alla sua condotta, non ovviabile con ordinaria diligenza o prudenza (cfr. Cass. 12.12006, n 11012; cfr. Cass. sez. lav, 7.9.2006, n. 19242).

E si osserva ulteriormente che questa Corte spiega che l’accertamento – che i surriferiti principi importano – rientra nei poteri del giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr. Cass. 29.92009, n. 20866).

Negli enunciati termini si reputa che l’iter motivazionale che, in parte qua agitur, sorregge il dictum del giudice del gravame, risulta in roto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico – formale.

Si osserva, in ogni caso ed a rigore, che con il motivo addotto la ricorrente null’altro prospetta se non un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti (“la dichiarazione del dott. Maniaci non è direttamente ascrivibile all’ente”: così ricorso, pag. 16; “anche il mancato inserimento della partita IVA nelle fatture/ricevute emesse nel corso del tempo e a fronte di pagamenti in regime di esenzione, non poteva costituire alcun indice di irregolarità tale da imporre all’ente indagini sulla liceità del comportamento del medico”: così ricorso, pag. 19).

I motivi, dunque, involgono gli aspetti del giudizio – interni al discrezionale ambito di valutazione degli elementi di prova e di apprezzamento dei fatti – afferenti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di siffatto convincimento rilevanti nel segno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

I motivi del ricorso, pertanto, si risolvono in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 26.3.2010, 17.7394; altresì Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Fondato e meritevole di accoglimento, viceversa, è il secondo motivo.

Va dato atto che la Corte costituzionale con statuizione n. 98 del 5.6.2015 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 76 Cost., il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53, comma 15, nella parte (“i soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9”) in cui assoggetta gli enti pubblici economici e i privati che conferiscono incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, alla sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti, in caso di omessa comunicazione dell’ammontare dei compensi (in particolare la Consulta ha specificato, tra l’altro, che la disciplina censurata non risulta riconducibile ai principi o criteri direttivi enunciati nelle leggi di delega succedutesi nel tempo, che non avevano autorizzato il legislatore delegato a prevedere sanzioni amministrative per l’inadempimento dell’obbligo di comunicazione dei compensi corrisposti; che, inoltre, la censurata previsione finisce per risultare particolarmente vessatoria, atteso che la sanzione in esame si duplica rispetto a quella già prevista per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione, con un effetto moltiplicativo raccordato ad un inadempimento di carattere formale).

Evidentemente la declaratoria di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 15 se, da un canto, lascia persistere la sanzione inflitta in rapporto alla violazione della disposizione di cui all’art. 53 cit., comma 9 (“gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi (…). In caso di inosservanza si applica la disposizione (…), dall’altro, rende del tutto priva di titolo, di giustificazione la sanzione inflitta in rapporto alla violazione della disposizione (“entro quindici giorni dall’erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all’amministrazione di appartenenza l’ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici”) di cui al medesimo art. 53, comma 11 (cfr. Cass. 20.11.2012, n 20381, secondo cui le pronunce di accoglimento del giudice delle leggi – dichiarative di illegittimità costituzionale – eliminano la norma con effetto “ex tunc”, con la conseguenza che essa non è più applicabile, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione della decisione, perchè l’illegittimità costituzionale ha per presupposto l’invalidità originaria della legge – sia essa di natura sostanziale, procedimentale o processuale – per contrasto con un precetto costituzionale, fermo restando il principio che gli effetti dell’incostituzionalità non si estendono esclusivamente ai rapporti ormai esauriti in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l’ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d’incostituzionalità).

In accoglimento del secondo motivo di ricorso la sentenza n. 2277 dei 6/20.11.2012 della corte d’appello di Torino va perciò cassata con rinvio ad altra sezione della medesima corte.

In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso; cassa la sentenza n. 2277 dei 6/20.11.2012 della corte d’appello di Torino in relazione e nei limiti del motivo accolto; rigetta il primo motivo di ricorso; rinvia ad altra sezione della corte d’appello di Torino anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sez. seconda civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 19 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2016

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