Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17690 del 02/07/2019

Cassazione civile sez. III, 02/07/2019, (ud. 07/05/2019, dep. 02/07/2019), n.17690

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22281-2017 proposto da:

ISTITUTO RELIGIOSO PROVINCIA RELIGIOSA SAN BENEDETTO DI DON ORIONE

DELLA CONGREGAZIONE DELLA PICCOLA OPERA DELLA DIVINA PROVVIDENZA, in

persona del suo legale rappresentante in carica, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio

dell’avvocato LUIGI MANZI, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato CESARE FEDERICO GLENDI;

– ricorrente –

contro

P.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO

ROSAZZA 32 presso lo studio dell’avvocato UGO LUCA SAVIO DE LUCA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA ANGELA

GRILLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 794/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 15/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/05/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI ANNA MARIA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CALDERARA GIANLUCA per delega;

udito l’Avvocato MANGAZZO FRANCESCO per delega orale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. L’istituto Religioso Provincia Religiosa San Benedetto di Don Orione della Congregazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza (da ora Istituto Religioso) ricorre, affidandosi a sei motivi illustrati anche da memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Genova che, riformando la pronuncia del Tribunale, aveva accolto la domanda di P.G. e condannato l’istituto religioso, titolare di una casa di riposo presso la quale i suoi genitori era stati ricoverati fino al decesso, a restituirle una somma di danaro corrispondente a quanto indebitamente erogato all’Istituto dal padre P.F. il quale l’aveva esclusa dalla designazione testamentaria ed aveva nominato come unica erede la moglie B.V. che, deceduta successivamente al marito, aveva rispettato le regole successorie nel secondo testamento olografo da lei redatto, designando la figlia come unica erede.

2. La parte intimata ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La natura della vicenda impone una breve sintesi degli aspetti fattuali della controversia, in funzione di un più chiaro esame delle questioni di diritto che si andranno ad affrontare.

1.1. P.G. evocò dinanzi al Tribunale di Genova l’Istituto Religioso Don Orione per ottenere, in qualità di erede dei propri genitori, la restituzione della ingente somma che il padre P.F. (deceduto nel (OMISSIS)), in tre diverse date e mediante due assegni ed un versamento in conto corrente, aveva corrisposto all’istituto dove era ricoverato insieme alla madre B.V. (deceduta successivamente nel (OMISSIS)).

1.2. La parte convenuta si difese affermando, fra le altre cose, che i versamenti erano giustificati dalla completa ospitalità (comprensiva di vitto ed alloggio) prestata ai coniugi P.- B. ai quali veniva pure corrisposta, in cambio, una rendita mensile: chiedeva, pertanto, oltre al rigetto della domanda, anche la restituzione, in via riconvenzionale, di quanto era stato indebitamente versato sul conto della madre per alcune mensilità dopo la sua morte, oltre che i mobili dell’appartamento che era stato ceduto all’istituto e che erano stati sottratti dalla figlia.

1.3. Il Tribunale respingeva la domanda nonchè la riconvenzionale della controparte.

1.4. La Corte d’Appello di Genova ha accolto sia l’appello principale della P. che quello incidentale dell’Istituto condannandolo alla restituzione di una somma complessiva corrispondente agli importi indebitamente corrisposti dal padre dai quali venivano detratte le mensilità di rendita versate alla B. dopo la sua morte.

1.5. La Corte, in sostanza, esaminava sia le circostanze caratterizzanti la duplice successione (in cui la B. era succeduta al marito ed aveva lasciato un secondo testamento olografo con il quale, revocando implicitamente il primo – speculare a quello del coniuge – aveva designato la figlia come unica erede) nonchè quelle collaterali alla vicenda successoria e cioè la cessione all’istituto di un immobile con riserva di usufrutto dei genitori e con avvenuto pagamento soltanto di una parte di prezzo: i giudici d’appello affermavano, conclusivamente, che la rendita corrisposta dall’istituto in favore dei P. costituiva il corrispettivo della vendita della nuda proprietà dell’immobile e che, conseguentemente, la somma progressivamente versata dal padre dell’appellante era effettivamente priva di giustificazione, in quanto l’istituto, onerato della prova circa la causa debendi di essa, non aveva assolto al relativo onere.

2. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 4 e dell’art. 164 c.p.c., comma 4, anche in specifica relazione degli artt. 2697 e 2033 c.c. Lamenta la totale assenza di motivazione in ordine al mancato assolvimento dell’onere della prova dei versamenti effettuati. Deduce altresì che, negli atti introduttivi di primo grado e d’appello, l’attrice/appellante non aveva allegato nulla sul titolo di pagamento limitandosi a prospettare solo in via subordinata una eventuale donazione invalida in relazione alla quale non aveva fornito alcuna prova.

2.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di chiarire che “proposta domanda di ripetizione di indebito, l’attore ha l’onere di provare l’inesistenza di una giusta causa delle attribuzioni patrimoniali compiute in favore del convenuto, ma solo con riferimento ai rapporti specifici tra essi intercorsi e dedotti in giudizio, costituendo una prova diabolica esigere dall’attore la dimostrazione dell’inesistenza di ogni e qualsivoglia causa di dazione tra “solvens” e “accipiens” (cfr. Cass. 1734/2011).

2.2. La Corte territoriale ha correttamente applicato tale principio, motivando compiutamente in ordine al bilanciamento degli oneri probatori nel caso concreto (cfr. pag. 5 nella quale vengono illustrate le argomentazioni del Tribunale e pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata nelle quali vengono esaminati i motivi d’appello ai quali viene fornita un articolato riscontro), per cui la sentenza non presenta alcun profilo di nullità e la motivazione risulta congrua, logica e ben al di sopra della sufficienza costituzionale: con essa è stata correttamente inquadrata la posizione delle parti ed è stati anche interpretato, in forma critica, l’arresto richiamato dal Tribunale a sostegno della propria decisione (Cass.1170/99): i giudici d’appello hanno correttamente affermato che, pur presentando punti di contatto con la fattispecie oggetto di quel giudizio, nel caso in esame non poteva giungersi alla medesima soluzione ivi adottata in ragione della differente dialettica processuale, in quanto l’istituto, a fronte della allegazione di parte attrice di totale assenza di giustificazione dei versamenti, aveva prospettato argomentazioni in parte generiche (concernenti l’assenza di qualsiasi specificazione relativa alle modalità ed al prezzo del mantenimento), in parte sospette (in quanto l’erogazione della rendita era iniziata contestualmente alla vendita dell’appartamento il cui prezzo era stato solo parzialmente pagato) ed in parte prive di adeguata dimostrazione, argomentando compiutamente in ordine all’assenza di prova sufficiente del rapporto commutativo dedotto dall’istituto che si era assunto, in tal modo, l’onere della prova non riuscendo a soddisfarlo.

2.3. Il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 è, pertanto, privo di fondamento.

3. Con il secondo ed il terzo motivo – da esaminarsi congiuntamente per la stretta connessione logica – il ricorrente, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce:

a. la violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 e 2967 c.c.: assume che la Corte territoriale aveva erroneamente invertito l’onere della prova ritenendo che, in ordine alla donazione indiretta come causa giustificativa dell’indebito versamento, non fosse l’attrice a dover dimostrare che l’autore dei trasferimenti in danaro in favore dell’istituto avesse l’intenzione di compiere un atto di liberalità.

b. la violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 e 2967 c.c. anche in relazione agli artt. 783 ed 809 c.c.: lamenta, sempre in relazione alla prospettata liberalità come causa giustificativa complementare (a quella commutativa) della retentio, che la Corte non aveva affatto motivato sull’esclusione di tale fattispecie.

3.1. Entrambe le censure che criticano, in buona sostanza, la statuizione della Corte territoriale in punto di ripartizione dell’onere della prova rispetto alla condictio indebiti, sono inammissibili.

3.2. Infatti, a fronte di un preciso percorso argomentativo dei giudici d’appello (cfr. pag. 6 penultimo cpv della sentenza impugnata), la critica si risolve in una richiesta di rivalutazione di merito articolata attraverso la contrapposizione di una tesi difensiva, volta a ribaltare la costruzione logica della Corte territoriale ed il suo motivato convincimento: la censura, pertanto, maschera la richiesta di rivalutazione di merito della controversia, non consentito in sede di legittimità (cfr. Cass. 8758/2017; Cass. 18721/2018).

4. Con il quarto ed il quinto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorrente deduce:

a. la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 156 c.p.c., comma 2 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. anche in relazione all’art. 111 Cost.: contesta la motivazione resa dalla Corte sulla portata non giustificativa dei pagamenti eseguiti sui quali si fondava la tesi difensiva dell’Istituto;

b. la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.: lamenta che la Corte aveva respinto le istanze istruttorie (interpello e prova testi) per poi ritenere non provata la giustificazione resa.

4.1. Entrambe le censure sono inammissibili perchè contrappongono una diversa ed apodittica tesi difensiva alla motivazione congrua e logica della Corte (cfr. pag. 8 primo cpv. sentenza), articolata con un esaustivo percorso argomentativo: le censure, pertanto, prospettano soltanto una non condivisione della motivazione che, invece, risulta immune da profili di nullità o apparenza.

In particolare, rispetto al quinto motivo, si osserva che la prova è stata ritenuta implicitamente inammissibile perchè inidonea a dimostrare la causa dell’elargizione la quale, in sè, era un fatto pacifico che non aveva bisogno di ulteriori dimostrazioni.

4.2. E vale solo la pena di rilevare che questa Corte ha affermato, con orientamento ormai consolidato e pienamente condiviso dal Collegio che “l’ammissione della prova testimoniale costituisce un potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, o mancato esercizio, è insindacabile in sede di legittimità ove sia correttamente motivato.” (cfr. Cass. 11889/2007; Cass. 22117/2016; Cass. 22630/2016)

5. Con il sesto motivo, infine, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 il ricorrente deduce la violazione degli artt. 343 e 346 c.p.c..

5.1. Lamenta che la sentenza aveva disatteso l’appello incidentale proposto sull’autenticità del secondo testamento olografo della madre della P., assumendo che erroneamente la Corte aveva ritenuto che fossero stati riproposti soltanto gli assunti difensivi di primo grado, laddove, invece era stato prospettato uno specifico motivo di appello incidentale.

5.2. Il motivo è infondato.

Il ricorrente, infatti, riporta le argomentazioni spese ma omette di considerare che nelle conclusioni dell’appello incidentale (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata sub “conclusioni dell’appellante incidentale”) il motivo proposto è riferito soltanto al testamento olografo di P.F. e non anche a quello di B.V. che, soltanto, aveva designato la figlia come unica erede.

L’assenza di conclusioni riferite all’autenticità del suo testamento hanno correttamente indotto la Corte territoriale ad affermare che “poichè la contestazione della qualità di erede, sulla base della non autenticità del testamento, rappresentava un’eccezione espressamente disattesa dal giudice di primo grado, si determinava per la parte appellata una condizione di soccombenza che la onerava alla presentazione di specifici motivi di appello incidentale ” (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata).

5.3. La motivazione della Corte – che trova pieno riscontro nel raffronto fra il ricorso e la sentenza – risulta pertanto immune dalla censura prospettata.

6. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte,

rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 9.200,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre ad accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2019

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