Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17682 del 29/08/2011

Cassazione civile sez. III, 29/08/2011, (ud. 18/04/2011, dep. 29/08/2011), n.17682

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12594/2009 proposto da:

UNIVERSITA’ STUDI MILANO in persona del Rettore pro tempore,

MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA (OMISSIS) in persona del

Ministro p.t., MINISTERO ECONOMIA FINANZE in persona del Ministro

p.t., UNIVERSITA’ STUDI PAVIA (OMISSIS) in persona del Rettore

p.t., MINISTERO LAVORO SALUTE POLITICHE SOCIALI (OMISSIS) in

persona del Ministro p.t., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso gli uffici dell’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che li rappresenta e difende per legge;

– ricorrenti –

contro

T.N.M. (OMISSIS), B.C.

(OMISSIS), C.M.M.C.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DI TRASONE

8, presso lo studio dell’avvocato FORGIONE ERCOLE, rappresentati e

difesi dagli avvocati VALERI Nicoletta, SPECIALE PATRIZIA, SPECIALE

SALVATORE giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 142/2009 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

SEZIONE PRIMA CIVILE, emessa il 16/7/2008, depositata il 19/01/2009

R.G.N. 5373/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/04/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato FIGLIOLIA ETTORE;

udito l’Avvocato FORGIONE E’RCOLE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso con l’accoglimento del 4^ motivo del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Con citazione notificata il 14 febbraio 2002 all’Università degli Studi di Milano ed il 13 febbraio 2002 agli altri convenuti T.N.M., B.C. e C. M.M., ed altri attori, adducendo di essere tutti medici specializzatisi negli anni 1982-1991/94, senza aver mai percepito alcuna remunerazione per la frequenza ai corsi, benchè dovuta ai sensi della direttiva 82/76/CEE, convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di Milano, le Università degli Studi di Milano e di Pavìa, il Ministero del Tesoro, il Ministero della Sanità ed il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, e ne chiedevano la condanna, in via solidale, alternativa o concorrente, al pagamento della somma di L. 21.500.000 per ciascun anno di specializzazione, o delle diverse somme ritenute di giustizia, oltre interessi e rivalutazione; o, in subordine, la loro condanna al risarcimento dei danni subiti quantificati in L. 21.500.000 per ciascun anno di specializzazione, o, in estremo subordine, la loro condanna ad indennizzare gli attori in ragione dell’arricchimento senza causa conseguito dai convenuti; vinte le spese giudiziali.

1.1.- Le amministrazioni convenute, costituendosi, eccepivano preliminarmente tutte il difetto di giurisdizione del giudice ordinario; nonchè la prescrizione breve quinquennale di cui all’art. 2948 cod. civ., essendo le borse di studio di cui si lamentava la mancata erogazione, corrisposte, D.L.gs. n. 257 del 1991, ex art. 6, in sei rate bimestrali posticipate, o comunque la prescrizione ex art. 2946 cod. civ., essendo il primo atto utile ad interrompere la prescrizione rappresentato dall’atto introduttivo del giudizio, posteriore di oltre dieci anni alla scadenza ipotizzabile per la corresponsione delle borse di studio rivendicate. Nel merito, tutti contestavano la fondatezza della domanda.

2.- Con sentenza del 26 novembre 2003 il Tribunale di Milano, disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione, accoglieva l’eccezione di prescrizione quinquennale ex art. 2948 cod. civ., n. 4, in considerazione della cadenza bimestrale delle rate di pagamento della borsa di studio secondo quanto previsto dalla normativa, che riteneva applicabile, di cui al richiamato D.Lgs. n. 257 del 1991 e conseguentemente rigettava la domanda di tutti gli attori, compensando interamente tra le parti le spese di lite.

3.- La sentenza veniva appellata davanti alla Corte d’Appello di Milano da parte delle predette T., B. e C., con atto di citazione notificato il 27 dicembre 2004, chiedendo l’accoglimento delle domande già svolte in primo grado.

Gli appellati Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (già dell’Università e della Ricerca), Ministero dell’Economia e delle Finanze (già del Tesoro), Ministero della Salute e delle Politiche Sociali (già della Sanità), Università degli Studi di Milano e Università degli Studi di Pavia si costituivano in giudizio ribadendo l’eccezione di difetto di giurisdizione e chiedendo comunque, in subordine, la conferma della sentenza impugnata o, in ogni caso, il rigetto nel merito delle domande delle appellanti; in estremo subordine chiedevano che gli importi eventualmente ritenuti dovuti alle controparti venissero commisurati a quelli stabiliti dalla L. n. 370 del 1999, con decorrenza degli interessi legali dalla domanda giudiziale, con esclusione del cumulo di questi con la rivalutazione monetaria, e con vittoria, o quanto meno compensazione, delle spese di lite.

4.- La Corte d’Appello, con sentenza del 19 gennaio 2009, in accoglimento dell’appello ed in conseguente riforma della sentenza impugnata, ha condannato tutte le parti appellate, in solido, al pagamento della somma di L. 13.000.000, pari ad Euro 6.713,94, per ogni anno di regolare corso di specializzazione, oltre interessi legali; con compensazione delle spese anche del grado di appello.

5.- Contro questa sentenza propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi i Ministeri dell’Istruzione, Università, Ricerca, Economia e delle Finanze, Lavoro, Salute e Politiche sociali, nonchè le Università degli Studi di Milano e di Pavia.

Resistono con controricorso, illustrato da memoria, tutte e tre le intimate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono strettamente connessi e vanno trattati congiuntamente.

Col primo si denuncia “violazione e falsa applicazione artt. 112 e 113, 342 c.p.c. – art. 360 c.p.c., n. 4” e col secondo “violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 257 del 1991; Direttiva Cee 362/75, 82/76, L. n. 370 del 1999, art. 11; artt. 2946, 2948 c.c. – art. 360 c.p.c., n. 3”.

Con entrambi si censura la statuizione della Corte d’Appello che ha ritenuto l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti e l’erroneità del decisum di primo grado, per essere applicabile, al caso di specie, la L. n. 370 del 1999, dalla cui entrata in vigore si dovrebbe far decorrere il termine di prescrizione, e non dalla entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, come ritenuto dal primo giudice: ciò, sul presupposto che tale ultima legge non avrebbe consentito l’utile esercizio del diritto de quo, per converso possibile soltanto dopo l’entrata in vigore della Legge del 1999.

Secondo i ricorrenti, così decidendo, la Corte d’Appello avrebbe violato le norme richiamate col secondo motivo di ricorso e, comunque, avrebbe riformato la decisione di primo grado per un motivo diverso rispetto a quelli dedotti dalle appellanti.

1.1.- Entrambi i motivi di ricorso sono infondati. La decisione impugnata applica correttamente la previsione della L. n. 370 del 1999, art. 11, interpretato conformemente alla direttiva 82/76/CEE, che ha modificato la direttiva 75/363/CEE; in conseguenza, non viola il disposto degli artt. 2946 e 2948 cod. civ., in tema di prescrizione; ed, in rito, non viola gli artt. 112 e 113 e 342 cod. proc. civ., avuto riguardo alla causa petendi della domanda principale ed ai motivi di appello, nonchè alle ragioni di accoglimento del gravame, fondate sul richiamato della L. n. 370 del 1999, art. 11, interpretato in maniera conforme alla normativa comunitaria.

2.- La Corte d’Appello, nell’accogliere la domanda principale formulata dalle attrici appellanti, ha ritenuto che la richiesta di tutela sia volta ad ottenere, da parte di medici già iscritti a corsi di specializzazione rientranti tra quelli reciprocamente riconosciuti in ambito comunitario, il riconoscimento del diritto ad “una remunerazione adeguata” e la condanna dei convenuti al relativo pagamento, in adempimento dell’obbligazione sorta ex lege a loro carico ed a favore delle attrici.

2.1.- Il quadro normativo di riferimento è ricostruito dal giudice d’appello nei seguenti termini:

– il diritto è riconosciuto da una direttiva comunitaria incondizionata, quindi direttamente applicabile, quanto al diritto alla remunerazione, ma non self-executing quanto all’ammontare di questa ed al soggetto tenuto al pagamento; pertanto, fino a quando questi elementi non fossero stati definiti dal legislatore nazionale, tenuto alla trasposizione della direttiva, il diritto alla remunerazione sarebbe stato inesigibile e come tale non azionabile ai sensi dell’art. 2935 cod. civ.;

– il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, di attuazione della direttiva 82/76/CEE, recante modifica di precedenti direttive in tema di formazione dei medici specialisti, ha trasposto appunto nell’ordinamento nazionale tale direttiva, determinando la remunerazione e fissando i requisiti necessari per poterla richiedere, compresa l’individuazione del soggetto tenuto al pagamento, ma ha disposto soltanto per il futuro, in riguardo a coloro che si sarebbero iscritti ai corsi di specializzazione a far data dall’anno 1991/1992; si sarebbe potuta ipotizzare un’applicazione retroattiva a coloro che avevano frequentato corsi di specializzazione nel periodo intercorrente tra il 1983 e il 1991, in aderenza alle prescrizioni comunitarie (quindi disapplicando la legge interna nella parte in cui restringeva il beneficio solo per il futuro); tuttavia, tale operazione di interpretazione c.d. conforme era impedita -come rilevato anche dalla giustizia amministrativa- dalla diversità della situazione degli specializzandi iscritti ai corsi anteriormente all’anno accademico 1991/92 rispetto a quella degli specializzandi iscritti ai corsi successivi, sia in punto di durata del corso che di orario obbligatorio di frequenza che, infine, di incompatibilità; pertanto, l’applicazione del D.Lgs. ai primi avrebbe comportato l’attribuzione di un vantaggio economico ingiustificato (in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza e con i principi comunitari di non discriminazione); e ciò, in quanto “al di là della prova di un impegno fattuale superiore allo standard normativo, la stessa possibilità, giustificata dalla disciplina pregressa, di assolvere i doveri connessi con la iscrizione al corso di specializzazione con minori restrizioni costituiva un elemento di significativa discriminazione che non avrebbe legittimato la equiparazione economica, impedendo per ciò stesso al giudice nazionale di assicurare per via interpretativa un trattamento omogeneo in situazioni diverse”;

– con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, è stata, invece, presa in considerazione proprio la situazione dei medici iscritti a corsi di specializzazione dall’anno accademico 1983-1984 all’anno accademico 1990-1991 ed, operando una giustificata e ragionevole differenziazione delle situazioni, è stata finalmente determinata la “adeguata remunerazione” correlata al tipo di impegno degli appartenenti a tale categoria di specializzandi nel minore importo di L. 13.000.000 annue (senza interessi e rivalutazione), subordinatamente all’accertamento delle condizioni soggettive previste dal secondo comma della norma.

2.2.- Dato il quadro normativo di cui sopra, la Corte d’Appello ha ritenuto applicabile al caso di specie la normativa da ultimo richiamata, interpretata conformemente alla direttiva comunitaria 82/76/CEE. Allo scopo ha ritenuto disapplicabile, o meglio non applicabile, la limitazione del beneficio, prevista dalla legge, ai medici destinatari di talune sentenze passate in giudicato emesse dal TAR Lazio, e quindi applicabile la L. n. 370 del 1999, art. 11, anche a coloro che, pur non avendo adito il TAR, erano iscritti ai medesimi corsi ed erano in possesso dei medesimi requisiti utili per fruire della remunerazione riconosciuta con tale norma. Ha, infatti, ritenuto del tutto ingiustificato “rispetto ai prevalenti precetti sovranazionali” il criterio selettivo adoperato dalla L. n. 370 del 1999, poichè fa dipendere il diritto alla remunerazione non da una diversità di requisiti sostanziali ma da un presupposto processuale che risulta del tutto estraneo alla previsione della direttiva comunitaria. Ha quindi richiamato i precedenti della Corte di Giustizia in tema di illegittimità di una norma nazionale che subordini il godimento di un diritto riconosciuto dall’ordinamento comunitario al previo ottenimento di una pronuncia giurisdizionale favorevole; aggiungendo che, per di più, nel caso di specie il diritto era riconosciuto soltanto a coloro che avessero adito il giudice prima dell’entrata in vigore della legge, sicchè il ricorso all’autorità giudiziaria nemmeno si sarebbe potuto configurare in termini di onere imposto dalla legge nazionale a carico di tutti gli eventuali interessati. In conclusione, ha affermato che il diritto alla remunerazione previsto dalla L. n. 370 del 1999, art. 11, va riconosciuto a coloro che, come le attrici, possedevano i medesimi requisiti, oggettivi e soggettivi, valutati nelle sentenze del TAR Lazio.

3.- L’iter argomentativo seguito dalla Corte milanese è criticato dai ricorrenti sotto i seguenti profili:

– coloro che hanno frequentato i corsi di specializzazione nel periodo precedente il 1991, avrebbero potuto agire per il riconoscimento del loro diritto ad un’adeguata remunerazione già sulla base del D.Lgs. n. 257 del 1991;

– non potrebbe invece essere invocato la L. n. 370 del 1999, art. 11, perchè sarebbe norma peculiare riferita ai soggetti destinatari di sentenze del TAR Lazio passate in giudicato e perchè tale limitazione non sarebbe discriminatoria in quanto il legislatore avrebbe inteso salvaguardare, fra i medici ammessi alle scuole di specialità prima del 1991, “proprio coloro che avevano comunque provveduto a tutelare almeno tempestivamente l’asserito diritto rivendicato, garantendo loro, oltretutto, un importo inferiore, rispetto alla borsa di studio ex D.Lgs. n. 257 del 1991, in relazione al minor impegno richiesto agli specializzandi ed alla possibilità di svolgere attività lavorativa prima della novella del 1991”.

3.1.- Con riguardo a tale secondo rilievo, i ricorrenti richiamano la giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui il giudicato derivato dalle sentenze alle quali si riferisce la L. n. 370 del 1999, art. 11, non potrebbe essere esteso a coloro che non avessero a suo tempo proposto apposito ricorso giurisdizionale, nonchè i precedenti del Consiglio di Stato con cui sono state reputate manifestamente infondate le questioni di illegittimità costituzionale sollevate in riferimento allo stesso art. 11.

A prescindere dalla palese incoerenza dell’impostazione difensiva dei ricorrenti, essendo le due censure in contrasto tra loro, come già evidenziato nella sentenza impugnata (cfr. pagg. 10-12), nessuna delle due è comunque meritevole di accoglimento.

4.- La domanda delle attrici, odierne resistenti, ha ad oggetto il riconoscimento del diritto ad ottenere un’adeguata remunerazione per avere frequentato presso le Università di Milano e di Pavia le scuole di specializzazione medica in un periodo precedente l’anno accademico 1991/1992 e per avere conseguito i relativi diplomi.

Il diritto in parola è sancito dall’art. 2, n. 1, lett. c), nonchè al punto 1 dell’allegato della direttiva 75/363/CEE (detta direttiva “coordinamento”, perchè mirante al coordinamento delle disposizioni nazionali attinenti alle attività di medico) -emanata unitamente alla direttiva 75/362/CEE (detta direttiva “riconoscimento”, mirante al riconoscimento reciproco di diplomi, certificati ed altri titoli di medico)- come modificata dalla direttiva 82/76/CEE. L’art. 2, n. 1, della direttiva “coordinamento”, come modificato dall’art. 9 della direttiva 82/76, dispone in particolare che la formazione che permette il conseguimento di un diploma, certificato o altro titolo di medico specialista deve soddisfare le condizioni ivi menzionate, specificate poi nell’allegato alla direttiva “coordinamento”, aggiunto dall’art. 13 della direttiva 82/76; tra queste, è previsto il riconoscimento di “una adeguata rimunerazione”. L’art. 16 della direttiva 82/76 disponeva che gli Stati membri avrebbero dovuto mettere in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva entro e non oltre il 31 dicembre 1982.

Soltanto successivamente ai fatti che hanno dato origine alla presente controversia, le direttive “riconoscimento”, “coordinamento” e 82/76 sono state abrogate e sostituite dalla direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, 93/16/CEE, intesa ad agevolare la libera circolazione dei medici e il reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli; a questa è stata data attuazione dallo Stato italiano con il D.Lgs. 17 agosto 1999 n. 368.

Le direttive “riconoscimento” e “coordinamento” erano state, invece, trasposte dallo Stato italiano con L. 22 maggio 1978, n. 217; con la sentenza 7 luglio 1987, causa 49/86, Commissione/Italia, la Corte di Giustizia ha dichiarato che la Repubblica italiana, non avendo adottato nel termine prescritto le disposizioni necessarie per conformarsi alla direttiva 82/76, era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del Trattato CEE. A seguito di tale sentenza, la direttiva 82/76 è stata trasposta con D.lgs. 8 agosto 1991, n. 257, entrato in vigore 15 giorni dopo la data della sua pubblicazione.

4.1.- La Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi sulla questione se la disposizione della direttiva 82/7 6/CEE, nella parte in cui prevede che la formazione dei medici specialisti “forma oggetto di una adeguata remunerazione”, debba essere interpretata, in mancanza dell’emanazione di norme specifiche della Repubblica italiana nei termini previsti, nel senso dell’efficacia diretta a favore dei medici specializzandi nei confronti delle amministrazioni della Repubblica italiana, e se attribuisca ai medici specializzandi in formazione il diritto ad un compenso adeguato correlato alla complessiva attività di formazione svolta nei servizi incaricati dallo Stato, con il relativo obbligo per tali amministrazioni di corrispondere tale compenso, con le sentenze 25.2.1999, in causa C- 131/97, Carbonari ed altri e 3 ottobre 2000, in causa C-371/97, Gozza, ha statuito nei seguenti termini:

– l’art. 2, n. 1, lett. c), nonchè il punto 1 dell’allegato della direttiva “coordinamento”, come modificata dalla direttiva 82/76, impongono agli Stati membri, per quanto riguarda i medici legittimati a fruire del sistema del reciproco riconoscimento, di retribuire i periodi di formazione relativi alle specializzazioni mediche, ove esse rientrino nell’ambito d’applicazione della direttiva. Il detto obbligo è, in quanto tale, incondizionato e sufficientemente preciso;

le direttive “coordinamento” e 82/7 6 non contengono alcuna definizione comunitaria della remunerazione da considerarsi adeguata, nè dei metodi di fissazione di tale remunerazione. Definizioni del genere rientrano, in via di principio, nella competenza degli Stati membri che devono, in tale settore, adottare specifici provvedimenti di attuazione;

per quanto riguarda l’identificazione dell’istituzione cui compete il versamento della remunerazione, nè la direttiva “coordinamento” nè la direttiva 82/76 identificano il debitore tenuto a retribuire i periodi di formazione relativi alle specializzazioni mediche e, di conseguenza, gli Stati membri dispongono di un’ampia discrezionalità in merito.

4.2.- Come da propria giurisprudenza, costante fin dalla sentenza 10 aprile 1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann, la Corte di Giustizia ha ribadito che l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure il dovere loro imposto dall’art. 5 del Trattato (oggi art. 10 CE) di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali (in particolare, sentenze 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing; 14 luglio 1994, causa C-91/92, Faccini Dori; 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie;

richiamate da ultimo, tra le altre, dalla sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., nonchè da Cass. S.U. n. 27310/08). Premesso che spetta in particolare ai giudici nazionali assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto comunitario e garantirne la piena efficacia, la Corte di Giustizia ha perciò richiamato la giurisprudenza della Corte (sentenze 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing; 16 dicembre 1993, causa C-334/92, Wagner Miret; richiamate, successivamente, dalle sentenze 23 febbraio 1999, causa C-63/97, BMW;

27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, Ocèano Grupo Editorial e Salvat Editores; 23 ottobre 2003, causa C-408/01, Adidas- Salomon e Adidas Benelux; sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C- 397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a.; 7 giugno 2006, cause riunite da C- 187/05 a C-190/05, Aretis Pagos), per la quale, nell’applicare il diritto nazionale, e in particolare le disposizioni di una legge che sono state introdotte specificamente al fine di garantire la trasposizione di una direttiva, il giudice “nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 189, comma 3, del Trattato CE (oggi art. 249, comma 3 CE). Giova aggiungere che anche la giurisprudenza più recente della Corte di Giustizia è tutta nel senso che l’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in questo senso, sentenza 15 maggio 2003, causa C-160/01, Mau; 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer; sentenza 7 settembre 2006, causa C-53/04 Marrosu – Sardino, ed altre).

4.3.- La Corte d’Appello di Milano ha applicato correttamente i principi appena richiamati, dando per presupposto che, per i medici specializzandi che si sono trovati nelle condizioni previste dalla direttiva “coordinamento” come modificata dalla direttiva 82/76, il diritto all’adeguata remunerazione trova la sua fonte in quest’ultima, che sul punto è self-executing, mentre l’attività di interpretazione del diritto interno, svolta alla stregua dei principi di cui sopra, avrebbe dovuto portare all’individuazione dell’importo della remunerazione adeguata e dell’istituzione tenuta al pagamento, se ed in quanto desumibili da norme statali, in primo luogo da quelle destinate a dare attuazione alla direttiva.

Si sostiene, da parte dei ricorrenti, che si sarebbe potuta interpretare, a tali ultimi specifici scopi, ed a quelli più generali di cui al precedente punto 4.2. la normativa dettata dalla L. n. 428 del 1990 e dal D.Lgs. n. 275 del 1991.

La Corte milanese ha risposto alla sollecitazione della Corte di Giustizia di valutare in quale misura l’insieme delle disposizioni nazionali – più in particolare, per il periodo successivo alla loro entrata in vigore, le disposizioni della legge promulgata al fine di trasporre la direttiva 82/76 – potesse essere interpretato, fin dall’entrata in vigore di tali norme, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva (così sentenza Carbonari ed a., cAt.), ma ha ritenuto che il D.Lgs. n. 257 del 1991 non fosse idoneo a tale scopo.

Orbene, principio inderogabile dell’interpretazione del diritto nazionale che intenda conformarsi alla normativa comunitaria è quello di uguaglianza per il quale, così come il legislatore nazionale, anche l’interprete del diritto comunitario non può pervenire ad un risultato interpretativo che comporti il trattamento diseguale di situazioni uguali ed il trattamento uguale di situazioni dìseguali (cfr., tra le tante, da ultimo sentenza 17 gennaio 2008, causa C-246/06, Velasco Navarro).

La normativa del 1991, che pure specificava i due elementi alla cui individuazione da parte degli Stati membri la direttiva “coordinamento” subordinava l’operatività del diritto alla remunerazione, vi provvedeva per il futuro, cioè a partire dall’anno accademico 1991/92, ma soprattutto prevedendo condizioni di frequenza dei corsi di specializzazione che (quanto a durata del corso, ad orario obbligatorio ed a previsioni di incompatibilità) non erano quelle al cui rispetto erano stati tenuti gli specializzandi che avevano frequentato le scuole nel periodo precedente. Il riconoscimento del diritto ad una pari remunerazione in presenza di una tale diversità di situazioni avrebbe comportato un indebito vantaggio a favore degli specializzandi che avevano frequentato prima dell’anno accademico 1991/1992, da valutarsi tenendo conto -come pure correttamente rilevato dal giudice d’appello-non della situazione concreta di ciascuno degli aventi diritto, ma della situazione dei soggetti come delineata dalle norme di legge della cui interpretazione si tratta.

D’altronde, a riprova della correttezza della conclusione raggiunta dalla Corte territoriale va detto che gli stessi ricorrenti, in altra parte della loro difesa, sostengono l’inapplicabilità al caso di specie della normativa del f 1991; che così è stato ritenuto anche da numerosi precedenti del Consiglio di Stato, pure citati dai ricorrenti; che anche questa Corte, sia pure ad altri fini (specificamente, valutando la diversa pretesa al risarcimento dei danni provocati dalla non corretta, meglio non completa, trasposizione interna della direttiva “coordinamento”), ha avuto modo di rilevare che l’emanazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, avendo comportato un adempimento della direttiva soltanto per il futuro, abbia lasciato del tutto immutata la situazione dei soggetti che, successivamente al 31 dicembre 1982 e fino all’anno accademico 1990- 1991, si erano venuti a trovare in una condizione, la quale, in presenza di una già avvenuta attuazione della direttiva, li avrebbe resi destinatari dei diritti da questa riconosciuti (cfr. Cass. n. 10813, 10814, 10815, 10816 del 2011, in motivazione).

4.4.- La Corte d’Appello di Milano ha invece ritenuto applicabile la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, interpretato in maniera conforme alla più volte citata direttiva “coordinamento”, come modificata dalla direttiva 82/76. Ed anche su questo punto la sentenza va confermata.

4.4.1.- Va superata, intanto, la prima possibile obiezione, consistente nel fatto che la norma è inserita in una legge contenente “Disposizioni in materia di università e di ricerca scientifica e tecnologica” e non destinata, in sè, a dare attuazione alla normativa comunitaria. E’ sufficiente in proposito richiamare la giurisprudenza della Corte di Giustizia per la quale “se è vero che il principio di interpretazione conforme del diritto nazionale, così imposto dal diritto comunitario, riguarda in primo luogo le norme interne introdotte per recepire la direttiva in questione, esso non si limita, tuttavia, all’esegesi di tali norme, bensì esige che il giudice nazionale prenda in considerazione tutto il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato in modo tale da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva” (v., questo senso, sentenza Carbonari e a., cit., nonchè, tra le altre, di recente, sentenza Pfeiffer cit., ed ancora Cass, S.U. n. 27310/08 cit.).

Per di più, come è noto, l’art. 11 in parola venne introdotto a seguito di giudicati amministrativi che si erano pronunciati proprio sul diritto alla adeguata remunerazione di medici ammessi presso le università alle scuole di specializzazione in medicina dall’anno accademico 1983-1984 all’anno accademico 1990-1991, quindi sul diritto del cui riconoscimento si tratta.

4.4.2- Peraltro, proprio le finalità della normativa in questione vengono invocate dai ricorrenti al fine di sostenerne l’inapplicabilità a casi non contemplati nella relativa previsione.

La disposizione è infatti collocata sotto il capo 3^ della legge, intitolato “Disposizioni per l’attuazione di sentenze passate in giudicato”, ed è destinata al riconoscimento del diritto soltanto nei confronti di quei medici specializzandi che erano stati “destinatari delle sentenze passate in giudicato del Tribunale amministrativo regionale del Lazio (sezione 1-bis) numeri 601 del 1993, 279 del 1994, 280 del 1994, 281 del 1994, 282 del 1994, 283 del 1994”.

La Corte milanese ha ritenuto di non tenere conto di tale limitazione e l’ha disapplicata (o, secondo l’espressione adoperata in sentenza, non l’ha applicata) poichè incompatibile con la direttiva “coordinamento”, come modificata dalla direttiva 82/76.

Occorre pertanto verificare se siffatta operazione interpretativa sia legittima, in generale, e se, in particolare, è condivisibile il giudizio di incompatibilità espresso dal giudice di merito.

Quanto alla disapplicazione del diritto interno incompatibile con il diritto comunitario, vanno richiamati i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia per i quali è compito del giudice nazionale, investito di una controversia che metta in discussione i principi generali del diritto comunitario, tra cui il principio generale di uguaglianza ed il divieto di discriminazione, assicurare, nell’ambito di sua competenza, la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale (v. , in questo senso, già sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, e 5 marzo 1998, causa C- 347/96, Solred nonchè di recente, tra le altre, sentenza 22 novembre 2005, C -144/04, Mangold).

Non vi è dubbio che nel caso di specie, la disposizione interna della cui interpretazione si tratta sia incompatibile col diritto di uguaglianza e pregiudichi le finalità della direttiva “coordinamento” come modificata nel 1982.

Gli Stati Membri, oggi, dell’Unione, sono obbligati al rispetto dei limiti che il diritto comunitario assegna loro allorchè applicano le disposizioni di una direttiva. In primo luogo, lo Stato membro interessato è soggetto all’obbligo di rispettare i principi generali del diritto comunitario; in secondo luogo, esso è tenuto ad applicare le disposizioni della direttiva senza pregiudicarne l’integrità. La Corte di Giustizia ha ripetutamente affermato che le esigenze derivanti dai principi generali di diritto comunitario vincolano gli Stati membri quando danno esecuzione a discipline comunitarie (sentenza 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf, tra le altre). Tale esigenza deriva in particolare dal rispetto del principio fondamentale della parità di trattamento, il quale -va ribadito- richiede che situazioni paragonabili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, salvo obiettiva necessità (in tal senso, da ultimo sentenza, 14 dicembre 2004, causa C-434/02, Arnold Andre). Da ciò deriva che lo Stato membro è tenuto in ogni modo possibile ad applicare la direttiva di cui si tratta in condizioni tali da non contrastare con tale principio. Giova aggiungere che una misura che determina una distinzione giustificata è conforme al principio comunitario della parità di trattamento soltanto se utilizza strumenti necessari e adeguati per raggiungere lo scopo legittimo perseguito (in tal senso, sentenza 19 marzo 2002, causa C-476/99, Lommers).

4.4.3.- Nel caso di specie, come rilevato nella sentenza impugnata, la limitazione del riconoscimento della borsa di studio di cui alla L. n. 370 del 1999, art. 11, soltanto ai destinatari delle sentenze del Tar Lazio non risulta in alcun modo giustificata, avuto riguardo al contenuto del diritto come sancito dalla normativa comunitaria.

Secondo quanto detto al precedente punto 4.1., i requisiti alla cui sussistenza la direttiva subordina il riconoscimento del diritto all’adeguata remunerazione sono quelli di avere frequentato corsi di specializzazione suscettibili di riconoscimento reciproco in ambito comunitario e di averlo fatto alle condizioni di frequenza di tali corsi già previste nell’allegato aggiunto dalla direttiva 82/76/CEE, condizioni che gli Stati membri possono disciplinare nel dettaglio (come fatto dallo Stato italiano con il D.Lgs. n. 257 del 91), ma non disattendere nè modificare, aggiungendo adempimenti estranei alle dette condizioni. Peraltro, essendo la direttiva sufficientemente dettagliata, in punto di condizioni concernenti l’accesso alla formazione specializzata, la sua durata minima, il modo e il luogo in cui quest’ultima deve essere effettuata, nonchè il controllo di cui deve formare oggetto, anche in mancanza di una specifica normativa nazionale sulle condizioni di frequenza, il diritto all’adeguata remunerazione andrebbe riconosciuto a quegli specializzandi che, a far data dall’anno di corso 1983-1984, avessero comunque frequentato dei corsi di specializzazione aventi le caratteristiche previste dalla direttiva stessa, ed immediatamente applicabili (come sancito dalla citata sentenza Carbonari ed altri – cfr. punti da 5 a 9-, per gli specializzandi a tempo pieno).

Ne segue che l’art. 11 in parola, che contempla la situazione dei medici iscritti ai corsi di specializzazione dall’anno accademico 1983/1984 all’anno accademico 1990/1991, ed opera una ragionevole differenziazione rispetto agli specializzandi del periodo successivo, affermando che la borsa di studio è determinata “tenendo conto dell’impegno orario complessivo richiesto agli specializzandi dalla normativa vigente nel periodo considerato” e fissando comunque al comma secondo le condizioni dettagliate, ma del tutto coerenti con le corrispondenti disposizioni della direttiva e del suo allegato, al cui accertamento, in ogni singolo caso concreto, è subordinata la corresponsione della borsa di studio, è:

disciplina applicabile retroattivamente a tutti coloro che si sono trovati nella situazione contemplata dalla normativa, essendo questa la più idonea al raggiungimento del risultato interpretativo perseguito, che è quello di dare attuazione alla direttiva a far tempo dalla scadenza del termine dato allo Stato per la sua trasposizione (nel caso di specie, 31 dicembre 1982);

disciplina disapplicabile quanto alla limitazione soggettiva, irragionevolmente posta in violazione del principio di uguaglianza, laddove subordina il riconoscimento, in ambito interno, di un diritto attribuito ai singoli da una direttiva comunitaria a condizioni non previste da tale direttiva; specificamente alla condizione di avere adito l’autorità giudiziaria ed ottenuto una sentenza favorevole addirittura prima dell’emanazione della legge di trasposizione (cfr.

anche Consiglio di Stato n. 165/04, nonchè n. 4885/10). Sono noti i precedenti della Corte di Giustizia, richiamati anche nella sentenza impugnata, con i quali si è affermato che il diritto comunitario osta a una disposizione legislativa nazionale che limiti il rimborso di una tassa dichiarata contraria al Trattato da una sentenza della Corte solo a coloro che abbiano proposto un’azione di ripetizione prima della pronuncia della detta sentenza, poichè una disposizione siffatta priva puramente e semplicemente le persone fisiche o giuridiche che non soddisfano questa condizione del diritto di ottenere il rimborso di somme indebitamente pagate e rende quindi impossibile l’esercizio da parte dei singoli dei diritti loro attribuiti dall’ordinamento comunitario (sentenza 2 febbraio 1988, causa C-309/85, Barra, richiamata, tra le altre, da sentenza 15 settembre 1998, causa C-231/96, Edis e sentenza 17 novembre 1998, causa C-228/96, Aprile). Nel caso di specie si tratta addirittura di impedire il godimento di un diritto riconosciuto incondizionatamente dalla direttiva comunitaria (e non come nei casi di. cui alla citata giurisprudenza, che sia conseguenza delle disposizioni comunitarie come interpretate da una sentenza della Corte di Giustizia) subordinandone l’operatività in ambito interno ad una condizione del tutto estranea a quelle stabilite dalla direttiva, peraltro prevedendola come realizzata già al momento di entrata in vigore della legge che rende esigibile il diritto del singolo nei confronti degli organi dello Stato.

4.4.4.- Giova aggiungere che l’interpretazione correttamente data dal giudice del merito, alla stregua dei principi di cui sopra, non ha nulla a che vedere con la diversa fattispecie di estensione del giudicato, richiamata dai ricorrenti per sostenerne l’impraticabilità. Infatti, il diritto alla remunerazione non consegue affatto ad un’estensione delle sentenze indicate nell’art. 11 della Legge del 1999 a soggetti diversi da quelli cui il giudicato si riferisce, ma consegue direttamente all’applicazione dell’articolo in parola effettuata nei confronti di tutti coloro che possedevano i medesimi requisiti oggettivi e soggettivi presi in considerazione ai commi 1 e 2 della disposizione.

Ancora, va esclusa la pertinenza dei precedenti del giudice amministrativo richiamati dai ricorrenti, relativi al rigetto di questioni di illegittimità costituzionale, poichè queste risultano essere state sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., ma non nei rapporti tra specializzandi tutti ammessi alle scuole nel periodo antecedente il 1991, bensì nei rapporti tra costoro -per i quali è prevista una remunerazione di L. 13.000.000 all’anno (senza rivalutazione e senza interessi)- e gli specializzandi ammessi negli anni accademici successivi -per i quali era prevista una remunerazione di maggiore importo: disparità di trattamento giustificata, come detto, dalla oggettiva diversità delle situazioni soggettive, 5.- Quanto fin qui esposto consente di risolvere agevolmente le altre due questioni enunciate con riferimento ai primi due motivi di ricorso.

La prima attiene al termine ed alla decorrenza della prescrizione.

Poichè il diritto all’adeguata remunerazione, pur riconosciuto dalla normativa comunitaria, non è stato esigibile -per quanto ampiamente detto- fino all’entrata in vigore della L. 19 ottobre 1999 n. 370 e la relativa pretesa è divenuta azìonabile soltanto a far data dall’entrata in vigore della legge (27 ottobre 1999), soltanto da tale termine può iniziare a decorrere la prescrizione (arg. ex art. 2935 cod. civ.) In proposito, è sufficiente il richiamo alla recente pronuncia della Corte di Giustizia, relativa proprio alla normativa in oggetto, rispetto alla quale era stata avanzata domanda di pronuncia pregiudiziale da parte della Corte d’Appello di Firenze il 18 novembre 2009. La Corte di Giustizia (sentenza 19 maggio 2011, causa C-452/09, Iaia e a.) ha risposto alle seguenti questioni pregiudiziali :

“1) Se sia compatibile con l’ordinamento comunitario che lo Stato italiano possa legittimamente eccepire la prescrizione quinquennale o decennale ordinaria di un diritto nascente dalla direttiva 82/76/CEE per il periodo antecedente la prima legge attuativa italiana, senza con ciò impedire definitivamente l’esercizio del suddetto diritto avente natura retributiva/alimentare, o in subordine l’esercizio di una azione risarcitoria/indennitaria.

2) Se, viceversa, sia compatibile con l’ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia preclusa perchè definitivamente ostativa all’esercizio del suddetto diritto.

3) Oppure se sia compatibile con l’ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia preclusa fino all’accertamento della violazione comunitaria da parte della Corte di giustizia (nella specie fino al 1999), 4) Oppure se sia compatibile con l’ordinamento comunitario che ogni eccezione di prescrizione sia comunque preclusa fino alla corretta e compiuta trasposizione della direttiva che ha riconosciuto il diritto nella legislazione nazionale (nella specie mai intervenuta), come previsto dalla citata sentenza Emmott”.

La Corte, tenendo conto dell’evoluzione della propria giurisprudenza a far data dalla sentenza 25 luglio 1991, causa C-208/90, Emmot, ha affermato che “Il diritto dell’Unione deve essere interpretato dichiarando che non osta a che uno Stato membro eccepisca la scadenza di un termine di prescrizione ragionevole a fronte di un’azione giurisdizionale proposta da un singolo per ottenere la tutela dei diritti conferiti da una direttiva, anche qualora tale Stato non l’abbia correttamente trasposta, a condizione che, con il suo comportamento, esso non sia stato all’origine della tardività del ricorso. L’accertamento da parte della Corte della violazione del diritto dell’Unione è ininfluente sul dies a quo del termine di prescrizione, allorchè detta violazione è fuori dubbio”.

Orbene, nel caso di specie, non vi è dubbio che lo Stato italiano non abbia mai correttamente trasposto la direttiva in parola; la circostanza che la tardività del ricorso delle odierne attrici sia attribuibile al comportamento inottemperante agli obblighi comunitari da parte dello Stato italiano emerge dalle vicende normative ed interpretative di cui si è ampiamente detto ai precedenti punti sub 4. Prima dell’introduzione del più volte citata L. n. 370 del 1999, art. 11, le parti attrici, odierne resistenti, non avrebbero potuto validamente agire in giudizio dinanzi al giudice italiano per conseguire un’adeguata remunerazione, poichè non avrebbero saputo nei confronti di chi rivolgere tale domanda ed il giudice nemmeno sarebbe stato in grado di determinare il quantum dovuto ed il soggetto tenuto al relativo adempimento.

5.1.- Va altresì confermata l’affermazione contenutanella sentenza di secondo grado (peraltro irrilevante ai fini della decisione, essendo stata comunque la domanda introdotta nel 2002, quindi entro il quinquennio dall’entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11) dell’inapplicabilità nel caso d specie della norma dell’art. 2948 cod. civ., n. 4, per la mancanza di liquidità ed esigibilità del credito periodico, trattandosi invece di credito riconosciuto una tantum cumulativamente ed a posteriori col citato art. 11.

6.- Consegue a quanto esposto anche il rigetto del primo motivo di ricorso, poichè il diritto che la Corte d’Appello ha riconosciuto alle attrici appellanti è esattamente quello richiesto con la domanda introduttiva del giudizio, e riproposta con i motivi d’appello. La domanda principale, accolta in secondo grado, è quella identificata da causa petendi e petitum di cui si è ampiamente detto, essendo irrilevante ai fini di tale identificazione l’individuazione della norma applicabile, riservata invece al giudice, che non incorre in vizio di ultrapetizione, se detti causa petendi e petitum lascia inalterati.

Va precisato che la fattispecie in esame è diversa dai precedenti esaminati da questa Corte nei quali si sia avuta una diversa qualificazione della domanda, consentita al giudice di primo grado, ma, di norma, preclusa al giudice d’appello, se su tale qualificazione non sia stato proposto apposito motivo di gravame (cfr. Cass. n. 20730/08, n. 24339/10); infatti, la domanda non risulta diversamente qualificata in primo ed in secondo grado, nè il Tribunale ne ha modificato la qualificazione rispetto a quella datane dalle attrici; piuttosto, si è trattato di individuare la norma interna applicabile al fine del riconoscimento del diritto, già identificato quanto a petitum e causa petendi, essendo divergenti le valutazioni tra i due giudici di merito, soltanto in tema di individuazione della normativa applicabile (cfr. Cass. n. 15283/10).

Peraltro, risulta dalla sentenza impugnata che le appellanti, pur avendo invocato in via principale l’applicazione della normativa di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, avevano in subordine richiesto, quale specifico motivo di appello, anche quella della normativa di cui alla L. n. 370 del 1999, sicchè, anche ove si volesse seguire un orientamento più rigoroso, risulterebbe comunque rispettato il principio devolutivo di cui alla citata giurisprudenza.

Ancora, non va trascurato che l’applicazione della normativa del 1999 era stata invocata già in primo grado, sia pure in “estremo subordine”, dall’Avvocatura di Stato, nell’interesse degli appellati;

e che tale difesa risulta essere stata riproposta dalla parte appellata, interamente vittoriosa in primo grado.

7.- Con il terzo motivo di ricorso viene dedotta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 257 del 1991 e della L. n. 370 del 1999, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, nonchè l’omessa valutazione circa un fatto controverso e decisivo, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, sull’assunto che la Corte d’Appello non avrebbe adeguatamente valutato la sussistenza in concreto, in capo alle attrici appellanti, dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti per il riconoscimento del diritto.

Il motivo viola, sotto entrambi i profili, il disposto dell’art. 366 bis cod. proc. civ., applicabile al caso di specie ratione temporis (dal momento che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 19 gennaio 2009).

7.1.- Il quesito di diritto, cui la Corte deve rispondere con l’enunciazione di un corrispondente principio di diritto, va formulato in modo che non si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo (cfr. Cass. S.U. n. 6420/08).

Mentre manca di pertinenza il richiamo del D.Lgs. n. 257 del 1991, poichè, come detto, la Corte d’Appello ha ritenuto tale normativa inapplicabile, il quesito di diritto che dovrebbe essere relativo alla denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 11 della legge del 1999, contiene l’astratto riferimento ad una normativa indicata in termini assolutamente generici (“tutte le condizioni prescritte dalla normativa comunitaria”, senza indicazione di quali condizioni e di quale normativa si tratti – “requisiti soggettivi che oggettivi normativamente previsti” senza nemmeno l’indicazione di quale legge e di quali requisiti si tratti), di cui si sostiene la violazione, per il mancato rispetto dell’onere della prova, senza alcun riferimento agli elementi di fatto del caso concreto, sia quanto all’oggetto dell’onere probatorio che si assume violato sia quanto al contenuto della decisione impugnata che avrebbe determinato siffatta violazione.

7.2.- I ricorrenti hanno dedotto il vizio di omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, In tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, è stato affermato che, poichè secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, “la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di salutazione della sua ammissibilità” (Cass. sez. un,, 1 ottobre 2007, n. 20603).

L’indirizzo interpretativo prevalente richiede un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo di ricorso, che consista in un’indicazione riassuntiva e sintetica del fatto controverso in riferimento al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero delle ragioni di insufficienza della motivazione, che, essendo autonomamente valutabile, rispetto alle argomentazioni che illustrano la censura, consenta, di per sè, la valutazione dell’ammissibilità del ricorso (cfr. Cass. n. 8897/2008, n. 22502/2010, nonchè Cass. ord. nn. 2652/2008 e 27680/2009, che hanno escluso che la norma dell’art. 366 bis c.p.c., seconda parte, interpretata nei termini appena esposti, possa essere censurata di illegittimità costituzionale). Dal momento che la norma dell’art. 366 bis c.p.c., detta un requisito funzionale all’immediata verifica da parte del giudice di legittimità della ammissibilità del ricorso (per come è reso evidente dall’inciso “a pena di inammissibilità”, dettato a proposito dei quesiti di diritto, ma ripetuto anche per la censura dell’art. 360 c.p.c., n. 5), ritiene questa Corte che vadano ribaditi i principi espressi dai precedenti da ultimo richiamati.

Il motivo in esame non contiene certo un “momento di sintesi” che possa distinguersi dall’illustrazione del motivo stesso -peraltro relativa anche ai vizi di violazione di legge, sopra richiamati e ritenuti “connessi” al vizio di motivazione- in modo che da esso risulti chiaramente il fatto controverso e le ragioni che rendono inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

7.3.- Il motivo va perciò dichiarato inammissibile.

8.- Col quarto ed ultimo motivo di ricorso è denunciata violazione di legge per avere la Corte d’Appello ritenuto la legittimazione passiva delle Università di Milano e di Pavia (nel quesito indicate come “Atenei statali”) pur essendo “estranei ai contenziosi in cui si pretende il pagamento della adeguata remunerazione per la frequentazione dei corsi di specializzazione”. Malgrado l’errato riferimento al D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6, così come sostituito dal D.Lgs. n. 368 del 1999, piuttosto che alla L. n. 370 del 1999, art. 11, che, come ripetutamente detto, la Corte milanese ha ritenuto applicabile al caso di specie, il motivo è fondato e va accolto.

Ed invero, proprio in ragione della ritenuta applicazione del citato art. 11 il giudice di merito avrebbe dovuto escludere la legittimazione passiva delle Università, dal momento che la norma interna ritenuta introdotta proprio allo scopo di dare attuazione alla direttiva comunitaria “coordinamento”, come modificata dalla direttiva 82/76, onde individuare l’istituzione competente al pagamento della adeguata remunerazione, ha previsto che questa dovesse consistere in una borsa di studio, da erogarsi (a seguito degli accertamenti di cui al secondo comma dello stesso art. 11 e degli adempimenti di cui al D.M. 14 febbraio 2000), da parte dello Stato, senza alcun coinvolgimento delle Università, presso le cui scuole di specializzazione i medici, aventi diritto alla corresponsione della borsa di studio, avevano frequentato i corsi e conseguito i diplomi.

All’accoglimento del motivo di ricorso consegue la cassazione, per quanto di ragione della sentenza impugnata, e, potendo la corte decidere nel merito, il rigetto delle domande proposte nei confronti delle Università di Milano e di Pavia.

9.- L’oggettiva incertezza delle questioni esaminate induce a.

compensare le spese del giudizio di cassazione; restano compensate le spese dei gradi di merito nei rapporti tra le Università di Milano e di Pavia e le resistenti.

PQM

La Corte rigetta il ricorso quanto al primo ed al secondo motivo;

dichiara inammissibile il terzo motivo; accoglie il quarto motivo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito sulla domanda nei confronti delle Università di Milano e di Pavia la rigetta. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Compensa le spese del giudizio di merito quanto al rapporto processuale fra le Università di Milano e di Pavia e le resistenti.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2011

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