Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17665 del 06/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 06/09/2016, (ud. 23/06/2016, dep. 06/09/2016), n.17665

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7019/2014 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), società con sorcio unico, in persona

del Presidente del Consiglio di Amministrazione e Legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V.Le

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO,

rappresentata e difesa dall’avvocato GAETANO GRANOZZI, giusta delega

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI

TRASTEVERE 259, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI CRUSCO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ROCCO CRUSCO, giusta procura in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 284/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO

del 17/01/2013, depositata il 12/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/06/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSANA MANCINO.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte pronuncia in Camera di consiglio ex art. 375 c.p.c., a seguito di relazione a norma dell’art. 380-bis c.p.c., condivisa dal Collegio. 2. La Corte di appello di Catanzaro, confermata la decisione del primo giudice, che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato stipulato dall’attuale parte intimata con Poste Italiane s.p.a., nel periodo 24 novembre 1999 – 28 febbraio 2000, ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94 e dei successivi accordi integrativi, per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso (…)”, in parziale riforma della sentenza, e in applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, condannava la società alla corresponsione di una somma pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita. 3. Avverso questa sentenza Poste Italiane s.p.a. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui la lavoratrice ha resistito con controricorso. 4. I motivi proposti dalla società concernono: violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 1427, 1431 e 2697 c.c. e art. 100 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo il giudice del gravame rigettato l’eccezione di definitivo scioglimento del rapporto per tacito mutuo consenso dei contraenti senza valorizzare la prolungata inerzia tenuta dalla lavoratrice a fronte della quale quest’ultima avrebbe dovuto provare il permanere di un suo interesse alla instaurazione del rapporto (primo motivo); violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94 e dell’accordo integrativo 25/9/97, nonchè degli accordi successivi 16/1/98, 27/4/98, 2/7/98, 24/5/99 e 18/1/01, in connessione con l’art. 1362 c.c. (secondo motivo); omesso esame di un fatto decisivo quanto alla volontà collettiva di fissare il termine finale di efficacia dell’accordo integrativo del 1997 (terzo motivo). 5. Il primo motivo è manifestamente infondato. 6. Questa Corte ha più volte affermato che: “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v., plirimis, Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonche più di recente, Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). 7. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è “insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre, Cass. 122010 n. 2279). 8. Si aggiunga che, come precisato da Cass. 12 aprile 2012, n. 5782, “quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per se neutro, come sopra chiarito” (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, v., inoltre, Cass. n. 16287/2011. 9. In ordine, poi, alla percezione del T.F.R., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del t.f.r. nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). 10. Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione). 11. In ogni caso, la valutazione del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative di una consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto. 12. Orbene, nel caso in esame, la Corte di appello ha respinto l’eccezione di scioglimento del vincolo contrattuale sul rilievo che fosse mancata ogni allegazione e prova di condotte concludenti utili a rappresentare la disaffezione della lavoratrice, essendo rimasta detta eccezione meramente fondata sul decorso del tempo (che non è, di per sè, come già detto, espressione di una tacita rinuncia a coltivare il diritto a far accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto). 13. Trattasi di considerazioni di merito corrette sul piano giuridico e congruamente motivate, come tali non censurabili sul piano logico. 14. Anche le censure svolte con gli altri due mezzi sono destituite di fondamento, alla luce della giurisprudenza, costante, della Cassazione, la quale ritiene che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, conv. dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (v. Cass. Sez. Un. 2 marzo 2006, n. 4588). 15. Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo integrativo del 25/9/97, la giurisprudenza ritiene corretta l’interpretazione dei giudici che, con riferimento al distinto accordo attuativo, sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo del 16/1/98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31/1/98 (e poi in base al secondo accordo atniativo, fino al 30/4/98), della situazione di fatto integrante le esigenze eccezionali menzionate dal detto accordo integrativo. 16. Consegue che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto a tempo determinato e che l’esistenza di dette esigenze costituisse presupposto essenziale della pattuizione negoziale; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. 17. In altre parole, dato che le parti collettive avevano raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed avevano successivamente stipulato accordi attuativi che avevano posto un limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine, fissato inizialmente al 31/1/98 e successivamente al 30/4/98, l’indicazione di tale causale nel contratto a termine legittima l’assunzione solo ove il contratto scada in data non successiva al 30/4/98 (v., ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006, n. 18378). 18. Nella ricostruzione della volontà delle parti, come operata dai giudici di merito, correttamente si è ritenuto irrilevante l’accordo 18/1/01 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato. 19. Ammesso che le parti avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25/9/97 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula juris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004, n. 5141). 20. Quanto alla domanda ex art. 96 c.p.c., formulata dalla difesa della controricorrente, questa Corte osserva che la condanna per lite temeraria può essere pronunciata solo se la parte ha agito o resistito con mala fede o colpa grave. 21. In riferimento al giudizio di cassazione, l’istanza di condanna, ai fini della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., deve essere formulata con una prospettazione della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso, essendo altrimenti impedito alla Corte l’accertamento complessivo della soccombenza dolosa o gravemente colposa, la quale deve valutarsi riguardo all’esito globale della controversia e, quindi, rispetto al ricorso nella sua interezza (cfr. Cass. n. 21805 del 5 dicembre 2012; Cass. n. 20914 dell’11 ottobre 2011); inoltre il ricorso può considerarsi temerario solo allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, sia tale da palesare la consapevolezza della non spettanza del diritto fatto valere, o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali (Cass. 2 giugno 1995, n. 6190; conf. Cass. 26 giugno 2007, n. 14789). 22. Applicando detti principi al caso di specie si osserva che la domanda di condanna per lite temeraria, oltre a non essere stata prospettata con riferimento a rutti i motivi di ricorso (il primo dei quali è, come sopra precisato, di tipo processuale) è avulsa dal presupposto imprescindibile (prova dell’altrui malafede ovvero di un grado di imprudenza, imperizia o negligenza nell’agire in giudizio accentuatamente anormale, ciò sempre con riferimento a tutti i motivi di ricorso) oltre che ingiustificata per la mancanza di allegazione e prova di un danno subito a causa della condotta temeraria della controparte, diverso ed ulteriore rispetto alla necessità di doversi difendere in giudizio. 23. L’istanza ex art. 96 c.p.c., pertanto, non può essere accolta (in termini, cfr., fra le altre, Cass. sez. sesta – L 25267/2015). 24. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato. 25. La condanna alle spese di lite, liquidate come in dispositivo, segue la regola della soccombenza, con attribuzione in favore dell’avvocato Rocco Crusco, dichiaratosi antistatario. 26. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (sulla ratio della disposizione si rinvia a Cass. Sez. Un. 22035/2014 e alle numerose successive conformi). 27. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) da rigettarsi integralmente, deve provvedersi in conformità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese generali in misura del 15%, con attribuzione in favore dell’avv. Rocco Crusco, dichiaratosi antistatario. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2016

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