Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17664 del 17/07/2017


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Cassazione civile, sez. II, 17/07/2017, (ud. 02/03/2017, dep.17/07/2017),  n. 17664

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27434-2012 proposto da:

D.G. & C SNC, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA CICERONE 60, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA

FRATICELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI VERGANI;

– ricorrente –

contro

T.N., P.E., elettivamente domiciliate in

ROMA, PIAZZA DI PRISCILLA 4, presso lo studio dell’avvocato STEFANO

COEN, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCIANO

GABRIELLI;

– controricorrenti –

e contro

FABE 2001 SRL IN LIQUIDAZIONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1445/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 26/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/03/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito l’Avvocato CIUFFA Paolo, con delega depositata in udienza

dell’Avvocato VERGANI Giovanni, difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato VIOLA Fabrizio, con delega depositata in udienza

dell’Avvocato COEN Stefano, difensore dei resistenti che ha chiesto

l’inammissibilità o infondatezza del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Monza con sentenza del 14 ottobre 2008 rigettò l’opposizione al decreto emesso il 16 maggio 2005 dal medesimo Ufficio, con il quale era stato ingiunto ad P.E. e T.N. il pagamento della somma di Euro 12.100 in favore della s.n.c. D.G. & C.

La Corte d’appello di Milano, con la sentenza depositata il 26 aprile 2012, accolto per quanto di ragione l’appello proposto dalla P. e dalla T., nonchè da Fabe 2001 s.r.l. in liquidazione, in riforma della statuizione di primo grado revocò il decreto ingiuntivo di cui detto.

Nei limiti del perimetro decisorio di legittimità appare utile, stante la difformità tra le due decisioni di merito, riprendere i termini essenziali della vicenda.

La società D. aveva fondato il proprio credito allegando di avere svolto lavori di ristrutturazione edilizia su un immobile di proprietà delle opponenti. Quest’ultime si erano difese asserendo di non conoscere l’opposta e di essersi impegnate a vendere il cespite, oggetto di ristrutturazione alla s.r.l. Febedil, come da contratto preliminare del 14 ottobre 2002. Quest’ultima società aveva fatto luogo a quanto di necessario per la ristrutturazione, appaltando le opere alla s.r.l. Fabe 2001, la quale, a sua volta, si era avvalsa in subappalto della s.n.c. D., sulla base di contratto stipulato il 14 gennaio 2003. Per questa ragione era stata autorizzata la chiamata in causa delle società Fabe 2001 e Febedil. La opposta aveva evidenziato che B.D. e F.C., soci entrambi della società Febedil ed il secondo già legale rappresentante (la sentenza d’appello, invece, assegna al B. il ruolo di amministratore della Fabe 2001), erano i rispettivi coniugi delle opponenti, le quali risultavano essere ancora proprietarie dello stabile.

Il Tribunale aveva rigettato l’opposizione sulla base delle considerazioni che qui di seguito vengono riprese in sintesi: a) la società opposta aveva effettivamente svolto lavori per i quali aveva emesso le fatture; b) l’incarico alla predetta società era stato dato da B.D., marito dell’opponente P.; c) l’effettuazione dei lavori non era mai stata messa in discussione dalle opponenti, le quali, a ristrutturazione avvenuta, avevano alienato a terzi l’immobile; d) la documentazione, attraverso la quale le opponenti avevano dedotto che l’incarico era stato conferito dal B. nella sua qualità di legale rappresentante della Fabe 2001, con la quale era stato concluso il contratto di appalto, nonchè il già avvenuto pagamento dei lavori da parte della Fabe, erano stati dichiarati inutilizzabili, in quanto le parti opponenti, precipuamente interpellate, a seguito di querela di falso, avevano dichiarato di non volersi avvalere dei detti; e) la concessione edilizia era stata rilasciata in favore delle opponenti, le quali avevano alienato, come si è detto, l’immobile dopo l’effettuazione dei lavori, senza mai contestare l’intervento edilizio.

La Corte territoriale era andata di contrario avviso evidenziando, in particolare, quanto appresso: il Tribunale non avevo fondato la propria decisione assumendo un indebito arricchimento delle due appellanti (pronunzia che si sarebbe posta in contrasto con l’art. 112 c.p.c.), limitandosi ad affermare la sussistenza tra le parti di un contratto di appalto, dimostrato dal fatto che l’incarico era stato assegnato dal coniuge di una delle due opponenti, con la piena consapevolezza delle stesse, uniche beneficiarie dell’intervento di ristrutturazione; pacifico che il contratto d’appalto era stato concluso da B.D., amministratore della Fabe 2001, per il Giudice di seconde cure il rapporto di parentela non poteva dirsi sufficiente a far ritenere che le effettive contraenti fossero le appellanti, pur potendosi inquadrare il contratto nella categoria dei negozi a favore di terzo.

Nè, infine, poteva assumere rilievo la circostanza che il B. avesse ordinato i lavori a nome della Fabe per fruire di benefici fiscali.

Avverso la determinazione d’appello ricorre per cassazione la s.n.c. D.G. & C., allegando due motivi di censura.

Resistono con controricorso, illustrato da memoria, P.E. e T.N..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con le due esposte censure, intimamente connesse, la D., prospettando violazione degli artt. 1375,1337 e 1175 c.c., nonchè vizio motivazionale, contesta la ratio decidendi del Giudice d’appello.

Queste, in sintesi, le critiche mosse, sulla base delle quali, secondo l’assunto, emerge che il contratto con la Divella, stipulato da B.D., marito di una delle proprietarie dell’immobile e amministratore unico della Fabe 2001 s.r.l., faceva capo alle resistenti: a) la licenza edilizia era stata richiesta e rilasciata a nome di quest’ultime ed il cartellone del cantiere recava trascritto il loro nome; b) la ricorrente non era stata posta in grado di sapere che il B. agiva per conto della società da lui amministrata, piuttosto che per la moglie e per la moglie del F.; c) l’appaltatrice, che non riceve compenso in corso d’opera, svolge i lavori, credendo, in buona fede, di procedere alla ristrutturazione nell’interesse delle due proprietarie dello stabile; d) le fatture, intestate alle proprietarie, seppure non onorate, non vengono contestate e solo in sede di opposizione al decreto ingiuntivo viene esibito un contratto preliminare retrodatato e dedotta l’esistenza di un contratto (mai prodotto) di appalto intercorso tra la Febedil s.r.l. e la Fabe 2001 s.r.l.; e) in corso di causa l’immobile viene venduto dalle proprietarie, e non dalla asserita promissaria acquirente Febedil, percependo un guadagno di 22.000 Euro, tenuto conto del prezzo d’acquisto e del costo della ristrutturazione; f) era del tutto evidente che nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell’interpretare ed eseguire il contratto, la decisione censurata era da ritenersi erronea, avendo privilegiato la parte che aveva agito con dolo allo scopo di arrecare pregiudizio alla controparte.

Inoltre, la sentenza impugnata era incorsa in grave vizio logico per avere irragionevolmente privato di valore inferenziale il rapporto di coniugio, essendo, invece, corrispondente a quel che si suole fare nella pratica che uno dei due coniugi, curando anche gli interessi dell’altro, provveda a dare incarichi per opere di vario genere da effettuarsi su beni formalmente intestati all’altro. Per contro, la predetta sentenza non spiega, prosegue la ricorrente, da dove aveva tratto il convincimento per affermare che il B. aveva dato l’incarico per conto e nell’interesse della Fabe. Nè, infine, la circostanza che quest’ultimo aveva chiesto che le fatture fossero intestate alla società costituiva circostanza idonea a sorreggere il contrastato assunto, in quanto tutta l’operazione, che aveva visto l’allegazione di un contratto preliminare simulato e di un asserito contratto di appalto (tra Febedil s.r.l. e Fabe 2001 s.r.l.), aveva l’unico scopo di frodare il fisco.

Il ricorso non può essere accolto.

La ben argomentata prospettazione della ricorrente impinge con la natura ed i limiti del ricorso per cassazione, proponendo una rivisitazione motivazionale, la quale, pur plausibile, in questa sede non può essere convalidata.

In realtà l’evocazione della violazione di plurime norme del c.c. altro non costituisce che una studiata parvenza, al fine di celare la realtà del dissenso, la quale, appunto, risiede nella non accettazione della ricostruzione fattuale operata dal Giudice d’appello. Le norme richiamate, in effetti, costituenti l’ossatura portante della regola dell’affidamento secondo buona fede, sarebbero risultate violate solo se la ricostruzione fattuale acclarata in sentenza fosse stata quella qui perorata dalla ricorrente. Per contro, costituiscono lo schema normativo di riferimento al quale correttamente la sentenza ha sussunto il fatto.

In definitiva, non può farsi a meno di evidenziare che, come spesso accade, con il ricorso si propone l’approvazione di una linea interpretativa dei fatti di causa alternativa rispetto a quella fatta propria dal giudice, così sperdendosi del tutto il senso del sindacato di legittimità.

Come reiteratamente affermato in questa sede, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 prima dell’ulteriore modifica di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis”), il quale implica che la motivazione della “quaestio facti” sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che si presentasse tale da determinarne la logica insostenibilità (cfr., Sez. 3, n. 17037 del 20/8/2015, Rv. 636317). Con l’ulteriore corollario che il controllo di legittimità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Con la conseguenza che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. Sez. 6, ord. n. 5024 del 28/3/2012, Rv. 622001). Da qui la necessità che il ricorrente specifichi il contenuto di ciascuna delle risultanze probatorie (mediante la loro sintetica, ma esauriente esposizione e, all’occorrenza integrale trascrizione nel ricorso) evidenziando, in relazione a tale contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa (cfr. Sez. 5, n. 1170 del 23/1/2004, Rv. 569607).

Da qui appare evidente che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, (nella versione ante riforma ex D.L. n. 83 del 2012) si configura nella ipotesi di carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo. Parimenti, il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere intrinseco alla sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. 2, n. 3615 del 13/04/1999, Rv. 525271). Con l’ulteriore implicazione che il vizio di contraddittorietà della motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non può essere riferito a parametri valutativi esterni, quale il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio Sez. 1, n. 1605 del 14/02/2000, Rv. 533802). Peraltro, osservandosi che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, resta integrato solo ove consti la carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo; mentre il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere proprio della sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. L., n. 8629 del 24/06/2000, Rv. 538004; Sez. 1, n. 2830 del 27/02/2001, Rv. 544226).

Si è condivisamente ulteriormente precisato, così da scolpire nitidamente l’ambito di legittimità, che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Sez. L, n. 2272 del 02/02/2007, Rv. 594690). Proprio per ciò non è ammesso perseguire con il motivo di ricorso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, finalità sicuramente estranea alla natura e allo scopo del giudizio di cassazione. Infatti, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., fra le tante, Sez. L., n. 9233 del 20/4/2006, Rv. 588486 e n. 15355 del 9/8/2004, Rv. 575318).

La spiegazione alternativa proposta con il ricorso, fronteggiante una insanabile contraddittorietà della motivazione, deve essere tale da apparire l’unica plausibile e la deduzione di un vizio di motivazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì il solo potere di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr., fra le tante, Sez. 3, n. 20322 del 20/10/2005, Rv. 584541; Sez. L., n. 15489 dell’11/7/2007, Rv. 598729). Lo scrutinio di merito resta, in definitiva, incensurabile, salvo l’opzione al di fuori del senso comune (Sez. L., n. 3547 del 15/4/1994, Rv. 486201); la stessa omissione non può che concernere snodi essenziali del percorso argomentativo adottato (cfr., Sez. 2, n. 7476 del 4/6/2001, Rv. 547190; Sez. 1, n. 2067 del 25/2/1998, Rv. 513033; Sez. 5, n. 9133 del 676/2012, Rv. 622945, Sez. U., n. 13045 del 27/12/1997, Rv. 511208).

Nel caso di specie la Corte meneghina, senza incorrere in alcuna interna contraddizione o incoerenza, ha escluso la sussistenza di un attendibile quadro probatorio che suffraghi la tesi della D., stante che, a volere ipotizzare la sussistenza di un contratto a favore del terzo (cioè della Fabe in favore delle proprietarie dello stabile), obbligata nei confronti dell’atro contraente resta sempre la sola società stipulante. Un tale apprezzamento, pur se opinabile, non può in questa sede essere sottoposto a sindacato.

L’epilogo impone la condanna della D. al pagamento delle spese legali del giudizio di legittimità in favore delle resistenti, nella misura, stimata congrua, di cui in dispositivo, tenuto conto del valore e qualità della causa e delle attività svolte.

PQM

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che, in favore delle parti resistenti, liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2017

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