Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17645 del 17/07/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 17/07/2017, (ud. 20/04/2017, dep.17/07/2017),  n. 17645

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22188/2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 4796/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/09/2010 R.G.N. 3946/2006.

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 27/9/2010, in riforma della pronuncia del locale Tribunale, accoglieva la domanda proposta da D.L., diretta alla declaratoria di nullità, per genericità della causale, del contratto di lavoro a tempo determinato da lui stipulato con la società Poste Italiane, D.Lgs n. 368 del 2001, ex art. 1, a far tempo dal 1/10/2002 e con scadenza al 31/12/02 per “sostenere il livello di servizio di recapito durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità, tuttora in fase di completamento, di cui agli Accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001, 11 gennaio, 13 febbraio e 17 aprile, 30 luglio e 18 settembre 2002, che prevedono al riguardo il riposizionamento su tutto il territorio degli organici della società”; dichiarava sussistente tra le parti un rapporto di lavoro subordinato dalla data di assunzione e condannava la società Poste Italiane al risarcimento del danno, pari alle retribuzioni maturate dal momento della costituzione in mora sino alla scadenza del triennio dalla data di cessazione del contratto (31/12/2005);

per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società Poste, affidato a cinque motivi;

l’intimata non ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con cinque motivi la società denuncia contraddittoria ed insufficiente motivazione e violazione degli artt. 1372,1175,1375,2697,1427,1431 c.c., art. 100 c.p.c.(primo motivo); violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e art. 4, comma 2, art. 12 preleggi, artt. 1362-1325 c.c., artt. 115 e 116,244,253 e 421 c.p.c., (secondo e quarto motivo); omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia (terzo motivo); violazione degli artt. 1206,1207,1217,1218,1219,1223,2094 e 2099 c.c. (quinto motivo);

lamenta, in sintesi, che la corte territoriale abbia respinto l’eccezione di risoluzione del contratto per mutuo consenso; che abbia escluso erroneamente la legittimità della clausola appositiva del termine, invece sufficientemente motivata; denuncia altresì omessa ed insufficiente motivazione su di un fatto decisivo per il giudizio, circa l’effettiva sussistenza delle ragioni tecnico produttive quali evincibili dai menzionati accordi sindacali del 2001/2002, nonchè la mancata ammissione dei relativi capitoli di prova richiesti e l’omesso esercizio dei poteri ufficiosi da parte del giudice di merito sul punto;

lamenta l’erroneo riconoscimento, ai fini risarcitori, delle retribuzioni precedentemente percepite dalla lavoratrice, eventualmente spettanti solo dalla effettiva riammissione in servizio nonchè l’erroneità della sentenza in ordine alle conseguenze ripristinatorie e risarcitorie derivanti dalla presunta illegittimità dell’assunzione, invocando allo scopo lo ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32;

2. il primo motivo è infondato;

deve rilevarsi come questa Corte abbia più volte affermato il principio alla cui stregua “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (vedi, ex plurimis, Cass. 31-3-15 n. 6549, Cass. 13-8-14 n. 17940, Cass. 10-11-2008 n. 26935);

tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070);

nella specie la Corte d’Appello ha osservato che il decorso del tempo è solo uno dei possibili elementi oggetto della indagine giudiziale, cui devono aggiungersi elementi positivi ed univoci che obiettivamente depongano per l’avvenuto scioglimento del contratto; ha, quindi, rimarcato che la mancanza di ogni diversa allegazione di altre condotte della lavoratrice, concludenti nel senso di una implicita volontà solutoria del rapporto, dovevano far escludere una presunzione fondante un’ipotesi di scioglimento di quello per mutuo consenso, tale non potendosi considerare l’accettazione delle competenze di fine rapporto, nè la breve durata del rapporto di lavoro;

la statuizione emessa dalla Corte territoriale, in quanto sorretta da congrua motivazione e coerente con i dicta giurisprudenziali emessi sulla delibata questione, si sottrae alle critiche formulate dalla società;

3. del pari i motivi secondo, terzo e quarto – che possono congiuntamente esaminarsi siccome connessi – sono privi di fondamento;

l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa (per tutte, Cass. 27-42010 n. 10033);

tale specificazione, di cui è onerato il datore di lavoro, può risultare anche indirettamente dal contratto di lavoro e da esso “per relationem” da altri testi scritti accessibili alle parti (ex multis, Cass. 1-2010 n. 2279, Cass. 27-4-2010 n. 10033, Cass. 13-1-2015 n. 343);

3. fermo restando l’onere della prova a carico della datrice di lavoro (Cass. 1-2-2010 n. 2279), nel caso in esame la sentenza impugnata ha esaminato il contenuto degli accordi invocati, escludendo che essi contenessero utili indicazioni circa le effettive esigenze tecniche, organizzative e produttive indicate nel contratto di assunzione, posto che detti accordi facevano riferimento a posizioni di lavoro scoperte sull’intero territorio nazionale, con accertamento che non risulta adeguatamente censurato dalla attuale ricorrente;

4. non può condividersi, per le ragioni sopra dette, la tesi della ricorrente secondo cui la prova circa la sussistenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, citato art. 1, graverebbe sulla società datrice di lavoro solo con riferimento alla proroga del contratto, ex art. 4 D.Lgs. citato;

5. quanto alla mancata ammissione dei capitoli di prova, la ricorrente non censura quanto accertato al riguardo dalla sentenza impugnata, e cioè la genericità dei capitoli stessi; a ciò va aggiunto che la società non trascrive interamente i capitoli di prova richiesti nè in quale atto processuale, quando ed in qual modo essi sarebbero stati sottoposti al giudice del gravame (cfr. Cass. ord. 16-3-12 n. 4220; Cass. 9-4-13 n. 8569); deve infatti rimarcarsi che la censura contenuta nel ricorso per cassazione relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale è inammissibile se il ricorrente, oltre a trascrivere i capitoli di prova e ad indicare i testi e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare – elementi necessari a valutare la decisività del mezzo istruttorio richiesto, e nella specie insussistenti – non alleghi e indichi, inoltre, la prova della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione e la fase di merito a cui si riferisce, al fine di consentire “ex actis” alla Corte di Cassazione di verificare la veridicità dell’asserzione, (ex aliis, cfr. Cass. 23-4-2010 n. 9748); ne consegue che anche l’invocato esercizio dei poteri ufficiosi non avrebbe potuto trovare ingresso in giudizio, stante la sua natura, a questo punto, meramente esplorativa (cfr. Cass. n. 4/3/2015 n. 4412, Cass. 11-3-2011 n. 5878);

6. va invece accolta l’istanza di applicazione dello jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, in base al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può concernere anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive e, quindi, applicabili al rapporto dedotto, atteso che non richiede necessariamente un errore, avendo ad oggetto il giudizio di legittimità non l’operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico (vedi Cass. S.U. 27/10/2016 n. 21691);

7. pertanto, il ricorso va accolto entro i limiti descritti con la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello designata in dispositivo.

PQM

 

la Corte accoglie l’ultimo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione, rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e rinvia anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2017

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