Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17640 del 06/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 06/09/2016, (ud. 17/05/2016, dep. 06/09/2016), n.17640

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19245/2013 proposto da:

C.S., C.F. (OMISSIS), domiciliata in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la cancelleria della Corte di Cassazione,

rappresentata e difesa dagli Avvocati GABRIELE EUSEBI, GIAMPIERO DEL

BIGIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

BANCA DELLE MARCHE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente

e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA PO 24, presso lo studio dell’avvocato AURELIO GENTILI, che

la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 283/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 03/05/2013 R.G.N. 174/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/05/2016 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito l’Avvocato GENTILI AURELIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 283/2013, depositata il 3 maggio 2013, la Corte di appello di Ancona, in riforma della sentenza del Tribunale di Macerata, respingeva le domande proposte da C.S. nei confronti della Banca delle Marche per il pagamento delle maggiorazioni retributive per il possesso della laurea e per iscrizione agli albi professionali.

La Corte richiamava, a sostegno della propria decisione, un proprio precedente conforme (sent. n. 13/2006) in causa analoga e comunque rilevava che le clausole dei contratti collettivi nazionali, secondo le quali la maggiorazione spetta nel caso in cui l’istituto di credito abbia richiesto come titolo di studio la laurea, dovevano essere interpretate nel senso che la maggiorazione competa solo ove il possesso della laurea in determinate materie sia previsto quale requisito esclusivo dello svolgimento delle mansioni, non apparendo ragionevole una diversità di trattamento retributivo per mansioni identiche quanto a difficoltà e abilità professionale effettivamente richiesta. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la C. con tre motivi, assistiti da memoria; la datrice di lavoro ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente, denunciando la violazione di varie norme dei CCNL di settore, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, censura la sentenza impugnata per avere ritenuto irragionevole ed iniquo discriminare i dipendenti laureati da quelli non laureati a fronte dello svolgimento di identiche mansioni e per avere di conseguenza affermato che la maggiorazione per il possesso della laurea competa al dipendente unicamente nei casi in cui egli venga adibito a mansioni la cui esecuzione presuppone il possesso di tale titolo come “requisito esclusivo e dunque condicio sine qua non”.

Il motivo è inammissibile.

Al riguardo si deve premettere che la Corte di appello, a sostegno delle affermazioni oggetto di censura, ha richiamato il precedente di cui alla propria sentenza n. 13/2006 resa nella causa iscritta al n. 449/2004 tra D.M.G. e Banca delle Marche S.p.A. e decisa all’udienza del 13 gennaio 2006.

E’ da sottolineare come tale richiamo non abbia un valore meramente “persuasivo” o rafforzativo del corredo motivazionale, posto che esso (1) si connette direttamente (v. l’incipit “in proposito”: cfr. p. 2, penultimo capoverso) alle previsioni delle clausole di fonte collettiva denunciate e alla conclusione che dalle medesime deve trarsi sul piano interpretativo; (2) indica quindi, in modo netto ed inequivoco, che a proposito di tale conclusione “deve farsi testuale riferimento alle motivazioni” già esposte nella pronuncia n. 13/2006.

Ne consegue che il percorso motivazionale della sentenza impugnata (n. 283/2013) risulta formato anche (e per la parte centrale ed essenziale) dalle motivazioni della sentenza della stessa Corte di appello n. 13/2006.

Tale struttura della motivazione è, ora, apertamente resa legittima dalla norma di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c., la quale prevede, al comma 1 novellato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, che “la motivazione della sentenza di cui all’art. 132, comma 2, n. 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. La possibilità del “riferimento a precedenti conformi”, così esplicitamente consentita, non deve intendersi limitata ai precedenti di legittimità, secondo un’istanza di tutela pervasiva della funzione nomofilattica, ma si estende, nell’ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile, anche a quelli di merito del medesimo tribunale o della medesima corte di appello, ricercandosi palesemente per tale via il beneficio della utilizzazione di riflessioni e di schemi decisionali già compiuti per casi identici o caratterizzati dalla risoluzione di identiche questioni.

Su tali premesse, e in presenza (come nella specie) di un recepimento in sentenza che rende la motivazione del precedente parte integrante della decisione, è onere della parte impugnante fare oggetto di precisa analisi anche il corredo di argomentazioni che vi è inserito, alla stregua dei requisiti di specificità propri di ciascun modello di gravame, previo esame preliminare – logicamente richiesto dal presupposto medesimo dell’operazione inclusiva – della sovrapponibilità del caso richiamato alla fattispecie in discussione.

Tale onere non risulta assolto dall’odierna ricorrente, posto che l’atto di impugnazione non formula alcuna censura nei confronti della motivazione della sentenza n. 13/2006, nè di fatto la considera in alcuna sua parte e sotto alcun profilo.

Nè può ritenersi che la sentenza impugnata abbia comunque esplicitato, sia pure in modo succinto, i motivi per i quali ha considerato di dover accogliere l’appello (e cioè osservando che le clausole collettive devono interpretarsi nel senso che l’aumento di retribuzione competa soltanto ove il possesso della laurea in determinate materie sia previsto quale requisito esclusivo e condicio sine qua non dell’assunzione), essendo, questa, un’affermazione che costituisce il giudizio finale e sintetico di un ragionamento ermeneutico che, così come esplicitamente rilevato in sentenza, trova fondamento e giustificazione proprio nella richiamata pronuncia n. 13/2006.

Con il secondo e con il terzo motivo viene denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la sentenza impugnata omesso di valutare la deduzione, secondo cui la Banca datrice di lavoro sarebbe stata a conoscenza del possesso della laurea da parte della ricorrente e tale possesso avrebbe considerato come titolo preferenziale per l’assunzione (2 motivo); nonchè omesso di valutare la deduzione, secondo cui la Banca avrebbe, anche per fatti concludenti, chiesto alla ricorrente la laurea prima come titolo per la promozione al grado di impiegata di la, con decorrenza 1/1/1990, e poi come titolo per l’assunzione, in data 10/1/1991, con contratto di lavoro a tempo indeterminato con la qualifica di impiegata di la, e comunque in occasione di ogni promozione successiva (3 motivo).

Anche i motivi in esame, che possono esaminarsi congiuntamente per l’identità delle questioni processuali che pongono, risultano inammissibili.

In primo luogo, si osserva che il vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., quale menzionato nella rubrica di entrambi i motivi, deve essere dedotto, secondo costante giurisprudenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, trattandosi tipicamente di error in procedendo, e non in relazione al n. 5 del medesimo articolo (cfr. ex multis Cass. n. 26598/2009).

Ove, poi, si volesse, superando il dato testuale della rubrica, considerare le censure proposte come relative a carenze motivazionali, allora è da rilevare che i motivi in esame si traducono nella denuncia di un vizio di motivazione secondo lo schema normativo di cui all’art. 360, n. 5, nella versione anteriore alla modifica introdotta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, pur in presenza di sentenza di appello depositata in data 3/5/2013 e, pertanto, in data posteriore all’entrata in vigore della modifica (11 settembre 2012).

Come precisato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054, l’art. 360 c.p.c., n. 5, così come riformulato a seguito della novella legislativa, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

In particolare, non emerge dai motivi in esame se gli stessi si riferiscano a fatti storici decisivi e precisamente a quali fatti; nè, in ogni caso, forma oggetto di deduzione e discussione la loro “decisività”, intesa come attitudine a determinare autonomamente un differente esito della controversia.

In definitiva, il ricorso non può trovare accoglimento.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

la Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2016

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