Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17639 del 06/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 06/09/2016, (ud. 11/05/2016, dep. 06/09/2016), n.17639

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16679-2014 proposto da:

D.G.M. U.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CAIROLI 24, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE

IURILLI, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.L. C.F. (OMISSIS), “TAMANACO S.A.S. DI P.V.

& C.” (già TAMANACO S.A.S. DI L.G. E P.V.

& C. S.A.S. P.I. (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

G.L. C.E. (OMISSIS), “TAMANACO S.A.S. (OMISSIS) & C.”

(già TAMANACO S.A.S. DI L.G. E P.V. & C.

S.A.S. P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE GORIZIA 14, presso

lo studio dell’avvocato FRANCO SABATINI (STUDIO SINAGRA – SABATINI –

SANCI), rappresentate e difese dall’avvocato LUCA GROSSI, giusta

delega in atti;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

D.G.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CAIROLI 24, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE

IURILLI, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 150/2013 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 27/12/2013 r.g.n. 1636/2012;

udita la relazione iella causa svolta nella pubblica udienza del

11/05/2016 dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO;

udito l’Avvocato TURILLI GIUSEPPE;

udito l’Avvocato GROSSI LUCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.La Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza depositata il 27/12/2013, confermò la decisione del giudice di primo grado che aveva condannato in solido G.L. e la s.a.s. Tamanaco di G.L. e P.V. & c. al risarcimento dei danni derivati a D.G.M. dalla mancata regolarizzazione – per il periodo 1991-30/6/2004 – dei contributi previdenziali maturati in ragione della partecipazione del medesimo all’impresa familiare facente capo alla G., la cui esistenza era stata accertata con sentenza del 16/4/2009. La Corte territoriale confermò, altresì, la sentenza di primo grado nel punto in cui aveva rigettato la domanda del D.G. diretta ad autorizzare il riscatto dell’azienda familiare, ceduta dalla G. alla società il 25/11/2009.

2.In relazione alla questione attinente al riscatto la Corte territoriale, rifacendosi al principio in forza del quale la cessazione dei diritti di partecipazione connessi col rapporto di collaborazione con l’impresa ceduta coincide con la liquidazione della quota del partecipe e non con il venir meno anche in via di fatto della prestazione lavorativa, ritenne coincidente il concetto di liquidazione ai sensi dell’art. 230 bis c.c. non con quello di completo, esatto e definitivo pagamento del relativo credito, bensì con quello di “attualizzazione del diritto di credito del partecipe conseguente allo scioglimento del rapporto a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione”. Osservò la Corte d’appello che, con sentenza n. 885/2009, pronunciata tra le medesime parti dal Tribunale di Pescara, era stata dichiarata costituita un’impresa familiare ed accertata la partecipazione alla stessa del D.G. dal 1991 al 30/6/2004, data di estromissione con liquidazione della quota di partecipazione del predetto e condanna della titolare dell’impresa al pagamento della predetta somma. Tale sentenza, sostanzialmente confermata in appello, era passata in giudicato il 12/3/2011. Osservò la Corte che la ricostruzione operata imponeva l’efficacia della sopravvenuta formazione del giudicato esterno tra le parti. Ne dedusse che, risultando giudizialmente accertati il venir meno del rapporto di partecipazione e il diritto di liquidazione della quota agli utili ed agli incrementi al 30/6/2004, ne derivava che alla data di conferimento da parte della G. dell’azienda (25/11/2009), il D.G. non era titolare di alcun diritto di prelazione, in quanto non più partecipe dell’impresa familiare. Confermò il rigetto della domanda tesa all’accertamento del danno conseguente alla mancata regolarizzazione dei contributi previdenziali.

3.Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il D.G., sulla base di quattro motivi. Resistono G.L. e Tamanaco s.a.s. di L.G. e P.V. & c. con controricorso, proponendo, altresì, ricorso incidentale sulla base di tre motivi, resistito a sua volta dal D.G. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo il ricorrente principale deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 3, violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all’art. 230 bis c.c. e all’art. 732 c.c. a cui rinvia espressamente dell’art. 230 bis c.c., il comma 5. Rileva che la Corte d’Appello ha ritenuto che il venir meno del rapporto di partecipazione e il diritto alla liquidazione della quota alla data del 30/6/2004 rendesse evidente che al momento del conferimento da parte della G. dell’azienda familiare alla s.a.s. Tamanaco di G.L. & c. il D.G. non fosse titolare di alcun diritto di prelazione, in quanto non più partecipe dell’impresa familiare. Osserva che l’interpretazione offerta dell’art. 230 bis c.c., comma 5 e del rinvio all’istituto di cui all’art. 732 c.c. era restrittiva e mutilante la ratio sottesa dal legislatore della riforma del diritto di famiglia all’istituto. Ed infatti, secondo l’interpretazione della Corte d’appello, il familiare imprenditore di fatto sarebbe libero di disporre in modo arbitrario del diritto di prelazione di cui all’art. 230 bis c.c., comma 5 in netto contrasto con la ratio della disciplina richiamata. Sarebbe sufficiente, infatti, che l’imprenditore estromettesse il collaboratore, senza neppure procedere alla liquidazione del diritto di partecipazione, per far perdere automaticamente a costui il diritto di prelazione e di riscatto. Rileva che attraverso l’analisi della prelazione della comunione ereditaria di cui all’art. 732 c.c., applicabile alla fattispecie nei limiti della compatibilità, si individuano i presupposti necessari per godere del diritto di prelazione e riscatto, nonchè del termine di esso e che nell’istituto di cui all’art. 732 c.c. il diritto di prelazione e riscatto cessa unicamente con la liquidazione della quota dell’erede. Pertanto, solo la liquidazione dei diritti connessi con la partecipazione, completa e definitiva (non impugnabile), in termini di determinazione della percentuale della quota del diritto all’avviamento e del periodo totale di partecipazione, è idonea a far venir meno il diritto alla prelazione e al riscatto. Ed allora assume rilevanza la circostanza che il pendente giudizio è stato introdotto prima del passaggio in giudicato della sentenza di liquidazione del diritto di partecipazione all’impresa familiare: poichè solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado del 12/3/2011 la liquidazione giudiziale era divenuta definitiva, all’epoca del trasferimento dell’azienda il diritto di prelazione e di riscatto dovevano ritenersi ancora intatti.

1.2. Il motivo è infondato. Dal tenore dell’art. 732 c.c., applicabile alla materia in esame nei limiti della compatibilità (si veda in proposito Cass. n. 27475/2008, rv. 605750), si evince che “i coeredi hanno diritto di riscattare la quota dall’acquirente e da ogni successivo avente causa, finchè dura lo stato di comunione ereditaria”. Ne discende che il concetto di liquidazione della quota da assumere quale riferimento ai fini dell’individuazione del limite temporale del perdurare del diritto al riscatto non può che coincidere con il consolidarsi, al momento della cessazione della permanenza del sue rapporto con l’impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione. Conseguentemente, essendo stata accertata con efficacia di giudicato la cessazione del D.G. dall’impresa familiare alla data del 30/6/2004, non può configurarsi in capo al predetto un diritto di prelazione e riscatto al momento in cui è intervenuto il trasferimento dell’azienda familiare (25/11/2009), restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del giudicato esterno. Osserva che nel caso in esame non può trovare applicazione il giudicato esterno relativo alla statuizione attinente alla partecipazione all’impresa familiare, poichè il petitum e la causa petendi dedotti nel precedente giudizio sono completamente differenti da quelli dedotti nell’attuale giudizio.

2.2. Anche il predetto motivo è infondato. E’ da rilevare, infatti, che la prima statuizione richiamata ha carattere di pregiudizialità rispetto al presente giudizio, poichè l’accertamento in ordine alla sussistenza, durata e cessazione dell’impresa familiare costituisce un antecedente logico-giuridico della decisione in ordine alla sussistenza dei presupposti del riscatto in capo al partecipe della medesima. Ne consegue che la predetta statuizione fa stato nel giudizio attinente all’esercizio del diritto di riscatto.

3. Nella pronuncia di rigetto delle precedenti censure restano assorbiti i motivi prospettati sub 3 e sub 4. Con essi il ricorrente deduce, rispettivamente, A) ex art. 360 c.p.c., comma 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, rilevando che la Corte d’appello ha omesso di pronunciarsi in merito alla corretta individuazione dei negozi a effetto traslativo ricompresi nel termine trasferimento indicato all’art. 230 bis c.c., comma 5, questione costituente un punto decisivo del giudizio; B) ex art. 360 c.p.c., comma 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, rilevando che la Corte territoriale ha omesso di pronunciarsi in merito alla corretta individuazione del valore pecuniario del trasferimento operato e, quindi, dell’ammontare della somma da corrispondere per il riscatto. E’ da rilevare in proposito che, una volta esclusa a monte la possibilità di esercizio della prelazione, nessun rilievo possono assumere le questioni esposte, le quali presuppongono l’accoglimento delle pregresse censure.

4. Con ricorso incidentale le ricorrenti deducono:

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c. in riferimento all’art. 111 Cost.. Osservano che il D.G. già nel ricorso che aveva dato luogo alla statuizione riguardo all’esistenza dell’impresa familiare aveva fatto riferimento alla sua mancata iscrizione agli Enti previdenziali, talchè era inibito scrutinare nuovamente nell’ambito del presente procedimento una domanda già dedotta nel precedente giudizio, la cui sentenza era passata in giudicato, e ciò anche in base al principio in forza del quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile; 2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 2 in relazione alla L. n. 613 del 1966, art. 1 e art. 10, comma 2, nonchè della L. n. 233 del 1990, art. 2 (art. 360 c.p.c., n. 3). Rilevano che l’onere contributivo sarebbe gravato comunque sul D.G.. Costui si sarebbe potuto iscrivere autonomamente alla gestione INPS di competenza, pagando i relativi contributi. Egli, pertanto, si ritroverebbe risarcito di un danno che avrebbe potuto evitare, conseguendo vantaggi in contrasto con i principi di cui all’art. 1227 c.c., comma 2; 3) Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5). Le ricorrenti osservano che era stata censurata la sentenza di primo grado nella parte in cui era stata pronunciata una domanda in solido della Tamanaco s.a.s. per il risarcimento di un danno cagionato prima della costituzione della stessa, pur non sussistendo alcun principio in base al quale una società debba rispondere di un danno cagionato da uno dei soci prima della sua costituzione.

5. I motivi sono privi di fondamento. In ordine al primo si osserva che la censura non è munita di adeguato supporto documentale nei termini prescritti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, poichè non è prodotto l’atto dal quale si pretende di trarre la formulazione della domanda nei termini indicati. E’ da osservare, altresì, che il presente giudizio concerne una fattispecie risarcitoria attinente a danno consequenziale alle omissioni inerenti al distinto rapporto della G. con l’ente previdenziale. Quanto al secondo motivo, si osserva che il ricorrente non indica le norme in forza delle quali la contribuzione graverebbe sul partecipe dell’impresa familiare. Va rilevato, inoltre, che il D.G. è stato partecipe di un’impresa familiare di fatto, priva di atto di costituzione e, pertanto, ufficialmente inesistente: in mancanza di un inquadramento giuridico non disponeva, di conseguenza, dei requisiti necessari per potersi iscrivere autonomamente all’Inps. E’ da considerare, poi, che in base alla L. n. 613 del 1966 l’assicurazione per i.v.s. è estesa agli esercenti attività commerciali e loro familiari coadiutori solo qualora gli stessi non siano soggetti all’assicurazione generale obbligatoria in qualità di lavoratori dipendenti. In ordine al terzo motivo si evidenzia che, poichè la sentenza impugnata non affronta il tema oggetto di discussione, il ricorrente avrebbe dovuto allegare il fondamento documentale, nonchè fornire indicazioni per il reperimento nel fascicolo dei documenti (primi tra tutti l’originario ricorso e l’appello), dai quali evincere che la questione sollevata in sede di ricorso per cassazione fosse stata già prospettata nelle fasi di merito. Va richiamato in proposito il principio, dal quale questa Corte non ha motivo di discostarsi, in forza del quale “qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi ai giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione” (Sez. 1, Sentenza n. 23675 del 18/10/2013, Rv. 627975).

6. In base alle svolte argomentazioni i ricorsi di entrambe le parti devono essere rigettati.

La soccombenza reciproca giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Spese compensate.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2016

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