Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17630 del 28/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 28/07/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 28/07/2010), n.17630

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2347-2007 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

VITTORIA COLONNA 18, presso lo studio dell’avvocato BENIGNI ELIO, che

la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

FIMAFLEX DI MAGAZZENO FRANCESCO & NOTARFRANCESCO FILOMENA S.N.C.,

in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 14, presso lo studio

dell’avvocato CESAREO GERARDO ROMANO, rappresentata e difesa

dall’avvocato SCOCOZZA RICCARDO, giusta mandato a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3 02/2006 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 08/03/2006 R.G.N. 1465/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato BENIGNI ELIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo,

rigetto nel resto.

 

Fatto

Con ricorso al Pretore, giudice del lavoro, di Salerno, Sezione Distaccata di Montecorvino Rovella, depositato in data 28.2.1995, M.M., premesso di aver lavorato alle dipendenze della Fimaflex s.n.c. di Magazzeno Francesco e Notarfrancesco Filomena dal 1 luglio 1984 al 30 novembre 1994, svolgendo mansioni di impiegata inquadrabili nel livello (OMISSIS)) del CCNL di categoria e prestando la propria attività dal lunedì al venerdì dalle ore 9,30 alle ore 17,30 con un’ora di intervallo per il pranzo, esponeva di non aver percepito alcun compenso a titolo di retribuzione e di 13^ mensilità, di non aver goduto delle ferie, di non aver ricevuto l’indennità sostitutiva del mancato preavviso. Chiedeva pertanto la condanna della società convenuta al pagamento delle somme dovutele per le causali predette.

Con sentenza in data 18.9.2002 il Tribunale di Salerno, in parziale accoglimento della domanda, riconosceva l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato limitatamente al periodo gennaio 1990 – novembre 1994 e, ritenuta la corresponsione di una retribuzione mensile pari a L. 900.000, condannava la società convenuta al pagamento delle differenze retributive, quantificate nella somma di L. 5.748.382, con interessi e rivalutazione.

Avverso tale sentenza proponeva appello la M. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento di tutte le domande proposte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Salerno, con sentenza in data 21.4.2004, rigettava il gravame.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione M. M. con tre motivi di impugnazione. Resiste con controricorso la società intimata. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Col primo motivo di gravame la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione o falsa applicazione dì norme di diritto, in relazione agli artt. 2908, 2909, 2094 e 2697 c.c., art. 36 Cost., L. n. 297 del 1982 e CCNL per i dipendenti delle imprese artigiane del legno, sughero, mobili ed arredamento (in vigore dal 1 giugno 1984 al 30 giugno 1986, e successivi rinnovi in vigore dal 1 novembre 1988 al 30 agosto 1991) per avere la Corte d’appello ritenuto l’insussistenza del rapporto di lavoro nel periodo 1 luglio 1984 – dicembre 1989; e lamenta altresì, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, in relazione agli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., per non avere la Corte d’appello tenuto conto e correttamente valutato la prova acquisita ed offerta dalle parti.

Rileva in particolare che la Corte d’appello non aveva adeguatamente valutato le prove testimoniali assunte, dalle quali emergeva l’esistenza del vincolo della subordinazione sotto il profilo dell’assoggettamento alle direttive del datore di lavoro, e l’esistenza degli ulteriori elementi sussidiar parimenti indicativi del vincolo della subordinazione.

Il motivo è infondato.

In proposito osserva innanzi tutto il Collegio che il suddetto motivo di gravame, sotto il profilo formale della violazione o falsa applicazione della norme di diritto, configura in realtà una violazione deducibile come vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5; ciò in quanto il proposto gravame involge in realtà la valutazione di specifiche questioni di fatto, valutazione non consentita in sede di giudizio di legittimità. Devesi in proposito evidenziare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di dare adeguata contezza dell’iter logico – argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. sez. 1, 26.1.2007 n. 1754; Cass. sez. 1, 21.8.2006 n. 18214; Cass. sez. lav., 20.4.2006 n. 9234; Cass. sez. trib., 1.7.2003 n. 10330; Cass. sez. lav., 9.3.2002 n. 3161; Cass. sez. 3, 15.4.2000 n. 4916).

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità il quale deve limitarsi a verificare se siano stati dal ricorrente denunciati specificamente – ed esistano effettivamente – vizi (quali, nel caso di specie, la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione) che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.

Orbene, questa Corte ha invero avuto modo a più riprese di rilevare che ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro deve tenersi conto prevalentemente delle concrete modalità di svolgimento le quali possono ben evidenziare, secondo un accertamento di fatto che è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivato, che il rapporto di lavoro si è svolto o meno nelle forme proprie della subordinazione (Cass. sez. lav., 4.5.2009 n. 10242; Cass. sez. lav., 26.6.2007 n. 14723; Cass. sez. lav., 24.2.2006 n. 4171; Cass. sez. lav., 9.1.2001 n. 224).

Nel caso di specie la Corte territoriale, attraverso l’esame delle deposizioni dei testi escussi nel giudizio di merito, è pervenuta alla conclusione della insussistenza di qualsivoglia elemento da cui potesse trarsi la prova dell’esistenza del vincolo della subordinazione. A tal proposito ha rilevato che dalle deposizioni dei testi P.M., L.A., B.G., C.M.R., era emerso che la ricorrente – nel periodo in contestazione (dal luglio 1984 al dicembre 1989) – non era tenuta a rispettare alcun orario di lavoro; che la stessa organizzava la propria attività lavorativa con orario libero compatibile con le sue esigenze scolastiche e di studio; che nessuno le impartiva direttive di lavoro; che non riceveva alcuna retribuzione.

La motivazione dei giudici di merito si appalesa quindi completa ed esaustiva, non apparendo l’accertamento del fatto – operato dagli stessi – inficiato da alcun vizio di motivazione, sotto il profilo della non coerenza dell’iter logico – argomentativo seguito e n della mancata esplicitazione delle argomentazioni espresse per giungere alla soluzione adottata.

Nè le argomentazioni svolte dalla ricorrente circa la non (q corretta vantazione delle deposizioni testimoniali assunte si appalesano idonee ad inficiare le conclusioni suddette, ove si osservi che il ricorso sul punto appare decisamente carente sotto il profilo della autosufficienza avendo la ricorrente riportato solo brevissimi passi delle ulteriori dichiarazioni rese dagli altri testi, che non consentono in alcun modo a questa Corte di ritenere l’asserito vizio di motivazione sotto il profilo della esistenza di lacune, incoerenze ed incongruenze tali da impedire ogni controllo sulla esattezza e logicità del ragionamento svolto.

Il suddetto motivo non può pertanto trovare accoglimento, risultando in tale pronuncia assorbita ogni ulteriore questione concernente la esistenza o meno di una presunzione di gratuità del lavoro svolto in quanto prestato in favore di soggetti legati alla lavoratrice da uno stretto vincolo parentale.

Col secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ed ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, in relazione all’ari 2099 c.c. ed all’ari 36 Costituzione, nonchè all’art. 2697 c.c., comma 2, artt. 2721 e 2716 c.c., circa i fatti allegati da parte convenuta e finalizzati al rigetto della domanda.

In particolare rileva la ricorrente che erroneamente ed immotivatamente la Corte territoriale aveva ritenuto che alla stessa fosse stata corrisposta una retribuzione, a decorrere da gennaio 1990, di L. 900.000 mensili, basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni del teste Ma.An., in assenza di qualsivoglia prova da parte della società datoriale della corresponsione di tale retribuzione.

Col terzo motivo di gravame la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ed ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, in relazione agli artt. 246 e 247 c.p.c, per aver ritenuto la Corte d’appello la testimonianza di Ma.An. qualificata ed attendibile perchè proveniente dal padre della ricorrente.

In particolare rileva che il teste predetto si trovava in una palese situazione di incapacità a testimoniare, in considerazione dello stretto rapporto di parentela esistente con essa ricorrente, e della indiscussa cointeressenza nella gestione e nella partecipazione sociale.

I suddetti motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, non sono fondati alla stregua delle seguenti considerazioni.

Innanzi tutto devesi rilevare che il richiamo all’art. 247 c.p.c. si appalesa del tutto inconferente atteso che la norma suddetta, che prevede il divieto di testimoniare in considerazione dei rapporti di parentela, affinità o coniugio esistenti fra le parti, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 248 del 10.7.1974.

Per quel che riguarda l’incapacità a testimoniare, prevista dall’art. 246 c.p.c., rileva il Collegio che la valutazione del giudice di merito in ordine all’inesistenza, da parte del testimone, dell’interesse che potrebbe legittimare la partecipazione dello stesso al giudizio involge apprezzamenti di fatto, ed è conseguentemente rimesso al giudice di merito, essendo pertanto insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cass. 19.1.2007 n. 1188; Cass, 20.1.2006 n. 1101; Cass. 18.3.1989 n. 1369). E nel caso di specie la Corte di merito ha ritenuto l’attendibilità della deposizione resa dal teste in quanto proveniente dal padre della ricorrente medesima, evidenziando in buona sostanza che la particolare posizione dello stesso, in quanto genitore sia della ricorrente che dell’amministratore delegato della società convenuta, induceva a ritenere la genuinità della deposizione predetta.

Per quel che riguarda infine la prova della retribuzione ricevuta, rileva il Collegio che la Corte territoriale ha correttamente fatto riferimento alle dichiarazioni del teste sopra indicato, ritenendone la piena attendibilità. Ed invero la L. 5 maggio 1953, n. 4, nel prescrivere, all’art. 1, che i datori di lavoro debbono consegnare ai lavoratori dipendenti, “all’atto della corresponsione della retribuzione”, un prospetto paga con le indicazioni del periodo cui la retribuzione si riferisce e degli elementi che la compongono, non dispone in realtà che la prova dell’avvenuta retribuzione debba essere fornita esclusivamente per mezzo di tali buste paga. E pertanto anche sotto questo profilo la sentenza impugnata si sottrae alle censure ed ai rilievi alla stessa mossi.

Il proposto gravame va pertanto rigettato ed a tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 28,00 oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2010

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