Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17609 del 14/07/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 14/07/2017, (ud. 24/05/2017, dep.14/07/2017),  n. 17609

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15256-2016 proposto da:

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., (C.F. (OMISSIS), P.I. (OMISSIS)),

società con Socio Unico soggetta all’attività di direzione e

coordinamento di Ferrovie dello Stato S.p.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G.

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la

rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all’avvocato ROSA

PINO;

– ricorrente –

contro

I.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA Q. MAIORANA 9

presso lo studio FAZZARI, presso rappresentato e difeso

dall’avvocato AURORA FRANCESCA NOTARIANNI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A. (C.F. (OMISSIS), P.I. (OMISSIS)),

società con Socio Unico soggetta all’attività di direzione e

coordinamento di Ferrovie dello Stato S.p.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L

G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che

la rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all’avvocato

ROSA PINO;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 146/2016 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 5/2/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 24/5/2017 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Messina in solo parziale riforma della decisione del Tribunale della stessa sede, previa conferma della declaratoria di illegittimità dei contratti di arruolamento (a viaggio e/o a termine) stipulati tra I.R. e Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. dal 1996 al 2008 per insufficienza delle indicazioni contenute negli stessi a configurare un pieno adempimento dell’osservanza delle norme imperative volte a prevenire gli abusi, della pronuncia di instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato e della quantificazione in 10 mensilità dell’indennità risarcitoria L. n. 183 del 2010, ex art. 32condannava la società a corrispondere al lavoratore anche la retribuzione dovuta dalla data della sentenza di primo grado fino alla riassunzione, detratto eventualmente l’aliunde perceptum;

– avverso tale sentenza Rete Ferroviaria S.p.A. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi;

– I.R. resiste con controricorso e fottnula, altresì, ricorso incidentale cui la società resiste con controricorso;

– la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;

– solo il controricorrente ha depositato memoria;

– il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo la società denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1372 c.c. in relazione al mancato rilievo dell’intervenuta risoluzione per mutuo consenso per il comportamento concludente delle parti. Evidenzia che, nella specie, tale inerzia andava valutata con riguardo al primo dei contratti stipulati tra le parti ed oggetto di conversione;

– il motivo è infondato;

– come questa Corte già da tempo affermato, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, occorre che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. nn. 4003/1998, 15403/2000); tra l’altro, è onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. nn. 15403/2000 cit., 17070/2002, 15624/2007, 2279/2010, 16303/2010);

– l’indirizzo consolidato di questa Corte (si vedano, oltre alle più datate decisioni sopra citate, Cass. nn. 17674/2002, 23554/2004, 20390/2007, 17150/2008, 26935/2008, 23057/2010, 5887/2011 e tra le più recenti, Cass. nn. 1780/2014, 24069/2015, 24951/2015, 1179/2016, 1244/2016, 3026/2016) è, così, innanzitutto nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore non è sufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo;

– questa S.C., poi, ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del t.f.r. nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass. n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass. n. 15900/2005, in motivazione)” – si vedano, in termini, anche le più recenti Cass. nn. 8061/2014, 6632/2014 -;

– la valutazione del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative di una consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (da ultime, Cass. 1° gennaio 2016, n. 1841 e 11 febbraio 2016, n. 2732);

– si aggiunga che, come da questa Corte già precisato (cfr. Cass. 31 luglio 2015 n. 16264, Cass. 6 agosto 2015, n. 16508, Cass. 5 febbraio 2016, n. 2331), il decorso del tempo non può che apprezzarsi dalla data di cessazione di fatto dell’intero rapporto (pur costituito da plurimi contratti a termine) e non già dal primo contratto, solo successivamente dichiarato invalido in sede giudiziaria, valutando il tempo trascorso sino al momento della notificazione del relativo ricorso, ovvero della prima manifestazione di volontà di far valere la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato;

– nel caso in esame, la Corte di appello ha respinto l’eccezione di scioglimento del vincolo contrattuale sul rilievo che dopo il contratto del 1996 lo I. era stato nuovamente chiamato al lavoro ed aveva stipulato con la stessa società altri contratti ma sempre a viaggio ovvero a tempo determinato: non aveva dunque conseguito una stabile occupazione nè rifiutato una o più chiamate al lavoro che potessero essere significative di un disinteresse al ripristino della piena funzionalità del rapporto; nè circostanza significativa poteva considerarsi l’accettazione senza riserve del t.f.r. all’atto della cessazione del rapporto o il mero decorso del tempo (che, pur di per sè rilevante, per essere espressivo di una tacita rinuncia a coltivare il diritto a far accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto, è necessario concorra con altri elementi convergenti, ad indicare, in modo univoco ed inequivoco, la volontà di estinguere ogni rapporto di lavoro tra le parti – cfr. da ultimo Cass., Sez. Un., 27 ottobre 2016 n. 21691, Cass. Sez. Un., 15 novembre 2016, n. 23226 -);

– trattasi di considerazioni di merito corrette sul piano giuridico e congruamente motivate, come tali non censurabili sul piano logico;

– con il secondo motivo la società denuncia violazione della L. n. 183 del 2010, art6. 32 per avere la Corte di appello disatteso la richiesta di riduzione dell’indennità risarcitoria formulata da R.F.I. S.p.A.;

– il motivo è infondato;

– la Corte di merito ha indicato le ragioni per le quali ha ritenuto corretta la detetininazione in dieci mensilità dell’indennità di cui all’art. 32 cit. individuandole, da un lato, nelle dimensioni aziendali, e dall’altro, nel numero dei contratti stipulati tra le parti e nell’anzianità del lavoratore. Si tratta, all’evidenza, di una corretta applicazione dei criteri di cui al citato L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 involgente, peraltro, valutazioni di merito che non possono essere sindacate in questa sede (Cass. 22 gennaio 2014, n. 1320, Cass. 5 marzo 2014, n. 5198, Cass. 17 marzo 2014, n. 6122, Cass. 8 settembre 2014, n. 18902);

– ragioni di ordine logico impongono a questo punto, prima dell’esame del terzo motivo di ricorso della società, quello del ricorso incidentale con il quale il lavoratore ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., artt. 1218,1223,1223,1226,2103 e 2059 c.c. e art. 432 c.p.c. nonchè omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno ulteriore per forzata inattivi come danno esistenziale ed alla professionalità;

– tale ricorso è manifestamente infondato;

– è pur vero che il lavoratore ha testualmente riportato il contenuto dell’appello incidentale e la richiesta di riforma della sentenza di primo grado con il riconoscimento del danno esistenziale ed alla professionalità, tuttavia dell’analoga domanda avanzata in sede di ricorso di primo grado non vi è traccia negli atti di causa;

– si rileva dalla sentenza impugnata e dal ricorso incidentale che il lavoratore aveva chiesto il solo risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni dovute negli intervalli di tempo non lavorati ed al riconoscimento dell’anzianità lavorativà;

– la domanda aveva, dunque, avuto ad oggetto espressamente il solo danno patrimoniale (tanto si evince chiaramente dal fatto che il risarcimento commisurato alle retribuzioni era stato chiesto in via subordinata/alternativa rispetto al pagamento diretto delle retribuzioni per i periodi di tempo in cui non era stata resa la prestazione lavorativa – cfr. pag. 2 della sentenza -) mentre alcun cenno vi era stato a quello non patrimoniale (nel cui ambito è ricompreso tanto il danno esistenziale, quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, quanto il danno alla professionalità quale compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa – cfr. Sezioni Unite n. 26972 in data 24 giugno 2008 -);

– è vero che è stato ritenuto (in materia di demansionamento) che è configurabile a carico del lavoratore un danno, costituito da un impoverimento delle sue capacità per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando, sicchè per la liquidazione di tale danno è ammissibile, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione, tuttavia è pur sempre necessaria ab initio una specifica deduzione di tale danno;

– consentire solo in appello una specificazione del danno preteso nei termini indicati dal ricorrente incidentale comporterebbe un inammissibile ingresso di un nuovo tema di indagine ed una modifica dell’oggetto sostanziale dell’azione in violazione del contraddittorio;

– così non è incorsa in alcuna omessa pronuncia la Corte di appello in relazione ad una domanda inammissibile non sussistendo al riguardo alcun obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito non potendo lo stesso ritenersi implicitamente ricompreso in una domanda risarcitoria nella domanda così come formulata dal ricorrente (cfr. ex multis Cass. 2 dicembre 2010, n. 24445; Cass. 25 maggio 2006, n. 12412);

– con il terzo motivo la società denuncia la violazione dell’art. 91 in relazione alla mancata compensazione delle spese per non essere state ritenute fondate tutte le doglianze dell’appello incidentale proposta dal lavoratore;

– il motivo è infondato;

– corretta è stata la valutazione della Corte di merito che ha ritenuto, nel complesso, prevalente la soccombenza della società. Si ricorda che, come ripetutamente affermato da questa Corte, non è neppure sufficiente a supportare una pronuncia di compensazione delle spese la mera riduzione della domanda, permanendo comunque una sostanziale soccombenza della controparte che deve essere adeguatamente riconosciuta anche sotto il profilo della suddivisione del carico delle spese (v., per tutte, Cass. 11 febbraio 2016, n. 2709, Cass. 23 gennaio 2012, n. 901,Cass. 8 marzo 2010, n. 5598). Del resto, il criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza non può essere basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna delle parti ma comporta una valutazione nel suo complesso dell’oggetto della lite (cfr. Cass. 24 gennaio 2013, n. 1703). Egualmente, nel caso di rigetto tanto dell’appello principale quanto di quello incidentale (e nella specie l’appello incidentale è stato anche parzialmente accolto) non obbliga il giudice a disporre la compensazione totale o parziale delle spese processuali, il cui regolamento, fuori della ipotesi di violazione del principio della soccombenza per essere stata condannata la parte totalmente vittoriosa, è rimesso, anche per quanto riguarda la loro compensazione, al potere discrezionale del giudice di merito (Cass. 2 luglio 2008 n. 18173, Cass. 23 maggio 1980, n. 3405);

– ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo;

– conclusivamente, essendo da condividere la proposta del relatore, il ricorso principale e quello incidentale vanno rigettati;

– la reciproca soccombenza consente la compensazione parziale delle spese di lite in ragione di un terzo; per i restanti due terzi esse rimangono a carico della ricorrente principale;

– va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento in favore del controricorrente di due terzi delle spese di lite, da attribuirsi all’avv. Aurora Notarianni, anticipatario, e compensa tra le parti la residua quota. Liquida per intero tali spese in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 24 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2017

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