Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17606 del 14/07/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 14/07/2017, (ud. 10/05/2017, dep.14/07/2017),  n. 17606

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7257-2016 proposto da:

SVILUPPO ITALIA CAMPANIA S.P.A. IN LIQUIDAZIONE, – C.F. e P.I.

(OMISSIS), in persona del liquidatore e legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO

VISCONTI 20, presso lo studio PETRACCA PIACCI DE VIVO, rappresentata

e difesa dall’avvocato ANDREA DE VIVO;

– ricorrente –

contro

V.S., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

GAETANO SCUOTTO ed ANTONIO SCUOTTO;

– controricorrente –

e contro

OBIETTIVO LAVORO S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5845/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 17/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/05/2017 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO.

Fatto

RILEVATO

che, con sentenza depositata il 17.9.2015, la Corte d’appello di Napoli rigettava il gravame proposto dalla S.p.a. Sviluppo Italia Campania in liquidazione avverso la sentenza del Tribunale di S. Maria C. Vetere, che aveva accertato l’esistenza d’un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra la suddetta società e V.S., dalla data di stipula della prima assunzione con il contratto di somministrazione del 2.9.2005, con condanna della società al risarcimento del danno da quantificarsi in separato giudizio;

che, di tale sentenza chiede la cassazione la S.p.A. Sviluppo Italia Campania in liquidazione, affidando l’impugnazione a tre motivi, cui ha opposto difese, con controricorso, il V., laddove la spa Obiettivo Lavoro è rimasta intimata;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale è stata depositata memoria da parte della ricorrente.

Diritto

CONSIDERATO

1.1. che, con il primo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 20,21,22 e 27 sul rilievo che la sentenza ha negato la legittimità della causale indicata nei contratti di somministrazione di lavoro intervenuti tra la S.p.A. Obiettivo Lavoro Agenzia per il Lavoro (somministratore) e la società ricorrente (utilizzatore) in contrasto con le indicate disposizioni e si sostiene che erroneamente la Corte abbia reputato necessaria l’indicazione puntuale e specifica delle ragioni giustificatrici del ricorso alla somministrazione a tempo determinato, in conformità alla ritenuta applicazione nel caso di specie della disciplina propria del lavoro a termine di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, con onere di specificazione della causale, anzichè verificare che quella invocata rientrava appieno tra le causali consentite dalla legge anche in relazione all’ordinaria attività dell’utilizzatore;

1.2. che, con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 20,artt. 2697 e 2729 c.c. e artt. 167,414,416,115 e 116 c.p.c., nella parte in cui la Corte territoriale ha violato il principio di non contestazione delle risultanze documentali in riferimento alle mansioni del lavoratore e alla sussistenza d’un picco di produzione eziologicamente derivante dall’intensificazione dell’attività aziendale in ragione dell’incremento delle domande di finanziamento per l’autoimpiego e l’imprenditorialità giovanile;

1.3. che, con il terzo motivo, si censura la decisione per violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, nonchè della norma di interpretazione autentica di cui alla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13 in combinato disposto con il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27 osservandosi che erroneamente è stata confermata anche la statuizione relativa alla condanna al risarcimento dei danni senza applicare la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, intervenuto nelle more del giudizio di primo grado e del quale era stata chiesta l’applicazione;

2. che il ricorso è qualificabile come inammissibile alla luce della recente pronunzia di questa Corte in relazione alla portata applicativa dell’art. 360 bis c.p.c. (Cass. s. u. 7155/2017), dovendo in questa sede essere ribadite le considerazioni, qui interamente condivise, svolte in Cass. 18046/14 (considerazioni confermate da Cass. 6.4.2016 n. 6606), su questioni analogamente prospettate dalla società ricorrente;

2.1. che è stato evidenziato che, se pure la somministrazione di lavoro trova nel D.Lgs n. 276 del 2003, artt. 20 e ss. – e non nel D.Lgs. n. 368 del 2001 – la propria specifica disciplina, anche a voler supporre l’astratta validità della causale indicata nel contratto di somministrazione, comunque essa non è stata provata, e che, in ogni caso, la mera astratta legittimità della causale indicata nel contratto di somministrazione non basta a rendere legittima l’apposizione di un termine al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, una rispondenza tra la causale enunciata e la concreta assegnazione del lavoratore a mansioni ad essa confacenti (cfr. Cass. 9.9.13 n. 20598);

che, quanto alla contestazione della necessità dell’esigenza di specificità che giustifica il ricorso allo specifico strumento contrattuale, sostenendone la ricorrente la rilevanza solo con riguardo al contratto a termine “diretto”, è sufficiente osservare che la straordinarietà o eccezionalità dell’esigenza rispetto alla ordinaria attività dell’utilizzatore è cosa diversa dalla permanente necessità del carattere temporaneo dell’esigenza produttiva, che è richiesta anche per tale tipologia contrattuale;

che non osta a tale ricostruzione – come sottolineato da Cass. 1.8.2014 n. 17540, seppure a diversi fini – la sentenza della CGUE 11.4.13, Della Rocca, emessa in sede di rinvio pregiudiziale, che ha escluso che la direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato si applichi anche al contratto a tempo determinato che si accompagni ad un contratto interinale. Ed invero, tale inapplicabilità deriva solo dal tenore del preambolo dell’accordo quadro e dall’esistenza di altra più specifica regolamentazione (la direttiva 2008/104) per il contratto a termine che si accompagni ad un contratto interinale o di somministrazione e non già da una ritenuta sua incompatibilità ontologica, a tutti gli effetti, con un puro e semplice contratto a tempo determinato (cfr, in tali termini Cass. 17540/2014 cit.);

che, nella specie, come già precisato, la Corte ha rilevato che la causale, con specifico riguardo alla prestazione resa presso l’utilizzatrice, non conteneva alcun riferimento all’effettivo contenuto dell’incremento di attività a partire dal 2005, per effetto della ripresa dei finanziamenti e delle erogazioni di fondi pubblici, con riguardo in particolare alla incidenza di tale incremento rispetto alla posizione del controricorrente che ne giustificassero l’utilizzo a mezzo della somministrazione, non essendo stato rinvenuto alcun riferimento ai “picchi di attività” invocati ed essendosi proceduto ad una vuota e formalistica riproduzione del dato normativo con riferimento al D.Lgs. n. 185 del 2000, con conseguente ritenuta irrilevanza ed inammissibilità della prova testimoniale addotta su tali generiche circostanze, peraltro dedotte soltanto negli scritti difensivi;

che la mancanza di idonea specificazione delle esigenze impedisce, in conclusione, al lavoratore prima ed al giudice poi, di verificare la riferibilità della causale alle ragioni previste dalla legge come legittimanti il ricorso alla somministrazione di lavoro temporaneo e le argomentazioni sul punto risultano congrue ed immuni da vizi di carattere logico-giuridico;

2.2. che sostiene, poi, la società ricorrente che tale rispondenza sarebbe invece emersa dalla mancata contestazione, da parte del lavoratore, delle risultanze documentali in base alle quali doveva considerarsi provata, in riferimento alle mansioni del lavoratore, la sussistenza d’un picco di produzione eziologicamente derivante dall’intensificazione dell’attività aziendale in ragione dell’incremento delle domande di finanziamento per l’autoimpiego e l’imprenditorialità giovanile;

che va, tuttavia, osservato – in conformità a quanto affermato da Cass. 18046/2014 cit. – che la doglianza muove da un’errata ricostruzione del principio di non contestazione che governa il rito speciale e ora, dopo la novella dell’art. 115 c.p.c. ad opera della L. n. 69 del 2009, art. 45, anche quello ordinario;

che, invero, fin dal proprio ricorso introduttivo di lite il lavoratore aveva già negato che nel proprio caso vi fossero in concreto ragioni che avrebbero giustificato il ricorso alla somministrazione di lavoro, di guisa che non doveva formulare altra specifica contestazione a fronte delle contrarie allegazioni della società convenuta, poichè, come precisato nei precedenti richiamati, la contestazione da parte del convenuto dei fatti già affermati o già negati dall’attore nell’atto introduttivo del giudizio non ribalta sull’attore medesimo l’onere di “contestare la altrui contestazione”, dal momento che egli ha già esposto la propria posizione a riguardo. L’onere di contestazione concerne solo le allegazioni in punto di fatto dell’avversario e non i documenti da lui prodotti (che è cosa processualmente diversa), rispetto ai quali esiste solo l’onere di eventuale disconoscimento nei casi e nei sensi di cui all’art. 214 c.p.c. o quello di proporre – se del caso – querela di falso ex art. 221 c.p.c., mentre la loro significatività o valenza probatoria può essere oggetto di discussione fra le parti in ogni momento, così come può essere autonomamente valutata dal giudice (cfr., in tali termini, Cass. 18046/14 cit.);

che, da ultimo, non gioverebbe a parte ricorrente neppure intendere il tenore della doglianza di cui al secondo motivo come sostanziale denuncia di travisamento delle risultanze processuali e/o di vizio di motivazione, trattandosi di censure non riconducibili a nessuna di quelle consentite dal vigente art. 360 c.p.c. nel testo novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n.134. Oggi la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (applicabile, ai sensi del cit. art. 54, comma 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla sentenza della cui impugnazione si discute) rende denunciabile per cassazione il vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, nei termini in cui ciò è stato meglio chiarito nella sentenza di questa Corte a s. u. 7 aprile 2014 n. 8053;

che nella vicenda processuale in oggetto è innegabile che il fatto allegato come ragione giustificativa del ricorso alla somministrazione di lavoro in relazione alle mansioni assegnate al V. (valutazione delle domande di finanziamento) è stato specificamente esaminato dalla Corte territoriale – le cui conclusioni restano insindacabili in sede di legittimità – con riferimento alla genericità anche delle allegazioni in sede giudiziale in ordine al dedotto incremento di attività rispetto all’assunzione del V. e con incidenza sulla stessa ammissibilità e rilevanza della prova testimoniale articolata, non riferita alla necessità delle molteplici proroghe dell’iniziale contratto e delle successive stipule, succedutesi nel tempo, di altri contratti sempre a tempo determinato, pure a fronte della persistente mole di lavoro sopravvenuta;

2.3. che il terzo motivo di ricorso deve anch’esso ritenersi inammissibile per la mancanza di ogni riproduzione dei motivi di gravame e di idonea pertinente censura nella presente sede in ordine alla ritenuta genericità della contestazione in appello del capo della sentenza di primo grado impugnata relativo al risarcimento del danno;

3. che sulla base delle svolte argomentazioni deve essere condivisa la proposta del relatore, risultando coerente con le prime la declaratoria di inammissibilità del ricorso e non potendo attribuirsi alcuna rilevanza, ai fini di una soluzione della controversia difforme da quella prospettata, ai rilievi contenuti nella memoria della società ricorrente;

che, invero, quanto ai due primi motivi, deve ribadirsi che correttamente è stata valutata in termini di genericità il riferimento, quale causale del ricorso alla somministrazione, all’assegnazione di fondi, con delibera CIPE, da destinare all’attività di promozione dell’autoimpiego e dell’imprenditorialità giovanile con conseguente incremento dell’ordinaria attività aziendale a fronte delle domande pervenute, in perfetta consonanza con gli orientamenti giurisprudenziali richimati, non mancando di osservarsi come l’assenza per la somministrazione a tempo determinato di una specifica disciplina limitativa delle proroghe, dei rinnovi e della durata massima debba indurre ad una interpretazione rigorosa dell’ambito operativo del requisito della temporaneità;

che, quanto ai rilievi formulati con riguardo al terzo motivo, non può che confermarsi quanto argomentato in ordine alla mancanza di specificità della censura, che non pone richiamo ai precisi termini di proposizione del corrispondente motivo di gravame avverso una decisione che aveva rinviato al giudizio di quantificazione la determinazione del danno, dovendo precisarsi che la mancanza di preclusione da giudicato, in relazione alla questione dell’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 affermata da questa Corte a S. U. secondo cui “la proposizione dell’impugnazione nei confronti della parte principale impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente, pur in assenza di impugnazione specifica di quest’ultima” (cfr. Cass., s. u. 27.10.2016 n. 21691 -punto 48-) non potrebbe essere utilmente invocata nel caso considerato in cui la proposizione dell’appello è avvenuta con deposito del ricorso in data 4.12.2012, e quindi successivamente all’entrata in vigore sia della L. n. 183 del 2010 (art. 32, comma 5), sia della L. 28 giugno 2012, n. 92 (art. 1, comma 13);

4. che le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo, in favore del V.;

5. che sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

 

dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la società ricorrente a pagare, in favore della parte costituita, le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2017

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